Dobbiamo considerare ognuno di noi, esseri animati, come una marionetta fabbricata dagli dèi: che essi l’abbiano fabbricata per divertimento, o per uno scopo serio – questo non lo sappiamo.
Ciò che invece sappiamo è che queste nostre passioni sono come corde o fili interiori, che ci tirano e che, essendo diverse e intrecciate tra loro, ci trascinano in senso contrario verso azioni opposte; ed è in ciò che sta la differenza tra virtù e vizio. La ragione ci consiglia di assecondare una sola di queste corde, e di non perdere il filo resistendo alla trazione delle altre corde: è la corda aurea della ragione.
(Platone, Leggi, 1: 644)
L’immagine deriva certamente dalla famosa «corda d’oro» con la quale Zeus poteva tirare a sé ogni cosa: cfr. Iliade, 8: 1-27. Come è stato notato, Omero trasponeva a sua volta un gioco di adolescenti. Infatti, «i Greci conoscevano come noi il gioco in cui due squadre opposte tirano le estremità di una fune, ciascuna dalla sua parte, per provare le loro rispettive forze. È a una prova del genere che Zeus sfida gli dèi. Soltanto che la corda non verrà tirata orizzontalmente, ma verticalmente, il solo Zeus restando nelle altezze del cielo, mentre in basso gli altri dèi si attaccheranno alla terra. Zeus ha la forza di tirare sia gli dèi che la terra fino all’Olimpo, per poi appendere il tutto, a guida di trofeo, a una delle cime della montagna divina» (Lévèque, Aurea Catena Homeri).
Non è escluso che questo aneddoto rifletta il ricordo cancellato di un tema mitico indoeuropeo. Ma sono soprattutto le interpretazioni simboliche della corda d’oro che interessano la nostra ricerca.
Infatti, fin dall’epoca arcaica, la corda d’oro di Zeus è stata associata «ora ai vincoli che incatenano l’universo in una indistruttibile unità, ora a quelli che collegano l’uomo con le potenze superiori» (Lévèque, ibidem).
Così, nel poema orfico che gli studiosi hanno chiamato la Teogonia rapsodica, Zeus interroga la Notte: «O madre, massima fra le divinità, Notte divina, dimmi, come debbo stabilire il mio fiero dominio sugli immortali? In che modo, grazie a me, il tutto potrà essere uno, con le sue parti ben distinte?».
«Circonda tutte le cose – gli risponde la Notte –, avvolgile con l’ineffabile etere, poi nel mezzo colloca il cielo, e la terra illimitata, e il mare, e tutte le costellazioni di cui il cielo è coronato. Ma quando tu tenderai un solido legame intorno a tutte le cose, attaccando una catena d’oro all’etere…».
Si tratta certamente di una idea arcaica, perché Zeus chiede consiglio a una divinità cosmologica, la Notte.
«Dal punto di vista spirituale, si è vicini alla Notte presentataci dal canto XIV dell’Iliade, così potente da salvare Hypnos dalla collera del signore degli dèi (…); e si è anche vicini alla Notte primordiale della Teogonia di Esiodo. Nulla ci impedisce di pensare che questa parte della Teogonia rapsodica abbia origini assai remote: essa risale certamente al VI secolo a. C., se non per la sua forma, almeno per gli elementi che vi figurano. Negli ambienti orfici, verso la fine dell’epoca arcaica sarebbe stata dunque utilizzata l’immagine omerica della catena d’oro, per una spiegazione cosmologica» (Lévèque, ibidem).
Nel Teeteto Platone identifica la catena d’oro con il sole.
… la catena d’oro niente altro è se non il sole come dice Omero, e finché esiste l’orbita dell’universo che si muove e anche il sole, tutte le cose esistono e si mantengono tra gli dèi e per gli uomini, ma se tutto questo si arresta, come avvinto nei ceppi, ogni cosa andrebbe in rovina e tutto, come si suol dire, finirebbe sottosopra.
(Platone, Teeteto, 153cd)
Nel decimo della Repubblica, sebbene né il sole né la catena d’oro siano menzionati, Platone usa un’immagine analoga. Nello spiegare la struttura dell’universo, parla di «una luce che viene dall’alto attraversando tutto il cielo e la terra, luce dritta come una colonna, molto simile all’arcobaleno ma più intensa e più pura. Essi vi erano arrivati dopo un giorno di marcia e colà avevano veduto, in mezzo alla luce, tese dal cielo, le estremità dei suoi legami. Era questa luce il legame che teneva avvinto il cielo e, come le corde che fasciano le triremi, allo stesso modo essa teneva insieme tutta la circonferenza».
Sicché, per ben due volte Platone usa l’immagine di una corda luminosa che incatena l’universo e articola le diverse parti di esso in una unità.
Aggiungiamo che altri autori greci hanno visto nella catena d’oro i pianeti, o i quattro elementi, o il motore immobile di Aristotele, o l’Heimarmene [la Signora dei «fili del destino» di ciascun vivente].
