Kierkegaard – Un peccato di gioventù?

… sono pochissimi gli uomini che vivono, sia pure solo in modo relativo, sotto la determinazione dello spirito, anzi non sono nemmeno molti quelli che tentano questa vita; e di coloro che lo fanno, i più se ne ritraggono presto. Non hanno imparato né a Dalì-volto-frammentitemere né a dovere; indifferenti, infinitamente indifferenti, per qualunque cosa accada.

Perciò non possono sopportare ciò che già a loro stessi sembra ormai una contraddizione, la quale, riflettendosi sul mondo esterno, si dimostra molto, molto più stridente: perché preoccuparsi della propria anima e voler essere spirito, là fuori, nel mondo sembra un perditempo, anzi un perditempo ingiustificabile che, se fosse possibile, dovrebbe essere punito dalla legge e in ogni modo viene punito con disprezzo e derisione, come una specie di tradimento contro gli uomini, come una follia ostinata che in modo insensato spreca il tempo in nulla.

Magari c’è nella loro vita un momento – ahimé! è il loro tempo migliore! – in cui cominciano a muoversi in direzione del loro intimo. Ma appena si avvicinano alle prime difficoltà, eccoli cambiare direzione; sembra loro che questa via conduca in un deserto desolato – quando poi «tutt’intorno c’è un bel pascolo verde» (Faust, 1: 1479) – e allora si incamminano verso il pascolo e presto dimenticano quel loro tempo migliore, ahimé, lo dimenticano come se fosse stato un peccato di gioventù. Sono, allo stesso tempo, cristiani – tranquillizzati dai pastori sull’affare della loro salvezza.

Questa disperazione è la più comune: è tanto comune che soltanto così si può spiegare quell’opinione, diffusa quasi come una moneta corrente, che la disperazione sia una caratteristica propria ed esclusiva della giovinezza, che si presenti solo nell’età giovanile mentre non si troverebbe nell’uomo posato, arrivato all’età adulta piena di senno.
Questa è un’aberrazione disperata, o piuttosto: è un disperato errore, a cui sfugge – e, ciò che è ancor peggio, gli sfugge che ciò che gli sfugge è quasi il meglio che si possa dire di un uomo –, quando molto spesso non succede qualcosa di peggio, che la maggior parte degli uomini, essenzialmente considerati, in fondo non riescono, in tutta la loro vita, a diventare più di quel che erano nell’infanzia e nella giovinezza: pura immediatezza con un pizzico di riflessione interiore.

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No, la disperazione non è davvero qualcosa che si trova soltanto nei giovani, qualcosa di cui ci si libera con l’età – «come ci si libera, crescendo, delle illusioni». Ma non si riesce neanche a dimostrare questo, anche se si è abbastanza sciocchi per crederlo.
Al contrario, si incontrano molto spesso uomini e donne e vecchi che hanno illusioni puerili come qualsiasi giovane. Ma non ci si accorge che l’illusione ha essenzialmente due forme: quella della speranza e quella del ricordo.
La giovinezza ha l’illusione della speranza, la persona matura quella del ricordo; ma la persona matura, proprio perché è nell’illusione, ha l’idea assolutamente unilaterale che ci sia solo e unicamente l’illusione della speranza.

E si capisce: l’illusione della speranza non turba l’uomo maturo; però lo turba, fra le altre, forse anche questa illusione piuttosto comica: cioè di guardare, da un presunto punto di vista superiore, senza illusione, senza l’illusione del giovane.
Il giovane è nell’illusione sperando di ottenere qualcosa di straordinario dalla vita o da se stesso; in compenso, nella persona matura si trovano spesso illusioni nel modo di ricordare la propria giovinezza.

Una donna anziana che crede di aver rinunziato a tutte le illusioni, finisce spesso, più di una giovinetta, per vivere un’illusione fantastica riguardo al modo di ricordare la sua giovinezza: com’era felice allora, com’era bella, ecc.
Questo fuimus che si sente così spesso sulla bocca delle persone anziane, è un’illusione relitto-nuvole-vascelloaltrettanto grande quanto quella del giovane, rivolta al futuro; tutt’e due sono bugiardi o poeti.

Ben diversa però è la disperazione che si manifesta nell’errore di credere che la disperazione appartenga soltanto alla giovinezza.
Prima di tutto, è una grande stoltezza e significa proprio non comprendere un’acca di cosa è spirito e misconoscere che l’uomo è spirito e non solo una creatura animalesca – è una grande stoltezza pensare che la fede e la sapienza vengono senz’altro con gli anni, come i denti, la barba, e cose simili.

