Ma torniamo un attimo alla donna. Fu proprio a Genova che iniziò il mio calvario di Don Giovanni. Da allora in poi l’assenza della Madonna che era in me, e in che ormai consistevo, meritò tutta la prassi fin troppo ossessiva della presenza della donna nella mia vita e sulla scena.
Essere Don Giovanni per mortificare la frequenza del presente di un corpo di donna, di più corpi di donna.
Non ne ho mai, se non rarissimamente, per distrazione, ammesso una sola. Sempre in tante eravamo. Perché forse ci si illude perennemente che mettendone più insieme si possa prendere l’occhio destro da una, il sinistro da un’altra, un orecchio, i capelli: è un mixage che si fa tra due o tre corpi per ottenere quel cenere disiato. Così le gambe, il seno, ecc.
Comincia così in nome dell’Assenza in me custodita la visitazione ossessiva dei corpi femminili.
Don Giovanni non è certo l’impotenza – secondo stoltezza di certo femminismo. È il femminile stesso che va a verificare i propri vuoti nella mortificazione del corpo donnesco.
Questo impatto con la donna giocato sulla «impossibilità», dove il discorso si fa possibile solo in quanto restituito alla «moda» – pizzi, merletti, mutandine, reggiseni, certi indumenti intimi (niente a che fare con il feticismo, intendiamoci).
È qui che comincia la «nominazione», il tempo dello spogliarsi, – tutto lì il rapporto con il femminile. Ma già da qui allora quando si dice «dongiovannismo» s’intenda il femminile.
Qui davvero ha inizio una fase eroica. Notevolissima sul piano del riscontro, della prestazione, del disgusto per tutto ciò di femminile che mancava nella donna.
In queste mie innocenti orge sardapanaliche vedevo rovesciata una Sistina michelangiolesca dove i corpi sono tutti chiaramente maschili, muscolosi. E soprattutto l’odiosa identità che anche nelle fanciulle in fiore già si compiaceva, a tutto danno del femminile in cui non si perderanno mai più, che mai più le distinguerà.
Io non ho mai conosciuto una donna che avesse l’uno per centro di «femminile».
Si favoleggia della misoginia di Carmelo. È voce che non ha il minimo fondamento. La sua costante, quotidiana tentazione, ancor di più, la sua nostalgia è per il «femminile». È vero piuttosto che lui detesta di uomini e donne in egual misura certa corposa identificazione, l’abitare la stalla del proprio sesso. Carmelo è sinceramente quel che emancipando la donna nel «sociale» la sottrae alla spensieratezza di certo letto insonne. Della donna ama tutta l’inconsistenza.
Partendo per un treno che non arriverà mai – perché si parte sempre scegliendo bene la destinazione – si sceglie un bel niente. Nessun posto. Nessuna stazione d’arrivo.
Allora io ancora non potevo da Don Giovanni disporre mentalmente d’un catalogo. L’eroismo era pieno! E nel pieno dell’eroismo il «femminile» era tutto nel mio non-esserci sul campo delle mie battaglie.
Ero totalmente assorbito dallo svenamento. Comincia davvero la morte di Sardanapalo. Contro quella vita piuttosto infantile di Sardanapalo. Tra le donne quella, tra le donne questa. […]
Bene inteso tutto questo non comporta un astio nei confronti della donna o delle donne, ma semmai un’infinita agape schopenhaueriana, semmai lo stupore infinito che la donna non sia l’abbandono. L’abbandono di cui femmine sono capaci laddove leggono, laddove s’istruiscono. Vedi il caso dell’Ofelia del nostro Amleto, allieva del suo stesso apprendistato, della ricerca di un’identità maschile come maschili sono tutte le identità, nel suo «frugare senza metodo alcuno» nella biblioteca altrui: perigliosa Alessandria d’infiniti riflessi.
Questi libri le donne li usano a mo’ di specchio e solo davanti allo specchio hanno quell’attimo di depensamento, nel loro rovinoso maquillage, perché è un maquillage che le distrugge, le annienta. Questa lezione di maquillage in che la donna si distrugge vale anche per il teatro.
