SIG.NA RAMNOUX: – Ero riuscita, dopo la lettura di Freud, a farmi dell’io l’idea di una funzione «difesa» da situare in superficie e non nel profondo, e che si eserciterebbe su due fronti, contemporaneamente contro i traumi provenienti dall’esterno e contro gli impulsi provenienti dall’interno. Dopo le sue conferenze non riesco più a rappresentarmelo così.
Mi domando quale sia la definizione migliore. Penso che sarebbe dire che si tratta di un frammento di un discorso comune. È giusto?
Ancora una domanda. Ero anche riuscita a capire perché Freud chiamasse ciò da cui provengono i sintomi ripetitivi «istinto di morte». Ero riuscita a capire perché la ripetizione presenta una specie di inerzia, e che un’inerzia è un ritorno a uno stato inorganico – dunque, al passato più lontano.
Capivo così perché Freud potesse assimilare ciò all’istinto di morte. Ma, dopo aver riflettuto sulla sua ultima conferenza, ho visto che queste coazioni derivavano da una sorta di desiderio infinito, multiforme, senza oggetto, un desiderio di niente. Lo capisco molto bene, ma allora quel che non capisco più è la morte.
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[…] Il ritorno dell’io come centro e misura non è affatto implicato nel discorso di Freud. Gli è anzi contrario – più il suo discorso va avanti, più lo seguiamo nella terza tappa della sua opera, e più egli ci mostra l’io come miraggio, come somma di identificazioni.
Senza dubbio l’io si situa nel punto di sintesi piuttosto povero al quale il soggetto è ridotto quando si presenta lui stesso, ma è anche altro, si trova anche altrove, viene da altrove, e precisamente, da quell’aldilà del principio di piacere in cui possiamo chiederci – che cos’è afferrato in questa trama simbolica, in questa frase fondamentale che insiste al di là di tutto ciò che possiamo cogliere delle motivazioni del soggetto?
C’è evidentemente discorso, e, come lei dice, discorso comune. Quando vi ho parlato della Lettera rubata, vi ho detto, in modo forse enigmatico, che questa lettera, in un primo tempo, e nei limiti della piccola scena, della Schauplatz come dice Freud, del teatrino dei burattini che ci fa vedere Poe, è l’inconscio dei diversi soggetti che si succedono come suoi possessori.
È la lettera stessa, la frase scritta su un pezzo di carta, nella misura in cui se ne va a spasso. È assolutamente evidente, dopo la dimostrazione che ho fatto del colore che prendono uno dopo l’altro i soggetti man mano che il riflesso della lettera passa sul loro volto e sulla loro statura.
Forse per lei è un po’ poco. Ma non dimentichi che l’inconscio di Edipo è appunto quel discorso fondamentale che fa sì che da lungo tempo, da sempre, la storia di Edipo sia lì scritta, che la conosciamo, e che Edipo la ignori completamente, benché ne sia giocato fin dal principio.
Ciò risale a molto indietro – si ricordi che l’oracolo spaventa i suoi genitori, che viene esposto, allontanato. Tutto si svolge in funzione dell’oracolo e del fatto che egli è realmente un altro da quel che sa della propria storia – è figlio di Giocasta e di Laio, e parte nella vita ignorandolo. Tutta la pulsazione del dramma del suo destino, da un capo all’altro, dall’inizio alla fine, dipende da questo velamento del discorso, che è la realtà senza che egli lo sappia.
Dovreste leggere l’Edipo a Colono. Vedreste che l’ultima parola del rapporto dell’uomo con questo discorso che non conosce, è la morte.
Bisogna ricorrere all’espressione poetica per scoprire con quanta intensità possa essere realizzata l’identificazione tra questo preterito velato e la morte come tale, nel suo aspetto più orribile. Rivelazione che non comporta nessun istante al di là, e spegne ogni parola.
Come situare l’io rispetto al discorso comune e all’aldilà del principio di piacere? La questione è assai suggestiva. In fin dei conti, c’è tra il soggetto individuo e il soggetto decentrato, il soggetto al di là del soggetto, il soggetto dell’inconscio, una specie di rapporto allo specchio.
L’io è esso stesso uno degli elementi significativi del discorso comune, che è il discorso inconscio. È in quanto tale, in quanto immagine, preso nella catena dei simboli. È un elemento indispensabile dell’inserzione della realtà simbolica nella realtà del soggetto.
In questo, nel suo senso originale, esso è nella vita psicologica del soggetto umano l’apparizione più vicina, più intima, più accessibile della morte.
Il rapporto dell’io e della morte è estremamente stretto, perché l’io è un punto di intersezione tra il discorso comune, nel quale il soggetto si trova catturato, alienato, e la sua realtà psicologica.
Il rapporto immaginario è, nell’uomo, deviato, in quanto lì si produce l’apertura attraverso cui si presentifica la morte. Il mondo del simbolo, il cui fondamento stesso è il fenomeno dell’insistenza ripetitiva, è alienante per il soggetto, o più esattamente è causa del fatto che il soggetto si realizza sempre altrove, che la sua verità gli è sempre in parte velata.
