Heidegger – La verità della Storia

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Perfino uno storico del rango di Jacob Burckhardt, anzi proprio lui, si muove entro l’orizzonte di «bilanci», «stime», «quote» e «costi», e calcola la storia secondo lo schema «civiltà e barbarie».
Anche Nietzsche pensa entro questo schema tipico del diciannovesimo secolo: egli fa del «valutare in valori», cioè del calcolare, la forma ideale del pensiero metafisico occidentale.

All’inizio del ventesimo secolo, mantenendosi esclusivamente sul terreno della metafisica di Nietzsche e senza alcun pensiero metafisico originale, lo scrittore Oswald Spengler ha tratto un «bilancio» della storia occidentale e ha annunciato il «tramonto dell’Occidente».
Oggi come nel 1918, quando apparve il pretenzioso libro che reca questo titolo, tutti gli ingordi cercano di addentare soltanto il risultato finale di tale «bilancio», senza mai meditare su quali siano le concezioni di fondo della storia su cui si basa questo bilancio a buon mercato del tramonto, che era già stato lucidamente calcolato da Nietzsche, anche se in modi e dimensioni ben diversi.

È vero che la corporazione degli studiosi seri ha contestato al libro una serie di «scorrettezze», ma il risultato significativo di tutta la faccenda è che da allora la storiografia stessa si muove sempre più entro le prospettive e gli schemi del ciclo storico crawford-spenglerspengleriano, anche nei casi in cui essa compie naturalmente osservazioni «più corrette» e «più esatte».
Solo a un’epoca che aveva già rinunciato a ogni possibilità di meditazione e di pensiero uno scrittore poteva offrire un’opera la cui realizzazione è parimenti frutto di uno splendido acume, un’enorme erudizione, un forte talento per la tipizzazione, una singolare presunzione nel giudizio, una rara superficialità di pensiero e una totale fragilità dei fondamenti.

In presenza di una superficialità culturale e di una vacuità di pensiero sconcertanti, ci si trova quindi di fronte alla strana situazione in cui proprio coloro che si indignano per la preminenza del modo di pensare biologico nella metafisica di Nietzsche sono invece a loro agio nella prospettiva del tramonto tracciata dal quadro storico spengleriano, a sua volta fondata ovunque ed esclusivamente su una grossolana interpretazione biologica della storia.

A partire dal diciannovesimo secolo il modo moderno di pensare la storia parla spesso di Sinngebung, ovvero di «attribuzione di senso». Ci si comporta cioè come se l’uomo potesse «conferire» un «senso» alla storia traendolo da sé, come se egli avesse qualcosa da prestare e come se la storia avesse bisogno di un prestito simile, tutte cose che presuppongono che la storia sia «in sé» originariamente priva di senso e debba ogni volta attendere cortesemente l’«attribuzione di senso» da parte dell’uomo.
Ciò che l’uomo può fare in rapporto alla storia è invece prestarle attenzione e preoccuparsi che non gli nasconda e non gli neghi il suo senso.

Ma l’uomo ha già perduto il senso della storia nel momento in cui, come mostra il caso Spengler, ha privato se stesso della possibilità anche soltanto di pensare che cosa sia mai ciò a cui, nella fretta di trarre «bilanci» «storiografici», si attribuisce la parola «senso».
Il «senso» è la verità in cui sempre riposa l’ente in quanto tale. Il «senso» della storia è però l’essenza della verità, in cui resta di volta in volta fondato quel che vi è di vero nelle epoche dell’umanità.
Che cosa sia l’essenza del vero lo esperiamo solo in base all’essenza della verità, che sempre fa sì che un vero sia il vero che è. Ecco perché si deve cercare qui e ora di riflettere sull’essenza della verità, avvicinandoci ad essa passo dopo passo.

(Heidegger, Parmenide)

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Non attribuire senso alla storia, non prestare alla storia i propri schemi più o meno «ciclici», i propri ritornelli «pessimistici», i propri presagi di (Corvi al) «tramonto», le nostre fobie di morte, ma – al contrario – rimanere in ascolto di ciò che la Storia ci dice per vedere di riuscire noi, semmai, ad afferrare il suo «senso», la direzione in cui essa ci trascina.
Questo, se leggo bene, è il monito di Heidegger.

Perché la Storia «parla», e tutto sta nel saperla «udire». Dal fondo della Storia ci «parla» qualcuno, e noi facciamo fatica anche solo a dare credito alla sua «verità». Noi, la sua «verità», la Verità che la Storia ci annuncia per conto e a nome di qualcuno, ce la nascondiamo, cocciutamente ci turiamo le orecchie per non «sentirla». Perché questa «verità» è sensibile, si aggira nei nostri «sensi», ed è in cammino nei nostri «sentimenti», e soprattutto in quelli più avventurosi, e che più s’azzardano lontano dai giudizi «storiografici», per non esserne castrati in anticipo.
La Storia siamo sensibilmente noi! Noi – è quel «qualcuno» a cui ci neghiamo, quando gli vogliamo imporre la museruola dei nostri schemi «simbolici».

Due questioni, a volo: la prima, va da sé, concerne il senso che si dà alla qui evocata «verità» e, ancor di più, alla sua (pretesa) «essenza» (forse che queste due parole «magiche», a cui i filosofi ricorrono per esibirsi nei loro giochi di prestigio, non sono pur duchesne-faustesse degli «schemi»?); la seconda, invece, riguarda quel fugace accenno che Heidegger qui fa al «pensare biologico» di Nietzsche (non vedi che è la stessa «accusa» che, più tardi, Lacan muoverà all’«istinto di morte» di Freud?).

