… un «campo» (ma, volendo, perché no? un «giardino») dove fioriscono certi strani «papaveri bianchi»: a vederli di lontano sembrano tutti uguali, ma se solo ti accosti un poco, ti accorgi che sono animati da «differenze di intensità», da differenti tensioni (nervose): è così che il Filosofo prova a rappresentarsi la «vita biopsichica» (come vedi: senza decidere il confine, se confine c’è, tra il suo essere biologico e quello psichico; senza recidere dunque l’anima dal corpo, anzi riproponendo la domanda che fu già di Freud: donde viene quella cosa che chiamiamo «piacere»? donde s’innesca quel «processo» di cui cogliamo il primo atto nella libido di Narciso? dalla «natura» protozoica degli antenati dei nostri geni, o – come dice la canzone di Natale – a noi discende direttamente dalle stelle?).
Quel che chiamiamo «piacere», dice il nostro Filosofo, in fondo che altro è se non la risoluzione delle «differenze»? che altro se non la «distensione» del campo di papaveri? che altro se non lo spegnimento, la pacificazione delle sue tensioni?
Non disturbare la loro sonnolenza – ecco la regola «omeostatica» che regna sovrana nel Giardino (di paradiso). Lasciate che i fiori dormano in santa pace (principio di realtà). Che il giorno si destino alla luce del sole, e la notte dormano in quel chiaro di luna che, visti di lontano, li fa sembrare tutti bianchi, innocenti, «argivi».
Ma la domanda del Filosofo è ancora più sottile di quanto richieda, almeno all’«equatore», la «eguale» alternanza periodica del giorno e della notte nei calcoli dell’omeostato biopsichico.
Se questo «campo», dice, è l’Es freudiano – lo stadio primario, arcaico dell’Es di Freud, se è il «fondo» della «vita» da cui sorge e risorge continuamente l’«umano»… allora, il «biancore dei papaveri» non deve ingannarci. Il campo non è che alla lontana una «distesa quieta», letargica e spensierata. Esso anzi è in continuo movimento, in perpetuo divenire. A ogni eccitazione della luce, a ogni increspatura delle sue frequenze d’onda, a ogni stimolazione che lo stressa, il campo… risponde, reagisce per risolvere le «differenze», le «disparità» e le «ingiustizie», secondo la suddetta regola «omeostatica».
La domanda del Filosofo può dunque essere così circoscritta: quand’è che questo «movimento», questo «processo» di distribuzione pianificata e di risoluzione delle tensioni, giunge ad assumere la forza, e la potenza di diktat, di un Principio, ovvero di qualcosa di irrevocabile – qualcosa come un Inizio senza Passato?
Quand’è, insomma, che i papaveri cominciano a fiorire «meccanicamente» dal seme di questo smemorato Principio di memoria, che è l’Es al suo secondo grado d’esistenza?
La parola d’ordine è, alla lettera, ancora quella di Freud: andare al di là del principio di piacere, andare cioè, non in cerca di eccezioni al piacere, ma in cerca delle condizioni che hanno fatto sì che il piacere divenisse il principio della nostra vita biopsichica. È andare là dove i papaveri hanno sì piacere della notte e del giorno, ma di questo piacere non hanno fatto ancora la regola della loro fioritura.
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La vita biopsichica implica un campo d’individuazione in cui differenze d’intensità si distribuiscono variamente, sotto forma di eccitazioni. Si chiama piacere il processo, qualitativo nonché quantitativo, di risoluzione della differenza.
Un tale insieme, ripartizione mobile di differenze e risoluzioni locali in un campo intensivo, corrisponde all’Es freudiano, perlomeno allo strato primario dell’Es. Il termine Es non designa soltanto in questo senso un pronome temibile e sconosciuto, ma anche un luogo mobile, un qui e là delle eccitazioni e delle loro risoluzioni.
E qui comincia il problema di Freud: si tratta di sapere come il piacere cesserà di essere un processo per divenire un principio, di essere un processo locale per assumere il valore di un principio empirico che tende a organizzare la vita biopsichica nell’Es.
