E perdonate a me la mia virtù,
giacché in tempi di grassa come questi,
in mezzo a tanto grasso, la virtù
è costretta a implorar perdono al vizio
e a chiedergli in ginocchio,
il permesso di procurargli bene.
(Shakespeare, Amleto, 3: 4)
La Storia si ripete: quante volte l’abbiamo sentito dire!
E proprio perciò, dopo tante volte, è il caso di pensarci – a questa storia della Storia che si ripete. Ci hanno pensato certi Filosofi dei giorni nostri. Pensato e ripensato più volte – fino a stravolgere l’analisi logica della frase!
Chi è, in realtà, il Soggetto della Ripetizione storica? Chi il reale Ripetente? È la Storia in persona? e che razza di «persona» (di maschera) può essere mai la Storia?
Il Soggetto della Ripetizione, ne hanno dedotto i Filosofi, è una Persona che trascende l’individuo – una Persona sovra-individuale, o come si dice in Teatro: un Personaggio che si offre a molti Interpreti.
Quale che sia il talento di questi ultimi, il Ruolo si ripete al di là dei modi e delle mode dell’interpretazione. Lo stesso Ruolo, dice qui il nostro compianto Deleuze (non lo compiangeremo mai abbastanza!) – lo stesso Ruolo si ripete, in generale, tre volte; si scandisce in tre «grandi intervalli»: il Comico, il Tragico e il Plebeo dell’Avvenire.
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La teoria della ripetizione storica di Marx (cfr. in particolare Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte), si svolge intorno al seguente principio che non sembra sia stato sufficientemente compreso dagli storici: nella storia la ripetizione non è un’analogia o un concetto della riflessione dello storico, ma anzitutto una condizione dell’azione storica stessa.
Harold Rosenberg, in alcune pagine assai belle, ha messo in luce che gli attori, gli agenti, della storia non possono creare se non a condizione di identificarsi con delle figure del passato, e in questo senso la storia è un teatro:
…la loro azione fu la ripetizione automatica di un vecchio ruolo… È la crisi rivoluzionaria, l’impulso «a creare qualcosa che non è mai esistito» che spinge la storia ad ammantarsi nel mito.
(H. Rosenberg, La tradizione del nuovo, cap. XII, I Romani risorti)
Per Marx, la ripetizione è comica quando cambia direzione, cioè quando, in luogo di condurre alla metamorfosi e alla produzione del nuovo, forma una sorta di involuzione, il contrario di una creazione autentica: il travestimento comico sostituisce la metamorfosi tragica. Sembra però che per Marx la ripetizione comica o grottesca venga necessariamente dopo la ripetizione tragica, evolutiva o creatrice («tutti i grandi avvenimenti e personaggi storici si ripetono per così dire due volte… la prima, come tragedia, la seconda, come farsa»).
Quest’ordine temporale non sembra tuttavia assolutamente fondato. La ripetizione comica opera per difetto, sul modo del proprio passato. L’eroe affronta necessariamente la ripetizione in quanto «l’azione è troppo grande per lui»: l’assassinio di Polonio è comico per difetto [Amleto sulle prime crede di aver assassinato il Re], e così l’inchiesta di Edipo [che mai neanche sospetta di poter essere stato lui ad assassinare suo Padre]. La ripetizione tragica viene dopo, costituisce il momento della metamorfosi.
È vero che questi due momenti non sono indipendenti, e esistono solo per il terzo, di là dal comico e dal tragico: ossia, per la ripetizione drammatica nella produzione di qualcosa di nuovo, che esclude lo stesso eroe.
È solo quando i due primi elementi assumono un’indipendenza astratta, o diventano generi, è solo allora che il genere comico succede [come diceva Marx] al genere tragico, come se lo scacco della metamorfosi, elevato all’assoluto, presupponesse un’antica metamorfosi già compiuta.
Va notato che la struttura a tre tempi della ripetizione è tanto quella di Amleto quanto quella di Edipo. Hölderlin lo mostrava per Edipo con straordinario rigore quando segnalava che le dimensioni relative del prima e del dopo potevano variare secondo la posizione della cesura (si veda la rapida morte di Antigone in opposizione al lungo errare di Edipo). Ma l’essenziale è la persistenza della struttura triadica.