La Storia è «vera»: se proprio dobbiamo trascinarci appresso questo «relitto» giuridico della vecchia metafisica che è la parola «verità» (dal latino vereor, aver paura, riverenza, della sentenza del Giudice), allora sia: la Storia ha da dirci la sua «verità», ma nel senso greco della parola: la Storia è alêthé, è cioè «svelarsi del Velo», è «rendersi indimenticabile della Dimenticanza», è «venire alla Luce della Notte dell’incoscienza».
Intendi bene: è il Velo che si svela, è l’Oblio che si dà memoria, è l’Oscurità che si trova presa in un’Evidenza che la folgora.
La Storia è «scoperta» del Nascosto, è epifania del Futuro che porta inscritto, a lettere misteriose, nel suo Passato. Non basta dunque saper leggere i distinguo tra vero e falso, per decifrare i suoi segni enigmatici.

Questi segni sono «scritti» in ciascuno di Noi – non nei libri, non nei documenti «storici», non nella pignoleria dei loro scrupolosi studiosi. Il «senso» della Storia non è là fuori che bisogna cercarlo, nei cosiddetti «avvenimenti» o «fatti storici», e nemmeno lo si rintraccia (così giusto per saltare alla seconda questione) nei nostri «istinti», nella nostra «natura (biologica)». Il «senso», è la Storia che viene a imporcelo – a uno per uno, viene a scrivercelo dentro. Ci si stampa in mente, da bambini, una tantum.
Non la Storia dei «fatti storici» o dei «partiti politici», ovviamente – ma la Storia del «divenire uomo» in cui fummo a suo tempo presi noi, i nostri sensi e i nostri sentimenti. La Storia del «manifestarsi di ciò che è nascosto nel cucciolo dell’uomo», e che si fa avanti, urge, e domanda futuro.

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Lo senti anche tu che è il Passato a pretendere Futuro, a volere una storia, magari un’altra storia, e poi trovarsi, comunque, ad obbedire a quella oscura quanto insistente pretesa a cui i nostri sensi sono «veramente» legati?
Il Passato è il Velo che vuole svelarsi a se stesso: il Presente e il Futuro non sono che le sue «due dimensioni» postume. Il Passato è il Tronco spezzato in due dalle corna di Bisonte. Comprendi l’allusione?

Non siamo figli di un «gene protozoico», ma di un «genio chiacchierone». Non siamo malati che di «parole umane», di quel che «si dice» essere uomo.
Dal fondo del Passato, dal Legno dell’Albero «dimezzato» (quando Uno divenne Due), dalle Radici della Diadequalcuno, NOI veniamo a sentire il suo presente e a presentire il suo futuro, nominandoli.
Non c’è niente di «giuridicamente vero» nei nomi «storici». Ciò che realmente è in cammino nella Storia, la sua «verità» sempre latitante, si scrive e s’impone – essa a noi – stampandosi traumaticamente nella frattura tra il cielo e la terra del nostro (primitivo) spazio immaginale. La sua «verità» ci stupra i sensi e i sentimenti, e forse perciò, fin da bambini, ci spinge a vaticinare tramonti e occidenti. Perché è al Tramonto del Passato, che la Storia comincia a svelarsi a nome e per conto di qualcuno che sempre latita.

La «verità» della Storia è, dunque, a noi la realtà più Vicina e la più Lontana. Non la si ritrova cercandola nelle parole, né dell’Oriente né dell’Occidente, né del Filosofo né del otto-dix-albero-spezzatoBiologo, e ancor meno del Mistico o dell’Antropologo.
Essa è inscritta in noi, dacché ci segò in due, verticalmente – lungo le due opposte correnti spinali dei nostri nervi – nell’istante remoto (e rimosso) in cui ci trasse via dall’Inconscio Spensierato: allorché si appiccicò al nostro primo tormento e ci tolse nientemeno… l’appetito.

Siamo figli della Parola Passata. Ci è passata sopra come un carro armato. Come può essere nelle parole la sua Verità?
Siamo troppo umani, troppo chiacchieroni per riconoscere, so che Platone avrebbe detto: per rammemorare, la nostra propria alêthé, il nostro primo lume di presenza a noi stessi attraverso il linguaggio simbolico. Siamo figli della Parola a cui abboccammo nel miraggio di una Presenza Madre al centro del nostro universo.
Non c’entra il gene biologico, non c’entra l’istinto di morte – c’entra, semmai, la spezzatura di un «vecchio legame» (a dir poco, affettivo) col Passato e con la sua passione preverbale, infraverbale, per la Dimenticanza.

La Storia, la Storia «vera», è quella che succede a ciascuno di noi passando tra le (Rupi Cozzanti delle) parole, dal Passato immaginale alle sue due postume dimensioni simboliche (Presente e Futuro).
Mi pare di averlo già sentito dire: come una tempesta, la Storia ci assalì al passaggio delle Simplegadi. La nostra Nave andò in mille pezzi. Si ruppe lo Spazio «materno». Dovemmo perciò arrangiarci a intrecciare gli spaghi, per dare forma e volume, alla nuova «piega» che quello Spazio prese curvandosi nella nostra mente.