È una grandissima lezione di teatro.
Qualunque donna, parlando di un lutto, o di Martin Heidegger, o di Lacan – perché la donna è sempre disponibile a parlare di tutto – estrarrà fatalmente dalla sua trousse qualcosa, un rossetto, un po’ di cipria, e scimmiescamente, anche parlando di sua madre appena morta, dirà: «Era così buona…» tra un colpettino e l’altro del piumino sulla gota. E in questa nuvola di cipria, in questa polvere bianca, svanisce la Madonna. Si smarrisce il «divino» in terra.
Così tornando a tutte le mie mogli, a tutti i miei harem che io ho sempre mutato, mutato, mutato – perché chiaramente il catalogo è una cosa che arriva dopo in forma di coscienza, – allora era solo in forma di rosa, confusa, petali su petali, macchie di sangue e petali di rosa, senza sapere bene quali fossero wildianamente le macchie di sangue e quali i petali di rose, mestrui, emorragie e Tristani, Tristane… Isotte mai incontrate… Era una somma di Tristani. Quello che affiorava era il tristo del Cristo, una crocefissione wagneriana alla rovescia, senza donne in croce, per carità! – un donna in croce, quello che Nietzsche rimproverava a Wagner, sarebbe un sogno!
In croce ci sta sempre chi non è. In croce ci sta un Dio, non una donna.
Nella croce della «diffamazione» c’è il soi, il medesimo. Diffamazione che cancella l’IO e almeno lo ingiuria come fastidioso, arrogante, criminale, imbecille. Ma non di quella imbecillità senza pensiero tanto agognata, di quella cretineria che dorme a bocca aperta, da «cretino che avrebbe voluto mirarsi dormire». Ecco il peccato di guardarci cretini mai abbastanza.
Questa grazia, questa spensieratezza che dovrebbe attribuire un femminile alla donna, non si dà, e allora qualcuno si dovrà assumere non solo la femminilità, ma anche l’idiozia della femminilità, il depensamento.
Ora, se con queste congenite qualità affronti la questione teatrale, ti accorgi che non c’è più nulla da questionare, che non c’è più nulla da affermare o da negare. Ti accorgi che la scena è un ideale tappeto del vuoto, il ring del nulla, dove si sfondano le porte aperte…
(Bene, Sono apparso alla Madonna)
***
Colui che, pur trovandosi nella parola, dalla parola è distinto, che dalla parola è ignorato, che si manifesta nella parola, che dall’interno regge la parola, questo è il tuo Âtman, l’interno reggitore, l’immortale…
(Brhadâranyaka Upanisad, III, 7: 17)
… in nome dell’Assenza in me custodita, dice Carmelo Bene. Ma chi è che la «custodisce» questa assenza [di Madonna], chi ne serba memoria? La Parola.
L’Assente però, pur trovandosi [significato] nella parola, dalla parola è distinto…
La parola Madonna non è una madonna. La parola Madonna non sa, non può sapere cosa vuol dire essere la Madonna. La parola Madonna ignora ciò di cui parla. E tuttavia ciò di cui parla, l’Assente che nomina, solo nella parola ha una chance di manifestarsi. Di manifestare, s’intende, un’illusoria presenza – perché l’Assente assente rimane. Rimane, questo è tutto, appiccicato a un segno di memoria, affidato alla magia di un «minimo numero», custodito nello scrigno di un simbolo.
Così, comincia ogni bambino a costruire. Comincia a «contrarre» in un segno presente alla sua voce, il suo Passato. Comincia ad assentarsi a questo suo Passato, per rappresentarselo nella parola.
Il Passato è «il tuo Âtman», mio caro bambino. Lo è a partire dalla tua prima «nominazione», dalla tua prima «sintesi attiva» (dice Deleuze), dalla prima volta che «ti spogli» (dice Carmelo Bene) della tua Madonna, e dunque fin dal primo Presente, dal primo istante in cui ti presentasti per la prima volta a te stesso, senza il tuo (comico) Passato. Senza la tua (spensierata) gaiezza innocente. Da quel momento, tu – come me – «consisti» nella mancanza, «muori» al tuo libero essere Nessuno, e trapassi di qua, nasci una seconda volta, di qua, dove a ciascuno soltanto uno scalpo di memoria avanza, un minimo trofeo su cui innalzare l’eroismo del suo tragico «io».