No, a qualunque cosa l’uomo possa senz’altro arrivare, qualunque cosa possa accadergli, una cosa è certa: con gli anni, l’uomo, in un senso spirituale, non arriva senz’altro a nessuna cosa (questa categoria del «senz’altro» sta proprio agli antipodi dello spirito); invece è molto facile perdere senz’altro qualcosa con gli anni: forse si perde con gli anni un po’ di passione, di sentimento, di fantasia, quel po’ di interiorità che si aveva e si arriva senz’altro (qui, infatti, si arriva «senz’altro») a comprendere la vita sotto la determinazione della trivialità.

Questa condizione «migliorata», che veramente è venuta con gli anni, l’uomo la considera disperatamente come un bene, accertandosi facilmente (e per ironia della sorte niente è più certo) che ora non gli potrà mai più venire in mente di disperarsi – no, egli si è assicurato: egli è disperato; disperato senza spirito. Infatti, perché Socrate amava i giovani se non perché conosceva l’uomo?

E se non avviene che l’uomo, con gli anni, si abbandona alla forma più triviale della disperazione, non per questo ne consegue che la disperazione appartenga soltanto alla giovinezza.
Se un uomo con gli anni giunge ad uno sviluppo reale, se si matura in lui la coscienza essenziale del proprio io, egli può forse disperare in una forma di disperazione più alta. E se con gli anni non si sviluppa essenzialmente, senza neanche abbandonarsi assolutamente alla trivialità, cioè se continua a essere un giovane, pur essendo uomo, padre e vecchio canuto, conservando quindi qualcosa del bene che è nei giovani, allora uomo-cammina-su-binarisarà pure lui esposto alla disperazione del giovane, alla disperazione per la vita terrestre o per qualcosa di terrestre.

Certamente, ci può essere una differenza tra la disperazione di codesto anziano e quella di un giovane; però non è essenziale, bensì meramente casuale.
Il giovane si dispera per il futuro come per un praesens in futuro; c’è qualcosa che egli non vuole accettare, con cui non vuole essere se stesso.
L’anziano si dispera per il passato come per un praesens in praeterito, che non vuole diventare sempre più passato; perché non è disperato al punto che gli riesca di dimenticarsene completamente.

Questo «passato» è forse perfino qualcosa a cui si vorrebbe attaccare il pentimento. Ma perché venga fuori il pentimento, l’uomo dovrebbe prima disperarsi radicalmente, definitivamente, la vita dello spirito dovrebbe a lui scaturire dal fondo. Ma, disperato com’è, non osa lasciare che avvenga una simile decisione.
E così rimane dov’è, il tempo passa: a meno che non riesca, ancora più disperato, a guarire il male con l’oblio, eccolo che, invece di diventare un pentito, diventa il proprio aguzzino.

Ma essenzialmente la disperazione di un giovane e di un anziano è la stessa: impotente in entrambi a una metamorfosi da cui scaturisca la coscienza dell’eterno, dell’io, perché possa cominciare la lotta che, la disperazione, o la eleva a una forma ancor più acuta, o la porta alla fede.
Si tratta, in entrambi i casi, di una disperazione per il terrestre.

Ma c’è differenza tra disperarsi per il terrestre in toto e disperarsi per qualcosa di terrestre?
Sì che c’è.
Quando l’io, con una passione resa infinita dalla fantasia, si dispera per qualcosa di terrestre, la passione infinita trasforma questo «che» particolare, questo qualcosa, nel terrestre in toto: vale a dire, la determinazione della totalità dipende dalla fantasia di chi dispera. Il terrestre e temporale come tale è proprio ciò che si dissolve nel qualcosa, nel particolare.

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È impossibile perdere o essere realmente privato di tutto il terrestre, perché la determinazione della totalità è una determinazione del pensiero. L’io, dunque, prima ingrandisce infinitamente la perdita reale, e poi si dispera per il terrestre in toto.
Ma appena questa differenza (fra il disperarsi per il terrestre e per qualcosa di terrestre) acquista un valore essenziale, allora si è fatto anche un progresso essenziale nella consapevolezza del proprio io.
Lo si può formulare così: disperarsi per il terrestre, è la prima espressione dialettica per la successiva forma della disperazione – disperare per l’eterno o di se stessi.

