… e il Demiurgo] fece un numero di anime pari a quello delle stelle, e le distribuì, ciascun’anima nella propria stella. E ponendole in tal modo su un veicolo, egli mostrò loro la natura dell’universo e rivelò le leggi del Destino: sarebbe toccata una prima nascita uguale per tutte, affinché nessuna di loro risultasse svantaggiata per opera sua, e sarebbero state seminate tutte negli strumenti del tempo, ciascuna in quello che le era appropriato, per nascere come le creature più timorate di Dio; e dal momento che la natura umana è duplice, la parte migliore sarebbe stata quella che poi avrebbe avuto il nome di «uomo». […]
E colui che avesse ben vissuto il tempo assegnatogli sarebbe ritornato alla dimora della sua stella consorte, dove avrebbe vissuto una vita felice e congeniale; ma se fosse venuto meno in ciò, nella sua seconda nascita sarebbe stato mutato in una «donna»; e se in tale condizione ancora non si fosse astenuto dal male, allora, secondo il carattere della sua depravazione, sarebbe stato continuamente tramutato in una qualche bestia della natura conforme a tale carattere, né avrebbe avuto requie dal travaglio di queste trasformazioni finché, lasciando che la rivoluzione del Medesimo e dell’Uniforme entro di sé si trascinasse dietro tutto il tumulto di fuoco e di acqua e di aria e di terra che vi si era in seguito aggregato attorno, egli non avesse controllato la propria turbolenza irrazionale con la forza della ragione e non fosse ritornato alla forma della sua condizione primitiva e migliore.
Dopo che ebbe comunicato loro tutte queste disposizioni, così da rimanere senza colpa della futura malvagità di ciascuno di loro, li seminò, alcuni sulla terra, altri sulla luna, altri ancora negli altri strumenti del tempo…
(Platone, Timeo, 41e-42d)
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Non occorre cimentarsi nella futile impresa di discutere sull’imparzialità del Demiurgo e sulla sua dichiarazione che tutte le anime avevano le medesime possibilità nella loro prima incarnazione. Che Dio sia di necessità innocente e l’uomo comunque colpevole, non è cosa che valga la pena discutere con Platone. Del resto, è l’ipotesi su cui poggia tutto il grandioso edificio della religione cristiana e del nostro mondo.
In ogni modo, il Demiurgo senza macchia, seminò le anime, in numero pari a quello delle stelle fisse, negli «strumenti del tempo» (cioè i pianeti), fra i quali Timeo annovera anche la terra; anzi, le seminò «ciascuna in quello che le era appropriato».
Che cosa significa? Timeo allude qui a un antico sistema che stabiliva un rapporto tra i membri fissi della comunità astrale e quelli vaganti – e non s’intendono solo le «case» zodiacali e le «esaltazioni» dei pianeti, bensì le stelle fisse in genere.
Conosciamo questa impostazione da tavolette cuneiformi astrologiche che contengono un numero considerevole di informazioni sulle stelle fisse che rappresentano un determinato pianeta e viceversa; ma il materiale non è sufficiente per spiegare le regole di questo disegno assai complesso. […]
Le anime vennero dunque tolte dalle loro stelle fisse e trasferite sui rappresentanti planetari corrispondenti, sempre secondo regole ben precise. Il Demiurgo si ritirò – trasformandosi nel personaggio noto sotto il nome di deus otiosus – e venne messa in moto la Macchina del Tempo.
Cornford, nella sua traduzione e commento del Timeo, afferma: «Secondo la meccanica del mito è naturale supporre che la prima generazione di anime venga seminata sulla Terra, mentre le altre aspettano il loro turno, non incarnate, nei pianeti».
Con tutto il rispetto per Cornford, non si vede come la sua teoria possa funzionare, e non si possono ammettere supposizioni naturali. Il Demiurgo del Timeo è troppo sistematico per permettere una simile soluzione; è chiaro, invece, e ragionevole – se si osserva con attenzione il modo in cui il Dio Artefice attenua gradatamente e sistematicamente l’originaria mescolanza di Esistenza, Medesimo e Altro – che sia necessario introdurre proprio qui una nuova «dimensione».
L’Eternità risiede nell’unità, nel più alto e remoto «fuori».
Dentro, il Tempo, sua perenne immagine, si muove secondo numero, cioè mediante la quotidiana rotazione della sfera fissa nel senso del «Medesimo» (l’equatore celeste) e mediante gli strumenti del tempo, i pianeti, che si muovono in direzione opposta lungo «l’Altro» (l’eclittica). Presi assieme, essi rappresentano gli «otto moti».
