Nietzsche – Per la questione della comprensibilità

Quando si scrive, non si vuole soltanto essere compresi, ma senza dubbio anche non essere compresi. Non è ancora affatto un’obiezione contro un libro, se una persona qualsiasi lo trova incomprensibile: forse proprio questo era nell’intenzione del suo ballerino-nuvoleautore – egli non voleva essere compreso da «una persona qualsiasi».
Ogni nobiltà di spirito e di gusto si sceglie anche i suoi ascoltatori, quando vuole parteciparsi: scegliendo, traccia al tempo stesso i suoi confini nei riguardi degli «altri». Tutte le leggi più sottili di uno stile hanno qui la loro origine: tengono a un tempo lontani, creano distanza, interdicono «l’accesso», la comprensione, come si è detto – mentre aprono le orecchie di coloro che di orecchio ci sono affini.

E sia detto fra noi, per quanto personalmente mi riguarda, non voglio che la mia ignoranza e la vivacità del mio temperamento abbiano a impedirmi d’essere comprensibile per voi, amici miei: non la vivacità, per quanto essa mi costringa ad avvicinarmi a una cosa in un battibaleno, per potermi in genere accostare ad essa.
Infatti, con i problemi profondi mi comporto come con un bagno freddo – presto dentro, presto fuori. Che così non si tocchi il fondo, non si scenda abbastanza in profondo, è la superstizione di chi ha paura dell’acqua, dei nemici dell’acqua fredda: parlano senza esperienza.
Oh! come rende svelti il gran freddo!

Incidentalmente, domando: è vero che una cosa resta incompresa e ignota per il semplice fatto che viene afferrata a volo, adocchiata e colta in un baleno? Si deve proprio prendere prima di tutto saldo possesso di essa? Averci fatto sopra la cova come su di un uovo? Diu noctuque incubando, come diceva Newton di se stesso?
Perlomeno ci sono verità particolarmente timide e sensibili al solletico, di cui non ci si può impadronire se non all’improvviso, verità che si deve cogliere di sorpresa o lasciarle andare…

Infine, la mia brevità ha anche un altro valore: entro quei tali problemi che mi occupano, devo dire in breve molte cose, per essere udito ancora più brevemente.
Come immoralisti, invece, ci si deve guardare dal corrompere l’innocenza, voglio dire gli asini e le vecchie zitelle di ambo i sessi, che della vita non hanno null’altro se non il loro carrington-partocandore; e di più ancora, i miei scritti devono entusiasmarli, elevarli, incitarli alla virtù.
Che io sappia non c’è niente sulla terra di più divertente che vedere vecchi asini e vecchie zitelle in preda all’entusiasmo, quando sono eccitati dai dolci sentimenti della virtù: e «questo io l’ho veduto» – così parlò Zarathustra.

Tanto dovevo dire riguardo alla brevità: le cose si mettono peggio per quanto riguarda la mia ignoranza, di cui non faccio mistero neppure davanti a me stesso. Ci sono dei momenti in cui me ne vergogno; come pure ci sono in verità degli altri momenti in cui mi vergogno di questa vergogna.
Forse al giorno d’oggi tutti quanti noi filosofi ci troviamo in una brutta posizione di fronte al sapere: la scienza è in rigoglio, i più dotti tra noi sono prossimi a scoprire di saper troppo poco. Ma sarebbe pur sempre peggio, se le cose stessero altrimenti – se noi sapessimo troppo: il nostro compito è e rimane in primo luogo quello di non fraintendere noi stessi.

Noi siamo qualcos’altro che dotti: benché sia inevitabile che tra l’altro noi siamo anche addottrinati. Abbiamo altre esigenze, un diverso sviluppo, un’altra digestione: ci occorre di più, ci occorre anche di meno.
Non esiste una formula di quanto uno spirito necessita per la sua nutrizione; ma se il suo gusto è rivolto all’indipendenza, a un veloce andare e venire, al vagabondaggio, ad avventure, forse, di cui soltanto i più rapidi sono capaci, allora egli preferisce vivere libero con poco da mangiare, piuttosto che non libero e rimpinzato.

Non la pinguedine, ma la più grande scioltezza e forza è ciò che un buon ballerino vuole per nutrimento – e non saprei che cosa lo spirito di un filosofo potrebbe desiderare di più che essere un buon ballerino.
La danza, infatti, è il suo ideale e anche la sua arte, perfino, in definitiva, la sua unica religiosità, il suo «servizio divino»…

(Nietzsche, La gaia scienza: 381)