L’io è nell’intersezione dell’uno e dell’altro.
Nel simbolismo fondamentale c’è un’inflessione verso il figurato, verso qualcosa che assomigli al mondo o alla natura, e che dia l’idea che lì ci sia qualcosa di archetipico. Del resto non c’è bisogno di dire arkhé, è semplicemente tipico. Ma è certo che non si tratta affatto di quel qualcosa di sostanzializzato che la teoria junghiana ci dà sotto il nome di archetipo.
Gli archetipi stessi sono sempre simbolizzati, presi in quel che lei ha chiamato il discorso comune, frammento di questo discorso.
Per quanto riguarda la sua seconda domanda, credo di averle fatto capire l’ultima volta la differenza che passa tra l’insistenza e l’inerzia.
L’inerzia ha la proprietà di non avere in sé nessuna specie di resistenza. La resistenza, nel senso di Widerstand, di ostacolo, di ostacolo a uno sforzo, non va cercata in noi stessi. Chi applica la forza provoca la resistenza. A livello dell’inerzia, non c’è, da nessuna parte, resistenza. La dimensione di tutto ciò che ha a che fare col transfert è di tutt’altro registro – è dell’ordine di un’insistenza.
Lei ha colto molto bene quel che volevo dire quando ho evocato l’ultima volta il desiderio, il desiderio rivelato da Freud a livello dell’inconscio, come desiderio di niente. Ha sentito ieri sera esporre l’illusione, non rara tra i lettori di Freud, per la quale si ritroverebbe sempre il medesimo significato, e un significato di modesta portata, come se il desiderio del sogno che Freud designa nell’Interpretazione dei sogni si riducesse in fondo alla lista, effettivamente modesta, delle pulsioni.
Non è affatto vero. La prego di leggere una buona volta e tutta di fila l’Interpretazione dei sogni per convincersi del contrario. Benché Freud vi segua le mille forme empiriche che può assumere il desiderio, non c’è una sola analisi che porti alla formulazione di un desiderio. Il desiderio non è mai lì, alla fine, svelato.
Non vi si tratta che dei gradi, delle tappe, dei differenti livelli della rivelazione del desiderio. Perciò Freud si fa gioco da qualche parte dell’illusione di coloro che, dopo aver letto l’Interpretazione dei sogni, credono che la realtà del sogno sia la serie dei pensieri latenti del sogno. Freud stesso dice che, se fosse tutto qui, questa realtà non avrebbe alcun interesse.
Interessanti invece sono le tappe dell’elaborazione del sogno, perché è lì che si rivela quel che cerchiamo nell’interpretazione del sogno, quella x, che è in fin dei conti desiderio di niente. La sfido a portarmi un solo passo dell’Interpretazione dei sogni che concluda – ecco cosa desidera il soggetto.
Obiezione – E i sogni dei bambini?
È il solo punto equivoco dell’Interpretazione dei sogni. Ci ritornerò e vi mostrerò che questo elemento di confusione è dovuto alla tendenza presente in Freud, e che è quel che c’è di più caduco nella sua opera, a ricorrere spesso a un punto di vista generico. L’obiezione si confuta.
Fondamentalmente, quando Freud parla del desiderio come molla delle formazioni simboliche, dal sogno fino al motto di spirito attraverso tutti i fatti della psicopatologia della vita quotidiana, si tratta sempre del momento in cui ciò che viene all’esistenza attraverso il simbolo non è ancora, e non può quindi in alcun modo essere nominato.
In altri termini, dietro a ciò che è nominato, quello che c’è è innominabile. E poiché è innominabile, con tutte le risonanze che lei può dare a questo termine, è apparentato all’innominabile per eccellenza, cioè alla morte.
Rilegga l’Interpretazione dei sogni, se ne accorgerà a ogni passo. Tutto ciò che è rivelato di nominabile è sempre a livello dell’elaborazione del sogno. L’elaborazione è una simbolizzazione, con tutte le sue leggi, che sono quelle della significazione. Ne parlavo ieri sera evocando la partizione significativa, la polivalenza, la condensazione e gli altri termini di cui si serve Freud.
Si tratta sempre dell’ordine della sovra-determinazione, o anche dell’ordine della motivazione significativa. A partire dal momento in cui il desiderio vi è ormai entrato, in cui è preso da cima a fondo nella dialettica dell’alienazione e non si esprime altrimenti che come desiderio di riconoscimento e riconoscimento del desiderio, come raggiungere ciò che non era ancora?
Perché sarebbe la morte?
La lascio al limite della sua questione che mi prova che lei ha inteso ciò che ho detto.
(Lacan, Il Seminario: 2)
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L’io, sissignori, l’io del cogito – proprio quello – è un miraggio. E il luogo di questo miraggio è ai confini della «morte», sul limitare di quel Reame che è il Discorso «comune», la Chiacchiera «inconscia», il Verbo «insistente», il Si dice del Racconto, di là dal quale non c’è che l’innominabile – ossia quel «niente» che, come diceva la buonanima di Parmenide, se pure indicibile, lo stesso «è». Quel Niente è il Passato di tutti gli «io» umani, l’«aldilà» del loro «piacere», l’oltre di tutti i loro desideri. Quel Niente è talmente povero di senso, così vuoto e insignificante, che solo la parola più vuota di significato, il nostro verbo «essere», può in qualche modo renderne vagamente l’idea.
