Sapienza antica, antica sonnolenza

… ma tu rallegrati ché non fu un avverso destino
che su questa via remota dai sentieri umani
ti spinse, ma fu Temi e fu Dikê a volerlo.
(Parmenide, fr.1)

Il Guaglione ha appena passato la soglia, è entrato per la Porta che Dikê, molto penando, governa – e la Dea che incontra di là dalla Soglia, la sua Matelda, sua prima nutrice e istruttrice, lo rassicura: la strada che hai preso – gli dice – sì, d’accordo, è una via fuori antica-sonnolenzamano, ma non per questo è una via che non si possa tracciare nello «spazio» del dire umano.
Le parole che userai per disegnare la topologia del tuo viaggio, per quanto ardito questo sia, sono tuttavia parole che «abitano» lo spazio umano.

… il primo «spazio umano» è il Reame di Temi: è lo «spazio» in cui un altro spazio si apre – allorché, tirato dapprima dalle cavalle della sua «libido», e poi dalle Figlie del Sole guidato lungo il tragitto che va dalla parola balbettata alla parola parlata, u guagliuncielle giunge alle Porte dove «la Notte e il Giorno» si alternano: l’altro spazio, lo spazio dell’Altro, il Reame di Dikê.
Temi e Dikê «spiegano» lo spazio: l’una secondo l’asse isterico (sono maschio o sono femmina?) e l’altra secondo l’asse schizofrenico (sono vivo o sono morto?); oppure: l’una lungo l’asse solstiziale (nord/sud: ovvero sono in cielo o sono in terra?) e l’altra lungo l’asse equinoziale (est/ovest: sono giovane o sono vecchio, anteriore o posteriore, seduto a prua o a poppa della piroga?).
Temi e Dikê… prima e seconda nascita dello «spazio umano». Dello «spazio» che noi uomini abitiamo.

Ma cosa vuol dire «abitare», se non ciò che la parola stessa dice: e cioè, che abbiamo l’«abitudine» di frequentarlo e di percorrerlo in lungo e in largo?
Non basta dormire una notte in un posto, perché questo posto possa dirsi una casa o una dimora. Perché un posto sia la nostra abitazione, bisogna che ci sia un’abitudine. Un dormire, un mangiare, un danzare nel solito posto.
L’abitudine non è che un vizio contratto passivamente. A propria insaputa. Se ce ne accorgiamo è sempre quando ci abitiamo già in quella consuetudine. È quando il vizio l’abbiamo già preso. È quando il demone ci ha già ridotti in cattività. È quando il «comico» e lo «spensierato» dormire , si è, ahinoi, già tramutato in Tragedia – in «pensiero» e «mito». Cogito ergo sum… sì, sono ma nient’altro sono che l’ultimo attore di questa (remota) Tragedia. Sono anch’io un «io», dislocato nella distanza dalla prima Matrice, rimasta impigliata nello spazio di Temi.

spazio-temi

In quello «spazio», in quella Terra di fondazione – ci abitammo una volta finché non ci svegliammo alle prime luci di «coscienza» e, cadendo dalle nuvole (allora eravamo tutte «donne»), ci ritrovammo col culo per terra, come dice Parmenide – ingorgati in un dire pubblico, in un dicere di piazza, in un dire e disdire che si perpetua di generazione in generazione, secondo l’ordine (irreversibile) del Tempo, ci tiene a precisare Anassimandro.
Eppure, siamo tutti, giovani e vecchi – chi prima, chi poi – tutti siamo discesi, dice il Racconto, da una stella. E nostra madre, dice, è «morta» durante la discesa. Dice che noi siamo i «nipoti» del Padre delle stelle, Sole e Luna. Io mi chiamo Matteo come mio «nonno», perché di tutto il Racconto antico solo questo «minimo numero» avanza – questo «resto» di una ormai oscura tradizione, quasi di una superstizione.

Potrei chiamarmi Dioniso, ma sarebbe lo stesso «equivoco» anagramma. Mi ritroverei lo stesso prigioniero della «coscia di Zeus», e abiterei comunque – senza saperlo – lo spazio della sua giurisdizione, del suo Dicere *ius dalla mattina alla sera: e fu sera e fu mattina
Parlerei sì e nominerei il mio «presente», il mio mattutino «eccomi!» a me stesso, ma nella Lingua di un Passato, in un Dicere a me anteriore, da cui (è qui la tragedia) è stata esclusa proprio mia madre.
Mia madre è morta – cadendo dalle nuvole. La corda, dicono, era troppo corta. Ma matrice-sospesadicono anche che fu la Dea della Gelosia a pietrificarla in una «posa» isterica.