(Kierkegaard, La malattia mortale)

***

Hai visto quel perditempo? – si occupa di anima, il vecchio rimbambito, dice di volersi prendere cura (sia pure tardivamente) del proprio spirito, lo scemo, quando poi la vita, che dico?, la realtà è altrove!
Fa’ attenzione, tieniti alla larga da costui, dice solo fesserie – e dunque sì, per coerenza, evita di dare retta a chi, più o meno svitato come Kierkegaard, ne prende le difese!
Spirito, non è roba ormai, oltre che parola, da macero? E anima, pardon, psiche – non è disperazione-studiomestiere dei soli specialisti «addetti alla disperazione», ovvero a quella disperazione che camuffiamo dietro il nome di «follia»?

Insomma, Kierkegaard cosa vuole suggerirci: un «fai da te»? un «non bussare alla porta di nessun medico, che non sia il tuo medico interiore»? un «non dare ascolto a nessun maestro, che non sia il tuo maestro interiore»? un «non affidarti a nessuna guida, che non sia la tua fidanzata immaginale»?
E poi, hai sentito che dice? – dice che gli uomini, crescendo, non diventano più di quel che s’erano immaginati di diventare nell’infanzia o in gioventù. Va dicendo insomma che le radici della loro disperazione «adulta» (quella che cercano di curarsi con le pillole o con le ricette di qualche stregone) sono i loro «peccati di gioventù», le loro illusioni – quelle a cui si aggrapparono per rimanere, a dispetto dell’utopia che li «eccitava», coi piedi per terra.

Dice che c’è una disperazione terrestre – quella che dispera per qualcosa di terrestre, e che, in mancanza di questo «qualcosa», finisce – se la sostiene una buona dose di «fantasia», o come dice Kierkegaard una «fantasia infinita», un «fantasticare interminabile» – finisce sì per espandersi fino a disperare per tutto ciò che è «di terra».
E dice che, portata fino all’estremo, questa disperazione in toto di trovare la propria soddisfazione «sulla terra», nella Storia, nel Tempo, conduce sulla soglia dell’altra disperazione, ancora più folle, ancora più disperata – se non la soccorre, dice, la fede – che è disperare dell’Eterno, disperare del destino, disperare dell’esistenza – disperare di se stessi.

Dice che quest’altra disperazione, la disperazione celeste, è a sua volta la radice di ogni disperazione: non si dispera per qualcosa di terrestre, se al terrestre non si attribuisce tanta importanza, ma se al terrestre si arriva a dare tutta questa importanza, è perché già si dispera dell’Eterno.
La disperazione dell’Eterno, dunque, se pure «si conquista» tardivamente dopo essere passati per la disperazione terrestre – è invece l’antefatto di ogni disperazione. È il «peccato originale» (infantile e giovanile) di ogni illusione che rincorre una disperazione-catenesoddisfazione «terrena». È la «devianza», da cui – guarda un po’ che pena, e che fatica! – per rimettersi sulla «retta via».

Sulla via, cioè, che porta alla consapevolezza del proprio io, a prendere atto della «debolezza» di questo «io» in cui è concentrato e ristretto quel poco di «gusto» umano per l’esistenza che ancora avanza, la coda, l’eco dell’Umano che risuona, sia pure vagamente, solo nelle illusioni dei bambini e dei giovani – perché nessuno diventa più «uomo» di quel che s’illuse di diventare allora.
Sulla via, dunque, che porta a prendere le misure di questa «restrizione» imposta al proprio «io»: imposta, ma insieme nascosta dietro il miraggio della sua grandezza «tragico-eroica».

È lì che s’annida la disperazione antica, la prima – quella che, disperando dell’Eterno, ci distolse dal prenderci cura dello Spirito, della Mente e dell’Anima dell’Uomo nella sua totalità – di quel Fuoco di cui solo una scintilla Prometeo dovette «rubare» agli dèi per tornare a illuminarci la mente.
Quella scintilla divampò nelle nostre immaginazioni infantili, quella scintilla accese il falò delle nostre illusioni giovanili: e a quella scintilla dobbiamo risalire, per rivedere tutto il «cielo» che avvistammo dalla «terra» di una antica – la prima, disperazione. La prima… angoscia di morte – quella che ci iniziò a disperare dell’Eterno. Perché l’Eterno ci respinse… di qua dalle Simplegadi, deboli, piccini e impotenti «nullità»… se non fosse che per quello Spirito, e quella Mente, e poi, nientemeno, quell’Anima, cocciutamente ci ostiniamo, disperatamente, a volerci sentire qualcuno, e a voler valere qualcosa.