È da questa Tragedia – in cui ciascun «attore» non fa che agire il suo Mito parlandolo – recitandolo cioè a memoria e con intelligenza e/o astuzia – è da questa wagneriana Rappresentazione che l’«io» di un Carmelo Bene si ostina a cercare, come l’ultimo Zarathustra, una via d’uscita.
Perciò: basta con questa mascolinità Eroica! basta con questa Sistina muscolosa! Questo è l’appello «teatrale» di Carmelo Bene. È l’ora, e adesso bisogna che Zarathustra rientri nella sua primitiva androginia spensierata, e che lo stesso Carmelo si liberi dall’infantile infatuazione per la sua prima «nominata», quella Sardanapalo a cui chissà quante volte dovette prestare, da bambino, i fianchi del suo corpo per (ri)vederla danzare allo specchio, e a cui assomigliò le smorfie più allusive del suo volto per (ri)farne pari pari la maschera.
Il bambino, così da Lei, dalla Prima Nominata così eccitato, al punto da chiamarla per nome, è entrato in possesso della prima «lettera» che gli ha stregato gli occhi, e a quella «lettera» ha affidato il destino del suo «miraggio».
Dinanzi allo specchio, danzando tra una smorfia e l’altra, tra una contrazione e l’altra dei muscoli del suo volto di Maschio, il bambino ha inviato la «lettera» al Mondo, perché gli tornasse «femminilizzata» passando per il corpo di Sardanapalo. Il nome di quel corpo, Sardanapalo, è il segno, la parola, la «lettera», in cui per sempre a lui si assenta la Madonna – ma di una strana Assenza, di un’Assenza che «insiste», di un’Assenza indimenticabile, di un’Assente che, da dentro, «regge» la trama di tutte le sue parole.
A ogni bambino resta una Madonna appiccicata sul fondo senza fondo del suo essere. Nascosta nelle profondità dell’empireo della sua mente.
Sopra la Madonna, a coprirla e a impedirgli di rivederla, sta Sardanapalo – ma anche, a Dante, Beatrice. E dunque: se c’è una via per tornare a rivederla, è attraverso Sardanapalo, è nel divenire sempre più trasparente di Beatrice. Non negandola, non proibendosela come «peccato», ma facendosi da lei guidare fino al Passato Remoto.
Cos’altro significa il balbettio di Dante all’ultimo di paradiso, se non che in quello Spazio che, nel catechismo indù, è detto Âtman, si precipita di nuovo nel «depensamento» al di là della Parola? Non tacendo, non omettendo, non deridendo o irridendo alla potenza della Parola, ma – al contrario – seguendola, finché la «lettera» non torna al suo Mittente – all’ultimo di paradiso, là dove il Mittente è, di nuovo, beatamente, Nessuno, ed è l’Âtman, solo Lui, il Signore del Gioco.
Già, qualcuno dirà che la Madonna di Dante non è la Madonna di Carmelo Bene, ma dovrebbe aggiungere che non è nemmeno la sua – perché, come la «lettera» stessa dice, essa è di ciascuno «la mia donna», la mia Matrice assente, la mia Semele, Quella nel vuoto della cui mancanza a Carmelo Bene appare il suo «doppio» nelle sembianze e nelle movenze di Sardanapalo, e a Dante in quelle di Beatrice.
Sardanapalo non è Beatrice, eppure sono entrambe Guide e Muse di un Bambino Artista. Entrambe lo chiamano all’Arte, entrambe lo iniziano alla Parola, perché la prima parola è il loro (indimenticabile) nome. Perché il Segreto dell’Arte e di tutto ciò che produce e riproduce, è l’insistenza di quel nome. Tutto ciò che l’Arte ha da ripetere è l’eco di quel nome sparsa in ogni angolo del Racconto.