… poiché possedere delle qualità presuppone una certa soddisfazione di constatarle reali, è lecito prevedere come a uno cui manchi il senso della realtà anche nei confronti di se stesso possa un bel giorno capitare di scoprire in sé un uomo senza qualità …
Ulrich era un uomo passionale, ma per passione non si deve qui intendere le singole passioni. Doveva esserci stato qualcosa che sempre e sempre tornava a spingerlo verso di esse, e questo forse era passione, ma anche in stato di eccitazione e di azioni eccitate il suo contegno era allo stesso tempo appassionato e indifferente.
Aveva fatto all’incirca tutte le esperienze che si possono fare e sentiva che anche adesso avrebbe potuto precipitarsi a ogni momento in qualche cosa di cui magari non gli importava nulla, purché stimolasse il suo bisogno d’attività.
Con poca esagerazione poteva quindi dire che nella sua vita le cose s’erano svolte come se fossero legate l’una all’altra piuttosto che a lui.
Ad A era sempre seguito B, che si trattasse di battaglie oppure d’amore. E così s’era anche dovuto convincere che le qualità in tal modo acquistate, più che con lui erano connesse fra loro, anzi ciascuna di esse, se esaminava bene se stesso, non aveva più strettamente da fare con lui che con altri individui che a loro volta le possedessero.
Senza dubbio però le qualità determinano l’uomo e lo compongono anche se egli non è identico ad esse, e quindi talvolta si appare estranei a se stessi tanto in stato di riposo quanto in fase di attività.
Se Ulrich avesse dovuto dare di sé una definizione si sarebbe trovato in imbarazzo, perché, come molti altri, non aveva mai studiato se stesso che in rapporto a un problema e alla sua soluzione. La coscienza di sé non aveva sofferto danno, e nemmeno era viziata e frivola; le era ignoto quel bisogno di ripassare e lubrificare il motore che è chiamato introspezione.
Era un uomo forte? Non lo sapeva; forse su quel punto era fatalmente in errore. Ma certo era sempre stato un uomo che fidava nella propria forza. Anche adesso non dubitava che la differenza fra l’attivo delle proprie esperienze e qualità e il loro rimanere estranee a lui fosse soltanto una diversità d’atteggiamento, in certo senso una volizione o la scelta di vivere a un punto determinato posto fra la generalità e la personalità.
In parole semplici, si può prendere di fronte alle cose che ci capitano o che noi facciamo un atteggiamento più generale o più personale. Di una percossa si può risentire oltre al dolore, anche l’offesa, e allora diventa insopportabile; ma si può anche accettare sportivamente, come un ostacolo che non ci deve né intimidire né mandare in bestia, e allora, nove volte su dieci, non ce ne accorgeremo neanche.
In questo secondo caso il colpo ricevuto viene semplicemente incasellato in un complesso più vasto, quello cioè del combattimento, e la sua essenza è chiaramente subordinata al compito che deve svolgere.
E questo fenomeno, che un’esperienza non riceve il suo significato, anzi il suo contenuto, se non dalla posizione in una catena di azioni conseguenti, si osserva in ogni uomo che non la consideri una vicenda puramente personale bensì una sfida alla sua forza spirituale.
Anch’egli, allora, sentirà più debolmente le proprie azioni; ma, cosa strana, quello che nel pugilato si considera forza superiore dello spirito, quando sorge in uomini alieni alla boxe per tendenza a una spirituale condotta di vita, diventa freddezza e mancanza di sentimento.
C’è tutto un assortimento di distinzioni per applicare ed esigere secondo i casi un atteggiamento personale oppure generale. Un assassino che procede obiettivamente, è accusato di brutalità aggravata; un professore che nelle braccia della sposa continua a inseguire i suoi calcoli, è tacciato di gelida aridità; un uomo politico che per ascendere calpesta mucchi di avversari annientati vien proclamato, secondo il successo, uno scellerato o un grand’uomo; ma da soldati, carnefici e chirurghi invece si esige l’irremovibile tenacia che negli altri è condannata.
Non occorre soffermarsi più a lungo sulla morale di questi esempi per notare l’incertezza con la quale si stringe ogni volta il compromesso fra azione obiettivamente giusta e azione individualmente giusta.
Questa incertezza serviva d’ampio sfondo al problema personale di Ulrich. In altri tempi si poteva vivere da individuo con miglior coscienza che oggi. Gli uomini erano come calami di grano; Dio, il fuoco, la grandine, la pestilenza e la guerra li scuotevano forse con più violenza che adesso, ma tutti insieme, a città, a regioni, come campo; e quel tanto di movimento personale che restava in più a ogni singolo calamo era nettamente delimitato e se ne poteva assumere la responsabilità.