È evidente che il piacere reca piacere, ma ciò non costituisce affatto una ragione perché assuma un valore sistematico o venga eretto a principio. Che è quanto vuol dimostrare innanzitutto l’Al di là del principio di piacere: non certo delle eccezioni a questo principio, ma viceversa la determinazione delle condizioni in cui il piacere diviene effettivamente principio.
La risposta freudiana è che l’eccitazione come libera differenza deve, in un certo senso, essere «investita», «legata», incatenata, in modo tale che la sua risoluzione sia sistematicamente possibile.
È il legame o l’investimento della differenza che rende possibile in generale, non certo il piacere stesso, ma il valore di principio assunto dal piacere: si passa così da uno stato di risoluzione disordinata a uno statuto d’integrazione, che costituisce il secondo strato dell’Es o la base di un’organizzazione.
Ora, questo legame è una vera e propria sintesi di riproduzione, vale a dire un Habitus. Un animale si forma un occhio determinando eccitazioni luminose sparse e diffuse a riprodursi su una superficie privilegiata del proprio corpo. L’occhio lega la luce, ed è a sua volta una luce legata.
Questo esempio dimostra sufficientemente quanto la sintesi sia complessa, poiché si dà sì un’attività di riproduzione che assume per oggetto la differenza da legare, ma in senso più profondo si dà una passione della ripetizione, da cui deriva una nuova differenza (l’occhio formato o l’io che vede).
L’eccitazione come differenza è già la contrazione di una ripetizione elementare. Nella misura in cui l’eccitazione diviene a sua volta elemento di una ripetizione, la sintesi contraente è elevata a una seconda potenza, esattamente rappresentata dal legame o dall’investimento. Gli investimenti, i legami o integrazioni sono sintesi passive, contemplazioni-contrazioni di secondo grado. Le pulsioni non sono altro che eccitazioni legate. Al livello di ogni legame, un io si forma nell’Es, ma un io passivo, parziale, larvale, contemplante e contraente.
L’Es si popola di io locali, che costituiscono il tempo proprio dell’Es, il tempo del presente vivente, dove si operano le integrazioni corrispondenti ai legami. Che questi io siano immediatamente narcisistici si spiega facilmente ove si consideri che il narcisismo non è una contemplazione di sé, ma il compimento di un’immagine di sé quando si contempla altra cosa: l’occhio, l’io che vede, si riempie di una immagine di sé contemplando l’eccitazione che lega, e si produce a sua volta o «si sottrae» a ciò che contempla (e a ciò che contrae e investe per contemplazione). Ciò spiega perché la gratificazione che deriva dal legame è forzatamente una soddisfazione «allucinatoria» dell’io stesso, benché l’allucinazione non contraddica affatto qui il carattere affettivo del legame. Comunque, il legame rappresenta una sintesi passiva pura, un Habitus che conferisce al piacere il valore di un principio di soddisfazione in generale, in quanto l’organizzazione dell’Es è quella dell’abitudine.
Il problema dell’abitudine è quindi mal posto quando si subordina l’abitudine al piacere. Talora si pensa che la ripetizione nell’abitudine si esplichi attraverso il desiderio di riprodurre un piacere ottenuto, talaltra che possa concernere tensioni in sé spiacevoli, ma per dominarle, nell’intento di un piacere da ricavarne.
È chiaro che queste due ipotesi presuppongono già il principio di piacere: l’idea del piacere ottenuto, l’idea del piacere da ottenere non agiscono se non in ordine al principio, e ne formano le due applicazioni, quella passata e quella futura.
Ma l’abitudine, come sintesi passiva di legame, precede viceversa il principio di piacere e lo rende possibile. Ne deriva l’idea di piacere, come il passato e il futuro, si è visto, derivano dalla sintesi del presente vivente.
Il legame ha come effetto l’instaurazione del principio di piacere, e non può avere come oggetto qualcosa che presupponga tale principio. Quando il piacere acquista la dignità di un principio, allora e soltanto allora l’idea di piacere agisce come sussunta dal principio in un ricordo o in un progetto.
Il piacere trascende la propria istantaneità per assumere l’andamento di una gratificazione in generale (e i tentativi per sostituire, all’istanza del piacere giudicata troppo soggettiva, concetti «oggettivi» quali quelli di riuscita o di successo, testimoniano ancora dell’estensione conferita dal principio, in condizioni tali che l’idea di piacere, questa volta, è soltanto passata nella testa di chi la sperimenta).
Empiricamente è possibile vivere la ripetizione come subordinata a un piacere ottenuto o da ottenere. Ma nell’ordine delle condizioni, la situazione è rovesciata. La sintesi di legame non può spiegarsi con l’intenzione o lo sforzo di dominare un’eccitazione, benché essa abbia questo effetto. Ancora una volta ci si deve guardare dal confondere l’attività di riproduzione con la passione di ripetizione che nasconde.
La ripetizione dell’eccitazione ha come vero oggetto di elevare la sintesi passiva a una potenza da cui discendano il principio di piacere e le sue applicazioni, futura e passata. La ripetizione nell’abitudine o la sintesi passiva di legame sta dunque «al di là» del principio.
Questo primo «aldilà» costituisce già una sorta di Estetica trascendentale. Se tale estetica sembra più profonda di quella kantiana, ciò dipende dal fatto che definendo l’io passivo mediante la semplice ricettività, Kant dà le sensazioni come già fatte, riferendole soltanto alla forma a priori della loro rappresentazione determinata come spazio e tempo.
Con ciò, non soltanto egli unifica l’io passivo vietandosi di comporre lo spazio per gradi, non soltanto priva l’io passivo di ogni potere di sintesi (essendo la sintesi riservata in lui alla sola attività), ma scinde inoltre le due parti dell’Estetica, l’elemento oggettivo della sensazione garantito dalla forma di spazio, e l’elemento soggettivo incorporato nel piacere e nella sofferenza.
Le precedenti analisi miravano invece a mostrare che la ricettività deve essere definita dalla formazione di io locali, da sintesi passive di contemplazione o contrazione, che rendono conto nello stesso tempo della possibilità di provare sensazioni, della facoltà di riprodurle e del valore di principio assunto dal piacere.
(Deleuze, Differenza e ripetizione)
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Una volta che hai passato le Simplegadi, mia cara nave «argiva» (il tuo nome tra i Dottori è Es) – hai fatto prendere ai tuoi marinai il vizio di sentirsi a casa, ciascuno nella lontananza dal suo Passato. Uno per uno, hai offerto a ciascun «io» un Presente – un nuovo orizzonte da cui contemplare i suoi «legami» con l’Altro.
Ma, in tutta la dovizie d’immagini spaventose e/o di stupefazioni gaudenti che costellano le nuove contemplazioni di ciascun marinaio, la domanda intrigante che il Filosofo qui ci suggerisce è questa: anziché dare per scontato che la «psiche» legherebbe le eccitazioni «corporee» (le «sensazioni») al solo scopo di tenerle omeostaticamente sotto controllo e di dominarle, non sarebbe il caso di prendere atto che questo è quanto ci risulta solo dopo aver passato le Simplegadi? che questo ci «pare», perché lo vediamo da qui – alla luce del «principio», e non affondando lo sguardo nel processo da cui detto «principio» è sorto? da qui – dove, ormai, funzioniamo come «macchine» macchinate dall’Es?
Se abbiamo preso il «vizio del piacere», è solo dacché ci siamo organizzati a funzionare al servizio dell’Es. Dacché, del nostro primitivo «Corpo senz’organi», del nostro «Passato disorganizzato», di qua dalle Simplegadi non ci resta che un brandello, un relitto del legno della Nave, a cui appigliarci.
Solo da allora ci è successo di prendere l’abitudine al piacere – quel che si dice appunto «principio di piacere». Se però l’abbiamo presa, è perché ce l’avevamo già l’abitudine. Avevamo il piacere dell’abitudine. Ci piaceva l’abitudine. La frequentazione del solito ci dava piacere. Un piacere della Madonna. O forse, alla Dante, addirittura un piacere alla Madonna. Una devozione all’Abitudine, più intima, più profonda di ogni «principio», compreso quello del piacere.