Il Discorso dell’uomo, il Racconto Umano è questo Niente che cocciutamente «è», e il cui «essere» non fa che ripetere la sua folle rincorsa al Senso. Folle, perché in fondo lo rincorre soltanto per «mortificarlo», per «dirlo» ma poi anche per «disdirlo» nel corso di quel «movimento» che, di generazione in generazione, non fa che allontanare, come dice Platone, ogni singola anima dalla sua stella natia.
Il Discorso «semina» miraggi al vento, perciò «raccoglie» solo tempeste, più o meno shakespeariane. Le 600.000 «anime» di un popolo, tutte, sono appese ai fili del Discorso che ne è l’Adamo biblico o il Demiurgo platonico, o anche – perché no? – il Coyote delle Pianure nordamericane. Lui – il Discorso comune, non è colpevole se non del niente (del «senza storia» cioè, e del «senza memoria») che perpetua dal fondo delle nostre parole.
Perché, mio caro «io», hai fatto questo? perché sei andato nientemeno a sposarti (con la tua solitudine) sulla luna?
Così, per niente – per l’Innominabile ho fatto tutto questo «vagabondare» su e giù dalla luna. L’ho fatto solo per Lui. Ho strappato una lettera al Discorso. Non ricordo bene: forse fu la lettera che venne a strapparmi al mio passato, in nome del Non-Sapere di tutta l’umanità – perché fossi «io», l’ignaro Edipo, l’ultimo a sapere di me, e solo quando avessi «ucciso» mio padre, solo nella sua «morte» trovando il Confine, la Linea Ideale, e perciò innominabile, rispetto a cui misurare nel mio cogito il vicino e il lontano, il domestico e l’esotico.
Oltre questa «linea di morte» non c’è che il Niente – nient’altro che il Vuoto che mi respinge, che mi stacca da sé, che mi taglia via, che mi fa a pezzi, che mi decapita di tutto ciò che di «umano» sussiste nel mio primitivo corpo «naturale». Nient’altro che questo Niente c’è, che mi spinge a rincorrere quel Senso che me lo oscuri alla vista, quel Presente che me lo rigetti alle spalle, o sotto i piedi. A navigare, tutto sommato, fiumi di parole che mi disperdano, pur di tenermi a distanza dalla mia «nullità».
In fondo, non faccio che andare e venire dalla luna. Tutto qua.
E forse ha ragione Nietzsche: conviene solo che questo «andare e venire» sia rapido, fulmineo. Forse conviene che non mi lasci distrarre, che non mi soffermi, non più di tanto, a meditare sul «significato» degli incontri che faccio viaggiando, e che come Zarathustra finalmente riconosca in me, anche in me, all’opera la ripetizione del Viaggio dell’Uomo – l’insistenza umana a imbarcare desideri e bisogni sulla prima nave Argo che salpa alla volta del non-dove Simbolico.
Forse, a furia di sbirciare oltre il «significato», al di là del Senso dei miei incontri, forse mi sto soltanto disumanizzando. Forse ero anch’io, come il profetico Zarathustra, «troppo umano» per poter danzare a tempo con la mia generazione. Forse, potevo sposarmi solo sulla luna, e solo con la più lunatica delle mie compagne di viaggio: la solitudine.
Il Discorso – sissignori, è Lui, il Pazzo che si prende gioco di me e della mia solitaria «compagna di viaggio»: è Lui che, appiccicato ai miei desideri, sogni e bisogni, mi suggerisce le parole da scambiare con Lei. Anche questo posto sulla luna, è il Discorso che me l’ha imposto come il solo dove io posso parlare a Lei.
Eppure, io a Lei non ho niente da dire – niente che non sia stato già detto e disdetto chissà quante miriadi di volte. Posso, per es., parlarle di Amore, posso fingere un Senso all’insensatezza del piacere di averla accanto. Ma, volendo, posso parlarle anche di Morte, posso cioè dare in anticipo per già viaggiato il nostro viaggio fin da prima che io e Lei c’incontrassimo.
Il Discorso, Lui, vince in entrambi i casi sulla mia «nullità». Al movimento naturale, al tragitto spontaneo del mio seme dalla terra alla luna, andata e ritorno, il Discorso impone, nell’un caso come nell’altro, in caso di Amore e/o di Morte, un altro movimento, il movimento dell’Altro attraverso il dire e il disdire che le parole degli uomini si fanno, dice Anassimandro, «secondo l’ordine del Tempo».
A chi viene dopo, il Discorso accorda momentaneamente un privilegio che, presto, gli toglierà per passarlo a un’altra generazione ancora. Se oggi Orlando è innamorato, domani sarà furioso. Questa è la Logica del Racconto che ereditiamo dal Passato. Da un Passato che possiamo solo ripetere.