Sono caduto, di botto, dalla Luna. Mia madre era salita in cielo per sposare la Luce. E perciò altri dicono che da quelle stesse nozze fu incenerita.
Potrei confondere tra loro tutte le tradizioni, antiche e recenti, sul conto di mia madre. Potrei farlo, ora che nella mente mia ho preso l’abitudine di tutti i «figli di Zeus», e cioè di «dicere» il *ius, il giusto, ma quando ci sono caduto, qui sulla terra, quando ero appena un «seme» o al massimo un «cucciolo di dio», io – allora – non abitavo ancora tutto quanto lo «Spazio divino» che è nella mente dell’Uomo. Ne frequentavo solo l’asse verticale – su e giù, alto e basso, sopra e sotto. Una nuvola e… nient’altro.

Sono maschio o sono femmina? Sono vivo o sono morto? Quanto ci manca, a che distanza sono – da dove?
Abito in un posto contrassegnato da un’abitudine altrui – è perciò a questo posto che devo cercare di disabituarmi, se voglio rivivere l’avventura di mia madre.
Dicono che aveva i capelli troppo corti, che le trecce non le bastarono a coprire la distanza, e che rimase così… sospesa tra la terra e il cielo, pietrificata in un anelito «isterico». Dicono che mia madre era «eccessiva», che era così «avventurosa» da essersi spinta fino a sognare le sue nozze con Luna, altri dicono con Sole. In ogni caso, concordano sulla sua «audacia»: essa, dicono, osò andare più in là (ύστερον) del «giusto».

Mia madre abitava lo «spazio» più antico, alto e basso – lo spazio di Temi.
E io con lei. Allora, nel breve tempo dalla prima alla mia seconda nascita – io stesso non frequentavo che l’alto e il basso: ero Testa e Gambe, Volpe e Gatto, ma non camminavo né miagolavo. Ero, a quei tempi, un astuto Veggente del nostro destino (perché io e mia madre eravamo uno stesso destino, allora). Ma ero come paralitico. Avevo le gambe, ma ancora non frequentavo la terra e le sue potenze telluriche.
L’amara scoperta dell’altro «spazio», dello spazio di Dikê, avvenne dopo: quando, dalle braccia di mia madre morente, atterrai col culo per terra.

posa-isterica

Perciò, eccomi qua – tragico Dioniso, ispiratore di ogni «dicere» ribelle allo *ius paterno.
Eccomi a Tebe, la Città delle Sette Stelle, ogni stella una porta del mio dicere tragico. Eccomi precipitato, io dio sulla terra degli uomini – ultimo filo di congiunzione, ora che lo spazio di Temi è stato interdetto a tutte le mamme isteriche. Eccomi a dipanare quel filo (allora troppo corto) in quest’altro «spazio» orientato secondo il Tempo: sono appena nato, o sono al tramonto dei miei giorni? Eccomi schizofrenico a essere a turno l’uno e l’altro: a essere io il bambino che «eredita» la Sapienza di quell’altro che invecchiò, ahimé troppo precocemente, il giorno che si scoprì ad abitare uno «spazio» a cui era negato l’accesso a sua Madre. Lo spazio del Maschio, lo spazio che il Maschio sarà sempre così astuto da nascondere alle femmine. Talmente astuto da spingerle a darsi anch’esse, con l’illusione dell’emancipazione, un’identità a scelta ma nel catalogo «maschile».

Quando si dice… a zonzo, tra le suggestioni rapite al «dire» di Parmenide.
Le parole di ogni mariuolo, e Parmenide lo fu, sono fatte così: per essere altrettante secchie rapite a chissà chi altri, nella catena del Passaparola.
Ogni mariuolo sa che deve guardarsi dall’uso che pure ne fa. Guai se le prende alla lettera – o troppo sul serio! Guai se le parole altrui le prende solo orizzontalmente, lungo l’asse temporale per cui la «verità» viene alla luce sempre dopo, e perciò è rinviata all’infinito. Guai se si fissa su una sola regione del «dicere umano», perché solo attraversandone la molteplicità, solo restituendole alla babelica confusione, da cui ogni regione, ogni scienza, fa di tutto per prendere le distanze, solo mischiandole in una sola Lode – solo così ne diviene, di nuovo, percepibile quella «visione» del Lodato, cioè dello spazio che conosce solo l’alto e il basso, e ignora tutte le altre differenze.
Esercizio parmenideo – rimbambirsi al punto da riconoscere che solo il Passato è. Pianta miracolosa è quella che, in extremis, Utnapištim donò a Gilgameš. Sapienza antica. E perciò antica sonnolenza, proprio sul più bello.