Ma con la fase successiva, quella che conduce dai pianeti alle creature viventi, il moto secondo numero viene escluso e deve essere sostituito (con grande rammarico di Platone) da una qualità di «moto» fondamentalmente diversa, il «moto» per generazione.
I pianeti, quantunque «diversi» tanto dall’eternità che risiede nell’unità quanto dal moto regolare della sfera delle costellazioni, rimangono perlomeno «se stessi» e sette di numero. L’anima dell’uomo, invece, non solo si reincarna di continuo, ma poiché l’umanità si moltiplica, come il grano a cui l’uomo viene così spesso paragonato, si suddivide sempre più.
Questa similitudine – ripetutamente fraintesa dai patiti della fertilità – andrebbe presa molto seriamente, e alla lettera. Il Demiurgo non ha creato le singole anime di tutti gli uomini destinati a nascere, bensì i primi antenati dei popoli, delle dinastie, ecc., vale a dire il «seme dell’uomo» che si moltiplica ed è macinato in farina impalpabile nel Mulino del Tempo.
L’idea che vi siano «Anime delle Stelle Fisse» da cui ebbe origine la vita mortale e a cui le anime eccezionalmente virtuose «una volta liberate» possono ritornare in qualsiasi momento, mentre la «farina» comune del mulino deve attendere pazientemente l’«ultimo giorno» nella speranza di poter fare altrettanto allora, tale idea non soltanto è una parte vitale del sistema arcaico del mondo, ma spiega anche, fino a un certo punto, l’interesse quasi ossessivo per gli avvenimenti celesti che ha dominato i millenni del passato.
Ai tempi nostri, benché sovente si ammoniscano ancora i bambini a esser buoni altrimenti rischiano di non andare in cielo, i cristiani hanno abolito lo schema del Timeo. Hanno condannato come eretica l’opinione di Origene secondo la quale, dopo il Giudizio Universale, le anime resuscitate avranno un corpo etereo e sferico.
Questa concezione fondamentale è stata espressa in molte lingue da un capo all’altro della «fascia delle civiltà superiori». Le immagini sono a volte inconfondibili, altre volte ambigue tanto da ingannare in pieno gli interpreti moderni come quando il «seme» stellare di certi gruppi etnici ci viene incontro sotto il nome di «totem».
Ma tra quelle inconfondibili c’è la tradizione rabbinica secondo cui in Adamo erano contenute le 600.000 anime di Israele, come altrettanti fili intrecciati assieme nello stoppino di una candela, tanto più che viene anche detto: «Il Figlio di Davide [il Messia] non verrà prima che tutte le anime che sono state sul corpo del primo uomo siano terminate».
Altrettanto inconfondibile è il mito dell’«ultimo giorno» presso i Pawnee skidi delle grandi Pianure nordamericane: «L’ordine per la fine di tutte le cose verrà dato dalla Stella del Nord, e la Stella del Sud eseguirà gli ordini. La nostra gente si trasformerà in piccole stelle e volerà fino alla Stella del Nord, al luogo che le spetta». […]
Il Timeo, anzi, la maggior parte dei miti platonici, come riflettori, gettano un forte fascio di luce su tutta quanta la mitologia delle «età arcaiche». Platone non ha inventato i suoi miti, ne ha fatto uso nel contesto giusto (a volte con un po’ d’ironia), senza divulgare il loro preciso significato: chiunque aveva accesso alla conoscenza della terminologia relativa li avrebbe capiti. A Platone, in fondo, la «farina» interessava ben poco.
Noi che viviamo in un tempo in cui nulla sfugge alla stampa e ogni scienza difficile viene «semplificata», non siamo certo nelle migliori condizioni per farci un’idea della rigorosa segretezza che circondava la scienza arcaica. Ci troviamo, anzi, in condizioni talmente cattive che spesso questo stesso fatto viene ritenuto sciocca leggenda.
Non lo è per nulla: lo stesso Copernico, nella sua immortale opera De revolutionibus orbium coelestium, dichiara gravemente che la scienza deve essere trattata come conoscenza riservata a pochi. Seguace delle concezioni pitagoriche fin dai tempi in cui era studente in Italia, egli riconosce di dovere la sua ispirazione ai grandi nomi di quella scuola, come Filolao e Icete, che aveva conosciuto attraverso i classici e che, egli dice, gli avevano dato il coraggio di opporsi alle nozioni filosofiche allora prevalenti.
«Non mi curo per nulla – scrive nella sua dedica al Papa – di coloro, anche dottori della Chiesa, i quali ripetono pregiudizi correnti. La matematica è fatta per i matematici».