L’altra interpretazione della catena d’oro, e in particolare la catena come immagine del legame spirituale tra Terra e Cielo, tra l’uomo e le potenze superiori, prolunga e completa il simbolismo cosmologico.
Macrobio nel suo Commento al sogno di Scipione ritiene che «poiché tutto si svolge in successioni continue e si degrada a scala, per gradini, ogni osservatore giudizioso e profondo deve pensare che a partire dal Dio supremo fino alla vita più vile, tutto è unito e incatenato mediante legami reciproci indissolubili; è questa la mirabile catena d’oro che Omero ci rappresenta sospesa, per mano di Dio, alla volta del cielo e scendente fino alla terra» (1: 14-15).
Uguale idea nel Commento al Gorgia di Olimpiodoro e nel Commento al Timeo di Proclo. D’altra parte, non è senza interesse segnalare che, allo pseudo-Dionigi l’Areopagita, l’immagina della catena d’oro serve per simboleggiare la preghiera.
Ecco cosa scrive:
… l’Infinità sta sopra tutte le cose e le comprende tutte. Eleviamoci, dunque, con la preghiera verso la più sublime considerazione dei raggi divini e salutari. Come se fosse sospesa alla sommità del cielo una fune lucentissima e discendesse giù fino a qui, noi afferrandola con le mani, prima con l’una e poi con l’altra, avremmo l’impressione di trarla giù, ma in realtà non la tireremmo giù in quanto quella è presente in basso e in alto, bensì saremmo noi ad avvicinarci verso gli splendori più elevati dei raggi fulgenti. Oppure, come se noi, saliti su di una nave, tenessimo in mano delle funi attaccate a uno scoglio e distese fino a noi per aiuto, non tireremmo lo scoglio a noi, ma in verità noi stessi e la nave verso lo scoglio».
(Dionigi Areopagita, I nomi divini, 3: 1).
Osserviamo che, come la speculazione indù ha continuamente usato le immagini arcaiche della corda, del filo e della tessitura, così i teosofi e i pensatori greci hanno interpretato per lungo tempo il venerando mito della corda d’oro di Omero; come in India, sebbene in una diversa prospettiva, l’immagine della corda d’oro è loro servita da punto di partenza sia per teorie cosmologiche che per la descrizione della condizione umana.
Aggiungiamo che l’aurea catena Homeri ha continuato a ispirare la riflessione filosofica fino al XVIII secolo. Un opuscolo anonimo di intonazione rosacrociana, intitolato Aurea catena Homeri, oder eine Beschreibung von dem Ursprung del Natur und natüralichen Dingen, ha avuto una parte importante nella formazione del pensiero del giovane Goethe.
L’immagine della corda viene talvolta usata per suggerire i rapporti tra lo spirito (noûs) e l’anima (psykhé). Nel breve trattato Sul demone di Socrate, Plutarco afferma che la parte «immersa nel corpo è chiamata psykhé, mentre la parte incorrotta è chiamata noûs».
Plutarco aggiunge che il noûs «pende al di sopra della testa e tocca l’estremità del cranio: lo si può paragonare a una corda che si deve tenere saldamente e con la quale si deve dirigere la parte inferiore dello spirito fino a che questa si mostri obbediente e non più soggetta agli appetiti della carne».
Molto probabilmente la concezione del noûs sotto forma di corda è stata sviluppata dai neoplatonici basandosi su ciò che aveva scritto Platone a proposito degli uomini marionette nelle mani degli dèi, e riguardo alla corda d’oro della ragione. […]
Analogamente, i medicine-men australiani parlano di una corda miracolosamente congiunta al loro corpo. Si sapeva che i medicine-men dispongono di una corda magica con l’aiuto della quale pretendono di salire in cielo. Le recenti ricerche hanno però fornito dettagli sensazionali su questa corda magica. Ecco la descrizione:
«Durante l’iniziazione degli uomini-medicina, nell’Australia sud-orientale, si fa nascere una corda nell’uomo-medicina, per mezzo di canti. Questa corda dà il potere di compiere azioni meravigliose: per es., rende possibile all’uomo-medicina di emettere fuoco dal ventre, come un filo elettrico. Ma vi è qualcosa di più interessante: l’uso della corda per andare verso il cielo, o sulla cima degli alberi, o nello spazio. Alla parata d’iniziazione, in pieno entusiasmo cerimoniale, lo stregone si stende supino sotto un albero, fa salire la sua corda e vi si arrampica fino a un nido posto sulla cima dell’albero; da qui passa poi sugli altri alberi, e al tramonto ridiscende lungo il tronco. Solo gli uomini vedono questo exploit, che è preceduto e seguito dal suono del bullroaer [rombo] girato rapidissimamente e da altre manifestazioni di eccitazione emotiva…» (Elkin, Aborigenal men of high degree).
Il professore A. P. Elkin crede che la spiegazione di questa mirabolante impresa magica debba essere ricercata nel dinamismo di una suggestione collettiva. Ma quand’anche si trattasse di suggestione collettiva, sarebbe interessante sapere perché i medicine-men hanno scelto l’immagine tradizionale dell’ascesa con l’aiuto di una corda che si può far uscire dal proprio corpo e far rientrare in esso a volontà.
Come abbiamo già ricordato, si conoscono altri esempi di medicine-men australiani che pretendono di salire in cielo con l’aiuto di una corda. Cosa ancor più interessante, lo sciamano degli Ona, tribù della Terra del Fuoco, dispone anche lui di una «corda magica» lunga press’a poco tre metri, che fa uscire dalla sua bocca e poi fa sparire in un batter d’occhio inghiottendola. Tali imprese magiche possono essere messe in relazione col «miracolo della corda» dei fachiri.
È degno di nota che anche in Australia la corda magica è un appannaggio dell’uomo-medicina, cioè di colui che detiene l’arte della scienza occulta. Ritroviamo, dunque, al livello culturale australiano, la stessa sequenza attestata in India e nel folklore medioevale europeo: scienza, magia, corda magica, ascensione degli alberi, volo celeste.
Si sa, d’altra parte, che le iniziazioni degli uomini-medicina australiani presentano una struttura sciamanica, per il fatto che comportano la decapitazione e lo smembramento rituale del candidato. In breve, i due elementi costitutivi del rope-trick (salire in cielo per mezzo di una corda e fare a pezzi l’apprendista) sono documentati entrambi nelle tradizioni degli stregoni australiani.
Ciò vorrebbe forse dire che il miracolo della corda ha un’origine australiana?
No, ma è collegato con tecniche e speculazioni mistiche assai arcaiche e il rope-trick non è quindi, propriamente parlando, un’invenzione indù.
L’India non ha fatto altro che elaborare e volgarizzare questo miracolo, proprio come la speculazione indù ha organizzato tutta una cosmologia mistica intorno al simbolismo delle corde cosmiche e del sûtrâtman.
Eccoci dunque tornati al punto di partenza: al nostro interrogativo sul significato e la funzione del «miracolo della corda». Soprattutto la sua funzione culturale o, più esattamente, gli scenari arcaici che l’hanno resa possibile, a noi sembrano importanti.
Abbiamo visto che tali scenari e l’ideologia che essi implicano, sono sempre collegati con ambienti di maghi. L’esibizione del fenomeno ha lo scopo di svelare agli spettatori un mondo sconosciuto e misterioso: il mondo sacro della magia e della religione a cui non hanno accesso che gli iniziati.
Le immagini e i temi drammatici utilizzati – specie l’ascesa in cielo con l’aiuto di una corda, la sparizione e lo smembramento iniziatico dell’apprendista – non solo indicano i poteri occulti degli stregoni, ma rivelano anche un livello più profondo della realtà, inaccessibile ai profani: rivelano, infatti, il mistero della morte e della risurrezione iniziatica, la possibilità di trascendere «questo mondo» e di scomparire in un piano «trascendentale».
Le immagini suscitate dal miracolo della corda sono suscettibili di provocare anche il riconoscimento di una realtà invisibile, occulta, «trascendentale», e il dubbio nei riguardi della realtà del mondo a noi familiare e «immediato».
Da questo punto di vista, il rope-trick – come, del resto, ogni altro prodigio degli stregoni – ha un valore culturale positivo, poiché stimola l’immaginazione e la riflessione facendo porre lo stesso problema della «vera» realtà del mondo. Non è un caso che Šankara abbia usato l’esempio del rope-trick per illustrare il mistero dell’illusione cosmica; fin dagli inizi della speculazione filosofica indù, la mâyâ era la magia per eccellenza, e gli dèi, nella misura in cui erano «creatori», erano mâyîn, cioè «maghi».
Infine, bisogna tener conto dell’aspetto «spettacolare» [teatrale] del miracolo della corda (e di prodigi analoghi). Il mago è, per definizione, un regista. Grazie alla sua scienza misteriosa, gli spettatori assistono a una «azione drammatica» alla quale essi non partecipano attivamente, nel senso che non «lavorano» (come invece accade in altre cerimonie drammatiche collettive).
Durante i tricks degli stregoni, gli spettatori sono passivi: essi guardano soltanto. È un’occasione per immaginare che si può operare senza «lavorare», semplicemente per «magia», per la potenza misteriosa del pensiero e della volontà. Ed è anche un’occasione per immaginare la potenza creatrice degli dèi, che creano non con un travaglio materiale, ma con la forza delle loro parole e del loro pensiero. Insomma, tutta una morale dell’onnipotenza della scienza spirituale, della libertà dell’uomo, delle sue possibilità di trascendere l’universo a lui familiare, viene rivelata allo «spettatore» se chi vi assiste è portato, da sé, alla meditazione.
(Eliade, Corde e marionette, in Mefistofele e l’Androgino)