Deleuze – Il terzo tempo e l’eterno ritorno

Quanto al terzo tempo [della ripetizione], quello rivolto all’avvenire [al di là del Comico e del Tragico], esso presuppone che l’avvenimento [che l’innesca], l’azione, abbia una sua coerenza segreta che esclude quella dell’io, e si rivolge contro l’io, proiettandolo in mille pezzi come se il portatore del nuovo mondo fosse trascinato e disperso dallo scoppio che fa nascere alla molteplicità: ciò a cui l’io si è uguagliato, è il disuguale in sé [la Differenza].

Così l’io incrinato [preso cioè nell’abitudine alla successione che gli impone di esser salomoni-tempo«figlio» o «nipote» di qualcuno] secondo l’ordine del tempo e l’io diviso [alla seconda nascita, quella nel segno della memoria «delle parentele»] secondo la serie del tempo si corrispondono e trovano uno sbocco comune: nell’uomo senza nome, senza famiglia, senza qualità, senza ego né io, nel «plebeo» detentore di un segreto, già superuomo le cui sparse membra gravitano attorno all’immagine sublime.
In rapporto a questa immagine simbolica, tutto è ripetizione nella serie del tempo. Lo stesso passato è ripetizione per difetto, e prepara l’altra ripetizione costituita dalla metamorfosi nel presente.

Può accadere che lo storico cerchi corrispondenze empiriche tra il presente e il passato; ma per ricca che sia, la trama di corrispondenze storiche, non forma ripetizione se non per similitudine e analogia. In verità, il passato è ripetizione in sé e anche il presente, su due modi differenti che si ripetono l’uno nell’altro. Non ci sono fatti che si ripetono nella storia, ma la ripetizione è la condizione storica secondo cui qualcosa di nuovo è effettivamente prodotto.
Alla riflessione dello storico non si manifesta una rassomiglianza tra Lutero e Paolo, tra la Rivoluzione dell’89 e la Repubblica romana, ma anzitutto per se stessi i rivoluzionari sono portati a viversi come «romani risorti», prima di divenire capaci dell’azione che hanno cominciato col ripetere sul modo di un passato proprio, e pertanto in condizioni tali da identificarsi necessariamente in una figura del passato storico.

La ripetizione è una condizione dell’azione prima di essere un concetto della riflessione. Noi non produciamo qualcosa di nuovo se non a patto di ripetere una volta sul modo che costituisce il passato, un’altra nel presente della metamorfosi. E quanto è prodotto, lo stesso assolutamente nuovo, non è altro a sua volta che ripetizione, la terza ripetizione, in questo caso per eccesso, ripetizione dell’avvenire come eterno ritorno.
Difatti, benché si possa esporre l’eterno ritorno come se toccasse tutta la serie o l’insieme del tempo, il passato e il presente non meno che l’avvenire, tale esposizione resta però soltanto introduttiva e non ha altro valore se non problematico e indeterminato, né altra funzione se non quella di porre il problema dell’eterno ritorno.

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Nella sua verità esoterica, l’eterno ritorno concerne e può concernere solo il terzo tempo della serie, ove unicamente si determina, e per cui è detto alla lettera fede dell’avvenire, fede nell’avvenire. L’eterno ritorno non tocca se non il nuovo, vale a dire ciò che è prodotto sotto la condizione del difetto e attraverso la mediazione della metamorfosi, ma non fa tornare né la condizione né l’agente –, anzi li espelle, li rinnega con tutta la sua forza centrifuga.
L’eterno ritorno costituisce l’autonomia del prodotto, l’indipendenza dell’opera. È la ripetizione per eccesso, che nulla lascia sussistere del difetto né del divenire-uguale, è il nuovo stesso, tutta la novità, e solo ad esso appartiene il terzo tempo della serie, l’avvenire in quanto tale.

Come dice Klossowski, l’eterno ritorno è la segreta coerenza che si pone solo escludendo la mia propria coerenza, la mia propria identità, quella dell’io, quella del mondo e quella di Dio, e che non fa ritornare se non il plebeo, l’uomo senza nome. Esso trascina nel suo circolo il dio morto e l’io dissolto, non fa ritornare il sole poiché ne suppone l’esplosione, non riguarda che le nebulose, si confonde con esse, non ha movimento che per esse.