Fu dunque l’autorità di quegli antichi maestri a dargli l’indipendenza di giudizio necessaria a scoprire la posizione centrale del sole nel sistema planetario. Studioso schivo e riservato, egli si appella a quella grande tradizione che ancora ai tempi di Galileo veniva chiamata la «setta pitagorica», per proporre una teoria che era allora comunemente considerata rivoluzionaria e sovversiva. E se non volle pubblicarla fin quasi all’ultimo, non fu per la paura di essere perseguitato, ma per un’intima avversione a dare l’argomento in pasto al pubblico.
Nel primo libro egli cita da una «corrispondenza epistolare» fra antichi adepti; si tratta probabilmente di un antico pastiche, che però riflette davvero il loro modo di pensare: «Sarebbe bene ricordarsi dei precetti del Maestro, e non comunicare i doni della filosofia a coloro che non si sono nemmeno sognati di purificare l’anima. Quanto poi a coloro che cercano di impartire queste dottrine nell’ordine sbagliato e senza preparazione, essi sono come chi volesse versare acqua pura in una cisterna melmosa: costui riuscirebbe solo ad agitare la melma e a perdere l’acqua».
Nel creare il linguaggio della filosofia del futuro, Platone parlava ancora l’antico idioma. Era, per così dire, una «stele di Rosetta» vivente. E difatti – per quanto strano possa sembrare agli specialisti di antichità classica – una lunga esperienza ha dimostrato la seguente regola metodologica empirica: ogni disegno rinvenuto in miti che vanno dall’Islanda alla Cina all’America precolombiana e per il quale esistano allusioni in Platone, risale certamente a un’età remota, e può essere accettato per moneta buona. Esso proviene da quella zecca «proto-pitagorica» situata nella «mezzaluna fertile», che un tempo coniò il linguaggio tecnico e lo consegnò ai pitagorici (e, com’è ovvio, anche a molti altri «clienti»).
È strano, certo, ma funziona, così come ha funzionato in precedenza, prima che decidessimo di nominare Platone nostro giudice supremo di Corte d’Appello per i casi dubbi di mitologia comparata: citiamo come esempio il mito platonico narrato da Aristofane nel Simposio, in cui H. Baumann riconobbe il passepartout che apriva le porte dei mille e uno miti che trattano di dèi bisessuali, di anime bisessuali, eccetera.
Platone sapeva – e v’è motivo di ritenere che lo sapesse anche Eudosso – che il linguaggio del mito opera, in linea di principio, per generalizzazioni, con la stessa spietatezza del gergo della moderna tecnologia. Il modo in cui Platone lo usa, i fenomeni che preferisce esprimere nell’idioma mitico, rivelano come egli lo comprendesse perfettamente.
Non esiste, a quanto pare, altra tecnica oltre al mito che riesca a «raccontare» la struttura). Il «trucco» è questo: s’incomincia col descrivere l’opposto della realtà conosciuta, sostenendo che «tanto tempo fa» le cose stavano nella tal maniera e funzionavano in un modo assai strano, ma poi avvenne che…
Ciò che conta è l’esito, il risultato degli avvenimenti narrati.
Di solito non si pensa che questo modo di dire le cose è solo un artificio tecnico, e si accusano gli antichi mitografi di aver «creduto» che in tempo ancor più antichi le cose fossero tutte capovolte.
Dal momento che si tratta di una lingua vera e propria, l’idioma del mito porta con sé l’emergere della poesia. Ad esempio, non c’è filologo classico che non riconosca che Igino e colleghi riferiscono abbastanza fedelmente gli intrecci dei miti in cinque o dieci righe di idioma «esatto» che, per interesse, possono stare alla pari di un comune riassunto, mentre lo stesso linguaggio tecnico, se usato da Eschilo, ci scuote ancor oggi fin dentro l’anima.
Ma, per quanto grande sia la differenza di statura poetica tra i vari mitografi, la terminologia in sé era stata coniata assai prima che apparissero sulla scena poeti di cui ci siano noti i nomi.
«Terminologia» è però un termine troppo arido e inadeguato, perché da questa zecca sono usciti tipi ben delineati (sopravvissuti fino ad oggi, per esempio, nei giochi dei bambini, nelle figure degli scacchi e delle carte da gioco), unitamente alle avventure loro destinate; e queste immagini orali sono sopravvissute al sorgere e al cadere di imperi, si sono accordate a nuove civiltà e a nuovi ambienti.
Il merito principale di questo linguaggio è risultato essere la sua intrinseca ambiguità. Il mito può essere usato come veicolo per trasmettere conoscenze concrete indipendentemente dal grado di consapevolezza delle persone che concretamente narrano le storie, le favole o altro.
Nei tempi antichi, inoltre, esso permetteva ai membri del brain trust arcaico di «parlare di lavoro» senza curarsi della presenza dei non addetti: il pericolo di lasciar trapelare qualche cosa era praticamente nullo.
(Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto)