Calvino – Il naso d’argento

C’era una lavandaia che era rimasta vedova con tre figlie. S’ingegnavano tutte e quattro a lavar roba più che potevano, ma pativano la fame lo stesso.
Un giorno la figlia maggiore disse alla madre: «Dovessi anche andare a servire il Diavolo, guttuso-lavandaiavoglio andarmene via di casa».
«Non dire così, figlia mia – fece la madre. – Non sai cosa ti può succedere».

Non passarono molti giorni e a casa loro si presentò un signore vestito di nero, tutto compito, e col naso d’argento.
«So che avete tre figlie – disse alla madre. – Lascereste che ne venisse una a mio servizio?».
La madre l’avrebbe lasciata andare subito, ma c’era quel naso d’argento che non le piaceva. Chiamò in disparte la figlia maggiore e le disse: «Guarda che in questo mondo uomini col naso d’argento non ce ne sono: sta’ attenta, se vai con lui te ne potresti pentire».

La figlia, che non vedeva l’ora d’andarsene di casa, partì lo stesso con quell’uomo. Fecero molta strada, per boschi e per montagne, e a un certo punto, lontano, si vide un gran chiarore come d’un incendio.
«Cosa c’è laggiù?», chiese la ragazza, cominciando a sentire un po’ d’apprensione.
«Casa mia. Là andiamo», disse Naso d’Argento.

La ragazza proseguì e non sapeva ormai trattenere un tremito. Arrivarono a un gran palazzo, e Naso d’Argento la portò a vedere tutte le stanze, una più bella dell’altra, e d’ognuna le dava la chiave.
Giunti alla porta dell’ultima stanza, Naso d’Argento le diede la chiave ma le disse: «Questa porta non la devi aprire per nessuna ragione, se no guai! Di tutto il resto, sei padrona; ma di questa stanza no!».
La ragazza pensò: «Qui c’è qualcosa sotto!» e si ripromise d’aprire quella porta appena Naso d’Argento l’avrebbe lasciata sola. La sera dormiva nella sua cameretta, quando Naso d’Argento entrò furtivamente, s’avvicinò al suo letto e le pose tra i capelli una rosa. E silenzioso com’era venuto se ne andò.

L’indomani mattina, Naso d’Argento uscì per i suoi affari, e la ragazza, rimasta sola in casa con tutte le chiavi, corse subito ad aprire la porta proibita.
Appena schiuse la porta, uscirono fuori fiamme e fumo: e in mezzo al fuoco e al fumo c’era pieno d’anime dannate che bruciavano. Capì allora che Naso d’Argento era il Diavolo e quella stanza era l’Inferno. Diede un grido, chiuse subito la porta, scappò quanto più lontano poteva da quella stanza infernale, ma una lingua di fuoco le aveva naso-argentobruciacchiato la rosa che portava tra i capelli.
Naso d’Argento tornò a casa e vide la rosa strinata. «Ah, come m’hai obbedito!», disse. La prese di peso, aperse la porta dell’Inferno, e la scagliò tra le fiamme.

Il giorno dopo ritornò da quella donna: «Vostra figlia si trova tanto bene da me, ma il lavoro è molto e ha bisogno d’aiuto. Ci mandereste anche la seconda vostra figlia?».
E così Naso d’Argento tornò con l’altra sorella. Anche a lei mostrò la casa, diede tutte le chiavi e anche a lei disse che tutte le stanze poteva aprire, tranne quell’ultima.
«Figuratevi – disse la ragazza – perché dovrei aprirla? Che me n’importa degli affari vostri?».
La sera, quando la ragazza andò a letto, Naso d’Argento s’avvicinò al suo letto piano piano e le mise tra i capelli un garofano.

La mattina dopo, appena Naso d’Argento fu uscito, la prima cosa che fece la ragazza fu d’andare ad aprire la porta proibita. Fumo, fiamme, urla di dannati, e in mezzo al fuoco riconobbe sua sorella.
«Sorella mia, – le gridò – liberami tu da quest’Inferno!».
Ma la ragazza si sentiva svenire; chiuse la porta in fretta e scappò, ma non sapeva dove nascondersi perché ormai era sicura che Naso d’Argento era il Diavolo e lei era in mano sua senza scampo.
Tornò Naso d’Argento e per prima cosa la guardò in testa: vide il garofano appassito, e senza dirle una parola la prese di peso e la buttò anche lei all’Inferno.

L’indomani, vestito come al solito da gran signore, si ripresentò a casa della lavandaia: «Il lavoro a casa mia è tanto, due ragazze non bastano: mi dareste anche la terza?».
E così se ne tornò con la terza sorella, che si chiamava Lucia ed era la più furba di tutte. Anche a lei mostrò la casa e fece le solite raccomandazioni; e anche a lei mentre era addormentata mise un fiore nei capelli: un fior di gelsomino.
Alla mattina, quando Lucia s’alzò, andò subito a pettinarsi, e guardandosi nello specchio, vide il gelsomino. «Guarda un po’ – si disse. – Naso d’Argento m’ha messo un gelsomino. Che gentile pensiero! Mah! Lo metterò in fresco», e lo mise in un bicchiere. Quando fu pettinata, visto che era sola in casa, pensò: «Adesso andiamo un po’ a vedere quella porta misteriosa».

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Appena aperto, ecco le vien contro una vampa di fuoco, e vede tanta gente che bruciava, e, in mezzo a tutti, sua sorella la maggiore, e poi sua sorella la seconda. «Lucia! Lucia! – gridarono, – toglici di qui! salvaci!».
Lucia per prima cosa richiuse la porta per bene; poi pensò come poteva salvare le sorelle.

Quando tornò il Diavolo, Lucia s’era rimessa tra i capelli il suo gelsomino, e faceva finta di niente. Naso d’Argento guardò il gelsomino: «Oh, è fresco», disse.
«Certo, perché non avrebbe dovuto esser fresco? Che si tengono in testa i fiori secchi?».
«Niente, dicevo così per dire – fece Naso d’Argento. – Tu mi sembri una brava ragazza, se continuerai così andremo sempre d’accordo. Sei contenta?».
«Sì, qui sto bene, ma starei ancor meglio se non ci avessi un pensiero».
«Che pensiero?».
«Quando sono partita da casa mia madre non stava tanto bene. E ora sono senza sue notizie».
«Se non è che questo – disse il Diavolo – ci faccio un passo io e così ti porto notizie».
«Grazie, siete proprio buono. Se potete passarci domani, io intanto preparo un sacco con un po’ di roba sporca, così se mia madre sta bene gliela date da lavare. Non vi pesa?».
«Figurati – disse il Diavolo. – Io posso portare qualsiasi peso».

Appena il Diavolo fu uscito, Lucia aperse la porta dell’Inferno, tirò fuori sua sorella maggiore e la chiuse in un sacco: «Stattene lì tranquilla, Carlotta – le disse. – Adesso il Diavolo in persona ti riporterà a casa. Ma, se senti che fa tanto di posare il sacco, bisogna barbablu-ragazzache tu dica: “Ti vedo! Ti vedo!”».
Quando venne Naso d’Argento, Lucia gli disse: «Qui c’è il sacco della roba da lavare. Ma ce lo portate davvero fin da mia madre?».
«Non ti fidi di me?», fece il Diavolo.
«Sì che mi fido, tanto più che io ho questa virtù: che posso vedere da lontano, e, se fate tanto di posare il sacco da qualche parte, io lo vedo».
Il Diavolo disse: «Ah sì, guarda!», ma lui a questa storia della virtù di vedere da lontano ci credeva poco. Si mise il sacco in spalla: «Quanto pesa, questa roba sporca!», fece.
«Sfido! – disse la ragazza. – Quanti anni erano che non davate niente a lavare?».

Naso d’Argento si mise in cammino. Ma, arrivato a mezza strada, si disse: «Sarà! Però io voglio vedere se questa ragazza, con la scusa di mandare la roba a lavare, non mi vuota la casa», e fece per posare il sacco e aprirlo.
«Ti vedo! Ti vedo!», gridò subito la sorella da dentro il sacco.
«Perbacco, è vero! Vede da distante!», si disse Naso d’Argento, e rimessosi il sacco in spalla, andò difilato a casa della madre di Lucia.
«Vostra figlia vi manda questa roba da lavare e vuol sapere come state…».
Appena rimasta sola, la lavandaia aperse il sacco, e figuratevi il suo piacere a ritrovare la figlia maggiore.

Dopo una settimana, la Lucia tornò a far la malinconica con Naso d’Argento, e a dirgli che voleva notizie della madre.
E lo mandò a casa sua con un altro sacco di roba sporca. Così Naso d’Argento si portò via la seconda sorella, e non riuscì a guardare dentro il sacco perché sentì gridare: «Ti vedo! Ti vedo!».
La lavandaia, che ormai sapeva che Naso d’Argento era il Diavolo, era piena di paura vedendolo tornare perché pensava che le avrebbe chiesto la roba lavata dell’altra volta, ma Naso d’Argento posò il nuovo sacco, e disse: «La roba lavata la verrò a prendere un altro giorno. Con questo sacco pesante mi son rotto le ossa e voglio tornare a casa scarico».

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Quando se ne fu andato, la lavandaia tutta ansiosa aperse il sacco e abbracciò la sua seconda figlia. Ma cominciò a essere più in pena che mai per Lucia che ora era sola in mano al Diavolo.
Cosa fece Lucia? Di lì a poco, riattaccò con quella storia delle notizie della madre. Il Diavolo, s’era ormai seccato di portar sacchi di roba sporca, ma questa ragazza era così obbediente che lui se la teneva cara.
La sera prima, Lucia disse che aveva tanto mal di testa e andava a letto prima: «Vi lascio il sacco preparato, così domattina, anche se non mi sento bene e non mi trovate alzata potete prenderlo da voi».

Ora, bisogna sapere che Lucia s’era cucita una bambola di stracci grande quanto lei. La mise a letto, sepolta sotto le coperte, si tagliò le trecce e le cucì in testa alla bambola, così che sembrava lei addormentata. E lei si chiuse nel sacco.
La mattina, il Diavolo vide la ragazza in letto sprofondata sotto le coperte, e si mise in via col sacco in spalla: «Stamattina è malata – si disse. – Non ci farà attenzione. È la volta buona per vedere se è davvero solo roba sporca». Posò lesto il sacco e fece per aprirlo. «Ti vedo! Ti vedo!», gridò Lucia.
«Perbacco! Proprio la sua voce come fosse qui! È una ragazza che è meglio non scherzarci tanto».

Si rimise il sacco in spalla e lo portò alla lavandaia: «Passerò a prendere tutto poi – disse in fretta, – ora devo tornare a casa perché Lucia è ammalata».
Così la famiglia fu di nuovo riunita, e siccome Lucia s’era portata dietro anche tanti quattrini del Diavolo, potevano vivere felici e contente. Piantarono una croce davanti all’uscio, così il Diavolo non osò più avvicinarsi.

(Calvino, Fiabe italiane: 9)

***

Il Personaggio, facile da riconoscere qui, è quello della Ragazza Avventurosa che casa-nel-boscoabbiamo già incontrato in molti miti delle due Americhe – ora nei panni della Ragazza Folle di Miele, ora in quelli della Farfalla che svolazzando di fiore in fiore, dalla rosa al garofano e da questo al gelsomino, smarrisce la via di casa.
La Donna Errante – ecco come la potremmo chiamare. La Donna che errando finisce per trovarsi ora sposa lassù in cielo di Luna, ora invece serva quaggiù in terra del Diavolo. In entrambi i casi, a distanza dal giusto mezzo di una «verità».

Sulla scena, la sua è la parte della Lontana. Non è mai a casa sua, non si sente mai a casa, a volte perfino nella Lontananza c’è ancora un pensiero che la perseguita, e che sotto la penna di tutti i Narratori, nostrani e non, prende sempre quel colore che noi chiamiamo «nostalgia».
Come può la Lontana tornare sui suoi passi? Per quale via, o in virtù di quale stratagemma, tornerà alla sua Matrice – a Colei che «lava» tutti i «peccati» del mondo, alla Lavandaia che non è mai uscita dal recinto del suo «casa e bottega»?

Non tornerà più! – questo è il responso «americano». Il giorno che si azzarderà a lasciare la Casa del suo «lunatismo», e si taglierà le trecce per usarle a mo’ di corda con cui scendere dal Cielo, farà l’amara, tragica scoperta che la sua fune, la fune della sua immaginazione, è troppo corta. Morirà, si estinguerà, lasciando però dietro di sé un «erede»: il Figlio dell’Errore, l’«io», il «resto lunatico» dell’avventura materna, l’«avanzo immaginale» che prolifererà nel Reame simbolico.

Ma no, non è così che andrà a finire! – replica, dal canto suo, la fiaba «europea». Se non al primo, se non al secondo, vedrai che al terzo tentativo la Furbizia salverà l’Avventurosa dalle grinfie del Demonio.
Sì, è vero, si taglierà le trecce come nel racconto «americano», ma non ne farà una corda. Le serviranno, piuttosto, per «truccare» la bambola e renderla a sé quanto più simile. Lascerà solo questo suo «doppio» in ostaggio al Diavolo. Lei se la svignerà, grazie a Dio!

Si passa così dalla tragedia «americana» al tarallucci e vino della «fiaba europea», ma il personaggio-chiave, intanto, il Personaggio messo «sotto accusa» è sempre lei: la Signora delle Regole, cosmiche e antropologiche.
La Donna le cui «regole lunatiche» oscillano da un’eccezione all’altra, o per meglio dire: da un’eccitazione all’altra, senza mai stabilizzarsi in una morale, in un costume che non moreau-giove-semelesia l’«usa e getta» delle sue momentanee attrazioni.
La morale «domestica» le va sempre stretta. Ha bisogno di prendere aria, di allontanarsi, sennò… soffoca.

Ecco, è a questo «tragico» Personaggio che la «fiaba europea» ha messo la museruola. O ha creduto di averla messa, una volta per tutte – tagliando la corda al suo «destino»: negandole, anzitutto, il viaggio in cielo, per spedirla subito all’inferno; e poi, di lì, procurandole giusto la furbizia per sfuggire alla «dannazione» perpetua e rientrare nei ranghi.
Ma cacciato così dalla Fiaba, il Personaggio è andato a cercarsi altrove i suoi Interpreti. L’Avventurosa «morta» ha lasciato comunque un figlio. Semele, folgorata dalla Luce Celeste del suo «divino» sposo, ha lasciato dietro di sé Dioniso. L’Avventura dell’Errante non è, dunque, finita. Né Lei, né alcuno degli Interpreti del ruolo di suo Figlio – è però mai più tornato a casa.

L’Errante è ancora lì che erra nelle pagine di un Nietzsche, per esempio. Ancora è Lontana dalla sua Matrice, anzi: a ogni intuizione, a ogni eccitazione ancor di più si allontana dalla Regola, per avventurarsi nel «gusto della propria indipendenza» [dalle abitudini, dagli usi linguistici e dai costumi sociali] lasciandosi andare «a un veloce andare e venire, al vagabondaggio, e ad avventure» che possono essere solo «danzate».
Perché non ci sono parole (la Fiaba le ha cancellate), non ci sono parole per «dire» quelle eccezioni che non vogliono ma neanche possono essere comprese né in cielo né in terra. Non si tratta che di «movimenti», e a chi li vuol danzare, questi movimenti non chiedono che la «scioltezza», nient’altro che di sciogliersi dal dilemma del vicino e del lontano, e di nutrirsi solo della propria «disgrazia».