Per questo, finché si espone l’eterno ritorno come se investisse l’insieme del tempo, si semplificano le cose, come Zarathustra dice una volta al demone, e se ne fa un ritornello, olbinski-letteracome dice un’altra volta alle sue bestie. In altre parole, ci fermiamo al circolo troppo semplice che ha per contenuto il presente che passa, e per figura il passato della reminiscenza.
Ma per l’appunto l’ordine del tempo, il tempo come forma pura e vuota ha disfatto il circolo. Lo ha disfatto, ma a vantaggio di un circolo meno semplice e molto più segreto, molto più tortuoso, più nebuloso, eternamente eccentrico, circolo decentrato della differenza che si riforma unicamente nel terzo tempo della serie.

L’ordine del tempo non ha spezzato il circolo dello Stesso, e non ha posto il tempo in serie, se non per riformare un circolo dell’Altro alla fine delle serie. L’«una volta per tutte» dell’ordine non sta qui se non per il «tutte le volte» del circolo finale esoterico. La forma del tempo sta qui per la rivelazione dell’informale nell’eterno ritorno. La formalità estrema sta qui per un informale eccessivo (l’Unförmliche di Hölderlin). E così il fondamento è stato superato verso un senza-fondo, universale sfondamento che gira su se stesso e non fa ritornare che l’avvenire.

Or ecco che, in quest’ultima sintesi del tempo, il presente e il passato non sono più a loro volta che dimensioni dell’avvenire: il passato come condizione, e il presente come agente.
La prima sintesi, quella dell’abitudine, costituiva il tempo come un presente vivente, in una fondazione passiva da cui dipendevano il passato e il futuro. La seconda sintesi, quella della memoria, costituiva il tempo come un passato puro, dal punto di vista di un fondamento che fa passare il presente e ne promuove un altro. Ma nella terza sintesi, il presente è solo un attore, un autore, un agente destinato a scomparire, e il passato non altro che una condizione operante per difetto. La sintesi del tempo costituisce qui un avvenire che afferma simultaneamente il carattere incondizionato del prodotto in rapporto alla sua condizione, e l’indipendenza dell’opera in rapporto al suo autore o attore.

Il presente, il passato e l’avvenire si rivelano come Ripetizione attraverso le tre sintesi, ma su modi molto differenti. Il presente è il ripetitore, il passato la ripetizione stessa, ma famiglia-maschereil futuro è il ripetuto.
Ora, il segreto della ripetizione nel suo insieme sta nel ripetuto, come significato due volte. La ripetizione sovrana è quella dell’avvenire che subordina a sé le altre due e le destituisce della loro autonomia. Difatti la prima sintesi non concerne se non il contenuto e la fondazione del tempo; la seconda, il proprio fondamento; ma più oltre, la terza assicura l’ordine, l’insieme, la serie e il fine ultimo del tempo.

Una filosofia della ripetizione passa per tutti gli «stadi», condannata a ripetere la stessa ripetizione, ma attraverso questi stadi assicura il proprio programma, che è fare della ripetizione la categoria dell’avvenire; servirsi della ripetizione dell’abitudine e di quella della memoria, ma come stadi da abbandonare sul proprio cammino; lottare con una mano contro Habitus, con l’altra contro Mnemosine; rifiutare il contenuto di una ripetizione che si lascia bene o male «sottrarre» la differenza (Habitus); rifiutare la forma di una ripetizione che comprende la differenza, ma per subordinarla ancora allo Stesso e al Simile (Mnemosine); rifiutare i cicli troppo semplici, quello subito da un abituale presente (ciclo consueto), come quello che organizza un passato puro (ciclo memoriale o immemoriale); mutare non solo il fondamento della memoria in semplice condizione per difetto, ma anche la fondazione dell’abitudine in fallimento dell’«habitus», in metamorfosi dell’agente; espellere l’agente e la condizione in nome dell’opera o del prodotto; fare della ripetizione, non già ciò a cui si «sottrae» una differenza, né ciò che comprende la differenza come variante, ma farne il pensiero e la produzione dell’«assolutamente differente»; e fare infine che, per se stessa, la ripetizione sia la differenza in sé. […]

Come dice Klossowski, l’eterno ritorno non è una dottrina, ma il simulacro di ogni dottrina (la più alta ironia), né credenza ma parodia di ogni credenza (l’humour più alto); credenza e dottrina eternamente a venire. Troppe volte siamo stati indotti a giudicare l’ateo dal punto di vista della credenza, della fede di cui si pretende la presenza in lui, in una parola, dal punto di vista della grazia, per non essere tentati dall’operazione inversa di giudicare del credente attraverso l’ateo violento che convive in lui, anticristo eternamente dato nella grazia e per «tutte le volte».

(Deleuze, Differenza e ripetizione)

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Il Passato è ripetizione per difetto – ripetizione che finisce puntualmente per mancare a se stessa, per rimanere inconclusa, abbozzata.
Se il Passato fosse «perfetto» (logico o storico, come ci raccontano le grammatiche), la sua incoscienza, il suo scorrere nell’oblio non verrebbe mai a mancare a se stesso, e la sua «purezza» non si macchierebbe mai di una qualsiasi «nominazione». Non conoscerebbe mai se stesso. Sarebbe la Notte Eterna. Ma, se vuoi, puoi ugualmente dire: il Mezzogiorno che mai declina o tramonta. Sarebbe quel Passato «abitato» solo dagli dèi, solo dagli Immortali – se la sua «perfezione» non morisse.
Se non fosse l’Inconscio stesso ad autodistruggersi, intuì la Spielrein, da dove una qualunque alba di coscienza?

Se non ci fosse più ripetizione, se la Ripetizione si estinguesse assieme alle ceneri della «purezza inconscia» del Passato – non ci sarebbe nessuna «storia» né pubblica né privata. La persistenza, anzi l’insistenza della Ripetizione, la sua appiccicosa coesistenza col Presente conscio, col Presente che dà i nomi alle cose, col Presente che ha memoria e si autorappresenta – è la condizione non solo della Storia, ma della «storicità» stessa, cioè del Fondo Temporale su cui si «costruisce» il nostro modo d’essere al mondo, il nostro modo di abitare lo spazio dell’Essere.

L’Essere è il Passato, l’Essere è la Ripetizione… fragile. La Ripetizione che, frangendosi di onda in onda nello scorrere del Lete, d’un tratto manca alla sua propria dimenticanza. Incontra un punto debole, dov’è in agguato un Cefiso qualunque che la «rapisce», un Nume del Fiume del kreyn-nave«tutto scorre», un Satiro che non è sazio, che non s’accontenta di quel che passa il convento, lassù tra le stelle della Via Lattea, ma scende a prendere con la forza la «terrena» Liriope. Il modo d’essere di Narciso, è perciò di «essere difettivo». Eredita la «debolezza» del padre. Come il padre, si compiace a guardare dall’alto la sua «preda».

Tiresia conferma: non avrà problemi, vivrà felice e spensierato, questo bambino – finché non prenderà coscienza di se stesso. Finché, anche in lui, non si manifesterà l’«impurità» paterna. Finché la Ripetizione (che mai come nel suo caso è la Pura Contemplazione Immaginale della propria Bellezza) non l’attrarrà a scendere dalla Luna…
Durante la «discesa», Narciso, lo sappiamo, perde la Mamma.

C’era un buco nel cielo, raccontano gli Arapaho, e in quel buco scoperto per caso la Mamma «vide» la terra e ne ebbe nostalgia. Se il cielo non fosse stato fragile, se la sua «continuità» non avesse mostrato alcuna crepa, lo Spazio, il su e giù, non si sarebbe schiuso alla sua «vista».
Attraverso quel buco, dentro quel «difetto», il Passato (materno) si scava una Memoria (filiale). La Ripetizione si contrae in una libidine, che è la sua macchia. Non la si può lavare – questo è il mistero. Quella macchia è l’indelebile, l’indimenticabile «figlio» e/o «nipote» del Passato, passato a dimenticarsi e a saziarsi d’oblio tra le stelle. A vivere, spensierati, sulla cima del monte – dove nostra Madre ci partorì. A mezza strada o, come finalmente è il caso di dire, nel mezzo del cammin di nostra vita.