Oggi invece la responsabilità ha il suo punto di gravità non più nell’uomo ma nella concatenazione delle cose. Non s’è notato come le esperienze si siano rese indipendenti dall’uomo? Sono andate sul teatro, nei libri, nelle relazioni di scavi e di viaggi, nelle comunità di fede e di religione, che coltivano certe varietà d’esperienze a spese delle altre come in un esperimento sociale; e se per caso le esperienze non si trovano nel lavoro, son semplicemente sospese nell’aria; chi può dire ormai, oggigiorno, che il suo sdegno è per davvero il suo sdegno, se tanta gente gli toglie la parola di bocca e la sa più lunga di lui?
È sorto un mondo di qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive, e si può quasi immaginare che nel caso limite l’uomo non potrà più vivere nessuna esperienza privata, e il peso amico della responsabilità personale finirà per dissolversi in un sistema di formule di possibili significati.
Probabilmente la decomposizione del rapporto antropocentrico che per tanto tempo ha posto l’uomo come centro dell’universo, ma è in ribasso da secoli, è giunta finalmente all’Io, perché l’idea che l’importante dell’esperienza è il viverla, e dell’azione il farla, incomincia a sembrare un’ingenuità alla maggior parte degli uomini.
Ci sono ancora persone che vivono molto personalmente; dicono «ieri siamo stati dal tale e dal tal’altro», oppure «oggi facciamo questo e quest’altro» e ne son contenti, senza bisogno di altro significato e contenuto. Amano tutto ciò che toccano con le dita e sono tanto esclusivamente persone private quanto è possibile esserlo; appena ha da fare con loro, il mondo diventa un mondo privato e brilla come un arcobaleno. Forse sono molto felici; ma quella specie di gente appare già assurda, di solito, a tutti gli altri, sebbene non si capisca ancora bene il perché.
E a un tratto, davanti a queste perplessità, Ulrich dovette confessare sorridendo a se stesso, di essere nonostante tutto un carattere, pur senza averne uno.
(Musil, L’uomo senza qualità: 39)
***
Sono rimaste solo le scimmie a fare teatro. L’Umano è stato bandito dalla Scena. Per scrivere un copione, un libro o un aforisma, bastano i Personaggi, i Caratteri, le Qualità, le Passioni da «scimmiottare». All’Uomo, a ciò che resta dell’Uomo, a quell’unghia dell’alluce dell’Uomo che è la sua Scimmia, altro non resta che interpretare «ruoli» già dati, già recitati migliaia e migliaia di volte. Quel poco che avanza dell’Uomo, quell’«io» che confina con la libidine della Scimmia, non ha che da farsi «scritturare» per la Sceneggiata Sociale. Non ha che da «rappresentare» l’Altro, se vuole esserci anche lui.
Voglio sperare che li hai riconosciuti anche tu – i Personaggi che calcano la Scena, i Tipi, i Caratteri, sono i Fantasmi Inconsci a spasso nel Racconto: i Fantasmi con le loro astuzie, con le loro attitudini, con le loro religioni, morali e superstizioni annesse e connesse. Sono i Fantasmi coi loro appetiti e desideri che chiedono, anzi pretendono, d’essere appagati. E il prezzo da pagare alla loro soddisfazione, a quanto pare, è che bisogna saper fare a meno dell’Uomo sulla Scena.
(Vuoi vedere che è questo che Buddha voleva dire: che il vero peccato non è il «desiderio», ma ridursi a soddisfare il «desiderio» di Fantasmi?)
Qualità senza l’uomo, passioni vaganti – ciascuna per conto suo, disgiunta Sirena, «nubile» immaginazione, che si appiccica all’«io», che gli succhia l’anima, che gli invade i sogni fino a sfrattarne quanto ancora può esservi di personale, e a fare così spazio solo al generale.
Vizi infantili, abitudini contratte, sintesi di riproduzione e di imitazione dell’Altro, e poi, da qui, «concetti» e «princìpi», «categorie» e abracadabra vari. Parole d’ordine sociali – il Socio non essendo nessun altro che l’Altro, il Racconto che le tramanda.
E tutto questo, a quale scopo?
Solo perché i Fantasmi possano infine sposarsi, e «vivere felici e contenti»?
Sono loro, le Passioni, che si congiungono e si disgiungono a vicenda. Sono loro gli anelli che si concatenano in una successione. Sono loro, ahimé è triste dirlo, loro – il Popolo a cui ci troviamo «iscritti» a nostra insaputa.
Sono usciti dal Mito, dal Teatro, dal Racconto per invasarci uno per uno, e per ridurci al loro servizio.
Conosco molta gente – diceva Chateaubriand – che non si sarebbe mai innamorata, se non avesse sentito dire di amore.
Conosco molti sudditi – disse Dario III re di Persia – che vorrebbero vedermi morto, ma che non mi uccidono perché non avrebbero più un Fantasma su cui concentrare il loro odio.
Le Scimmie sono «macchine» d’amore e d’odio: fanno la parte, e sono tanto più brave a fare amore e a fare odio, quanto più mancano di «carattere» proprio.