Eliade – Vivere nel proprio mondo

Molti anni fa uno dei miei professori all’Università di Bucarest ebbe occasione di assistere a una serie di lezioni del famoso storico Theodor Mommsen.
A quel tempo, erano i primi anni ’90, Mommsen era già molto vecchio [era nato nel mommsen1817]; ma la sua mente era ancora lucida e la sua memoria straordinariamente precisa, senza lacune.

Nella prima lezione descrisse Atene al tempo di Socrate. Andò alla lavagna e tracciò senza l’aiuto di un solo appunto la collocazione dei templi e degli edifici pubblici e mostrò i punti in cui si trovavano fonti e boschetti.
Particolarmente impressionante fu la sua vivida ricostruzione dello sfondo ambientale del Fedro. Dopo aver citato il passo in cui Socrate si informa di Lisia e Fedro risponde che sta da Epicrate, Mommsen indicò la collocazione della casa di Epicrate, spiegando che il testo specifica trattarsi della «casa di Morico vicino al tempio di Zeus olimpico».
Mommsen segnò quindi il percorso che Socrate e Fedro compirono nella loro passeggiata lungo il fiume Ilisso indicando il luogo in cui probabilmente si fermarono e tennero il memorabile dialogo: il «posto tranquillo» in cui sorgeva «l’altissimo platano».

Sebbene la lezione fosse terminata, il mio professore, pieno di ammirazione per quella sbalorditiva dimostrazione di erudizione, di memoria e di familiarità con la letteratura, esitava a lasciare l’aula della conferenza.
Vide allora arrivare un attempato servitore che, preso con delicatezza il braccio di Mommsen, lo guidò verso l’uscita.
A questo punto uno degli studenti ancora presenti spiegò che il famoso storico non sapeva tornare a casa da solo. Il maggior conoscitore vivente dell’Atene del quinto secolo era un individuo completamente sperduto nella sua stessa città, la Berlino guglielmina!

Mommsen illustra in modo esemplare ciò che significa sul piano esistenziale «vivere nel proprio mondo». Il mondo reale di Mommsen, l’unico che per lui aveva importanza e significato, era il mondo greco-romano. Per Mommsen il mondo dei Greci e dei Romani non era semplicemente storia, un passato morto recuperato con un’anamnesi storiografica; era il suo mondo, il luogo in cui sapeva muoversi, pensare e godere la gioia di essere creativo.

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Non so con esattezza se egli avesse sempre bisogno di un servitore che lo guidasse fino alla propria casa. Probabilmente no. È probabile però che come molti studiosi creativi egli vivesse in due mondi: l’universo di forme e valori alla cui comprensione aveva dedicato la vita e che corrispondeva in certo modo al mondo «ordinato in cosmo», e perciò «sacro» dei primitivi, e il mondo «caotico profano» quotidiano in cui, come direbbe Heidegger, era «deietto».

Ma a quel tempo Mommsen si sentiva staccato dal mondo profano non essenziale, dallo spazio per lui privo di significato e in definitiva caotico della moderna Berlino.
Se si può parlare di un’amnesia di Mommsen per lo spazio profano di Berlino, bisogna però riconoscere che questa amnesia era compensata da una incredibile anamnesi di tutto ciò che concerneva il suo mondo esistenziale: l’universo greco-romano. In vecchiaia Mommsen viveva ormai in un modo di archetipi.

Gli Achilpa, una delle tribù australiane Aranda, ci forniscono forse il parallelo più pertinente di questo senso di spaesamento che si prova a muoversi in uno spazio sconosciuto, caotico.
Secondo la loro mitologia, un essere divino chiamato Numbakula fece del loro territorio il «cosmo», creò il loro antenato e fondò le loro istituzioni. Col tronco di un albero della aranda-monerackagomma, Numbakula costruì poi un palo sacro, vi si arrampicò fino al cielo e scomparve. Questo palo rappresenta l’asse cosmico; è infatti attorno ad esso che la terra diventa abitabile e si trasforma in «cosmo».

Il suo ruolo rituale è, pertanto, considerevole. Gli Achilpa se lo portano dietro nelle loro migrazioni e decidono la direzione da prendere a seconda della sua inclinazione. Ciò consente loro, malgrado i continui spostamenti, di trovarsi sempre nel «loro mondo» e di restare al tempo stesso in comunicazione col cielo in cui Numbakula scomparve.
Se il palo si spezza è la catastrofe; è in un certo senso «la fine del mondo», una regressione nel caos.
Spencer e Gillen riportano una leggenda secondo cui l’intera tribù cadde in preda all’angoscia perché il palo si era spezzato. Dopo aver vagabondato a caso per qualche tempo, alla fine i membri si sedettero per terra e si lasciarono morire (The Arunta).

Questo è un eccellente esempio della necessità di «fare cosmo» [mettere cioè ordine e scoprire bellezza] della terra in cui bisogna vivere. Per gli Achilpa il «mondo» diventa il «loro mondo» solo nella misura in cui riproduce il cosmo organizzato e santificato da Numbakula. Senza quest’asse verticale che garantisce un’apertura verso il trascendente e al tempo stesso consente l’orientamento nello spazio, essi non possono vivere.
In altre parole: non si può vivere nel «caos». Una volta interrotto il contatto col trascendente e distrutto il sistema di orientamento, l’esistenza non è più possibile. E gli Achilpa non possono che lasciarsi morire.

(Eliade, Mondo Città Casa, in Occultismo, stregoneria e mode culturali)

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Vivere nel proprio mondo: hai detto niente!
Tutta la questione sta proprio in quel «proprio». Il «proprio» di Mommsen non è identificabile tout court – come invece il parallelo di Eliade vorrebbe suggerirci – col «proprio» di una tribù, né primitiva come quella degli Aranda, né moderna come può essere una delle nostre «società». Il «proprio» individuale, personale non coincide, da sempre, col «proprio» di nessun popolo, se non al prezzo di forzature e crudeltà iniziatiche, ma soprattutto di una buona dose di «nevrosi».

E così, proprio col pretesto di aprire una «via pubblica», una «via maestra» condivisa da tutto un popolo «linguistico» (tutti a condividere una stessa Metafora «madre», uno stesso «spazio» metaforico, un unico «documento» in cui tutti possano scrivere il «proprio»)… col pretesto di aprirla al trascendente (mai parola fu più abusata negli ultimi duecento anni) – a un Trascendente, è sottinteso, comune a tutti – si annacqua il racconto a proposito dei guasti e dei dissesti «molecolari» che la Mola di questo «proprio collettivo» provoca nelle singole «spighe», per farne la sua farina.

Il palo sacro alla Tribù non è che una metafora: guai a prenderla alla lettera, perché la lettera non dice che Numbakula è l’Umano piovuto dal cielo al tempo della nostra prima «intuizione», non dice che è il Calamo che venne a scrivere «contemplazioni» sulla benjamin-berlinoverticale della nostra «deiezione», uno per uno, a precipizio nell’orizzonte storico, nel linguaggio e nella vita, insomma nel tempo e nel trantran di un Popolo, e soprattutto non dice che questo Popolo col suo «proprio mondo» è, da un pezzo, sull’orlo di un precipizio – e che non potrebbe che esser così, dal momento che quel suo «proprio mondo» ha preso il vizio di farci sentire tutti «orfani» del nostro «proprio», della nostra «verticale», del nostro spazio «contemplativo», il solo che possiamo abitare senza dover ricorrere a un «servitore», o a un «dottore», che ci riporti a casa o che ci dica: è di là che si va, prenditi ogni sera questa benedetta pillola, e falla finita!

E allora su, andiamo: facciamo finta che non è successo niente, e che la Tribù dei berlinesi sapeva orientarsi (anche senza il feticcio di un palo «visibile» a tutti) nel labirinto della Città Moderna, facciamo finta che solo Berlino fu è e sarà, che solo il Popolo è, e ha sempre ragione, e che non c’è nessun mulino che macini le «contemplazioni» dei singoli bambini al tempo della loro caduta dalle stelle. Uno per uno, è proprio questo il problema.
Come facciamo a fingere di non sapere che ogni «caduto» è un mondo «espropriato» a se stesso, al suo proprio sguardo – un mondo che dovrà faticare tutta la vita di un uomo per trovare, se mai, come Mommsen nell’Atene di un Passato Remoto, e dunque in una suggestione immaginale, qualcosa di «rappresentabile» grazie a cui tenere saldo e vivo il legame col «proprio indimenticabile»?

Siamo tutti stranieri, smettiamola di raccontarci fesserie, tutti estranei al «mondo proprio» della nostra Tribù, e siamo tutti, più o meno graditi, suoi «ospiti» provvisori.
Grazie tante. Grazie per gli Indiani che continueranno a morire in Africa. Per gli Aranda che si lasceranno morire all’angolo di una strada. E per i berlinesi che, ci scommetto, continueranno a cercare casa lontano dalla «pubblica» Berlino, anche se parlano «tedesco».