Perché, quando cademmo dalle stelle da dentro quel pozzo «imperfetto», quando venimmo giù da quella «macchia scura» della Via Lattea, da quel volto di Pierrot della nostra Luna, là dove cademmo, quel «dove» in cui incidemmo le nostre prime impronte – la Ripetizione venne, assieme a noi, a segnare il Mezzo, a dividere il tempo in prima e dopo – e, con ciò, a «spiegare» la dimensione orizzontale dello Spazio, lungo la quale la nostra Memoria poteva, adesso, distribuirla – la Ripetizione.
Il nostro «io» più primitivo, più intimo e profondo – nacque dunque incrinato. Nacque a bordo di una piroga che era in movimento lungo il Fiume del Tempo. Un attimo dopo che eravamo atterrati, il posto dove eravamo caduti, era già spostato più in là. Di un grado verso Occidente.

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Ma non per questo la Ripetizione ci ha abbandonati. Essa viaggia con noi, tuttora. Insiste nel nostro Presente. È il suo «istinto di morte», dice Freud. È l’inconscio della «lettera» del nostro Racconto, preferisce dire Lacan. È la «coazione a ripetere» i nostri errori, i nostri vagabondaggi, i nostri sonnambulismi, i nostri «difetti» arcaici.
La piroga ci ha trascinato nel linguaggio dei marinai a bordo. Sette volte ho viaggiato il mondo, dice Sindbad, ma omette di dire che tutt’e sette le volte non voleva far altro che ripetere il cammino, per vedere se gli riusciva di trovarne il (giusto) Mezzo.

L’«io» che diviene cosciente, l’«io» che parla e simboleggia, l’«io» più recente, l’«io» cresciuto nell’illusione che i «segni» della sua memoria gli bastino a ritrovare quel Mezzo – è quello che Deleuze chiama l’«io diviso», l’«io» cioè che è capace di distinguere attivamente il prima e il dopo, capace di costruire una serie temporale ordinata. Altra cosa del suo gemello antico, che viceversa nell’ordine del tempo ci si era trovato passivamente imbarcato.

Dunque: primo tempo – sintesi passive, caduta dalle stelle /spazio di pura verticalità/ io incrinato, io spostato, io dislocato dal suo luogo proprio. Testa mozzata, ma soprattutto testa che rotola.
Secondo tempo – sintesi attive, viaggio nel tempo /spazio orizzontale/ io diviso, io cosciente, io (illusoriamente) autonomo, addirittura «io» soggetto della Storia! Io ambulante nel mondo. Io dimentico della sua origine e provenienza. E tuttavia, io senza-identitàcoesistente con la sua Ripetizione originale, l’Unica, la Differente. Questo io qui – il Ripetente qui presente, il solo, in fondo, che può attuare la Metamorfosi. O forse meglio: il solo a cui può succedere la Metamorfosi che introduce al terzo tempo della Ripetizione.

Il tempo del plebeo, dell’anonimo, del Nessuno – il Futuro che qui, sulla scia di Nietzsche e dell’Eterno Ritorno, delira il nostro funambolo Deleuze.
Il tempo di quei «Filosofi» dell’Avvenire che avranno fatto brillare la Luna della loro «filosofia», per farne schiudere la Ripetizione Antica – senza storia, senza memoria, senza segni e senza parole.
Il soggetto di questo terzo tempo non è né l’io incrinato né l’io diviso, non è nessun «io», ma solo il Soggetto a Ripetizione – e dunque, il Ripetuto: quello che ha attraversato le ripetizioni e le loro metamorfosi, il Soggetto sospeso tra i due soggetti allo specchio (tra gli occhi e l’immagine di Narciso), il Mezzo che non ha bisogno di storie e di memorie, perché la sua strada la sa, la riconosce a occhi chiusi, la fiuta.

Il Mezzo è la Via, il Tao – l’οδός che riporta il Viandante, Οδυσσεύς, a quel Nessuno che fu prima di perdersi in chiacchiere con Polifemo.
Solo quel Nessuno «produce» novità. Solo l’Antico «genera» il nuovo. Solo il Remoto, l’imprevedibile presente. Solo il Rimosso «è» e «crea». Solo l’Arcaico ha un Futuro, che non sia più questa atroce, ossessiva, nevrotica abitudine nostra a negarci al nostro destino. E a tenerci in cattività della Coscienza. Qui, su questa terra dove siamo caduti, giù da un vuoto di oblio.