A questo proposito, Rosenberg interpreta Amleto in modo del tutto conforme allo schema holderliniano, con la cesura costituita dal viaggio per mare. Amleto non somiglia ad Edipo soltanto per l’argomento, ma anche per la forma drammatica. Il dramma non ha se non una forma che riunisce le tre ripetizioni.
È evidente che lo Zarathustra di Nietzsche è un dramma, vale a dire un teatro. La prima [ripetizione] occupa la maggior parte del libro, secondo il modo dell’errore e del passato: questa azione è troppo grande per me (cfr. l’idea del «pallido criminale» o tutta la storia comica della morte di Dio, o la paura di Zarathustra davanti alla rivelazione dell’eterno ritorno – «I tuoi frutti sono maturi, ma tu, tu non sei maturo per i tuoi frutti»).
Quindi viene il momento della cesura o della metamorfosi, «il Segno», in cui Zarathustra diviene capace. Manca il terzo momento, quello della rivelazione e dell’affermazione dell’eterno ritorno, che implica la morte di Zarathustra, ma come è noto, Nietzsche non ebbe il tempo di scrivere la terza parte che progettava. È questa la ragione per cui abbiamo considerato sempre la dottrina nietzschiana come non enunciata, ma destinata a un’opera futura: Nietzsche ha descritto solo la condizione passata e la metamorfosi presente, ma non l’incondizionato che doveva risultarne come «avvenire».
Il tema dei tre tempi si ritrova già nella maggior parte delle concezioni cicliche: come i tre Testamenti di Gioacchino da Fiore, o le tre età di Vico, l’età degli dei, l’età degli eroi, l’età degli uomini.
Il primo tempo è necessariamente per difetto, e come chiuso su di sé; il secondo, aperto, testimonia della metamorfosi eroica; ma la parte più essenziale o più misteriosa si trova nel terzo tempo, che svolge la funzione di «significato» in rapporto agli altri due (e Gioacchino da Fiore poteva scrivere che «ci sono due cose significative per una cosa significata).
Pierre Ballanche, che deve molto a Gioacchino da Fiore e a Vico, cerca di determinare questo terzo tempo come il tempo del plebeo, il tempo di Ulisse o di «nessuno», ossia dell’«Uomo senza nome», il regicida o moderno Edipo che «cerca le membra sparse della grande vittima» (Essais de palingénésie sociale).
Da questo punto di vista occorre distinguere varie ripetizioni possibili, che non si conciliano esattamente: 1) c’è una ripetizione intraciclica che consiste nel modo in cui le due prime età si ripetono l’un l’altra, o piuttosto ripetono una stessa «cosa», azione o avvenimento a venire (e questa è soprattutto la tesi di Gioacchino da Fiore, che stabilisce una tavola delle concordanze tra l’antico e il nuovo Testamento; ma tale tesi non può ancora superare le semplici analogie della riflessione); 2) c’è una ripetizione ciclica in cui si suppone che, alla fine della terza età e al punto estremo di una dissoluzione, tutto ricominci dalla prima: sicché le analogie si stabiliscono tra due cicli (Vico); 3) c’è, e qui sta tutto il problema, una ripetizione propria della terza età, e che sola potrebbe meritare il nome di Eterno Ritorno?
Difatti, ciò che le due prime età ripetevano, era qualcosa che non appariva per sé che nella terza; ma nella terza, questa «cosa» si ripete in se stessa. Le due «significazioni» sono già ripetitive, ma il significato stesso è la pura Ripetizione. Per l’appunto, codesta ripetizione superiore concepita come Eterno Ritorno nel terzo stato basta allo stesso tempo a correggere l’ipotesi intraciclica e a contraddire l’ipotesi ciclica.
Da una parte, difatti, la ripetizione nei due primi momenti non esprime più le analogie della riflessione, ma le condizioni dell’azione in cui l’eterno ritorno è effettivamente prodotto; dall’altra, questi due primi momenti non tornano, essendo al contrario eliminati dalla riproduzione dell’eterno ritorno nel terzo. Da entrambi questi punti di vista, Nietzsche ha profondamente ragione di opporre la «sua» concezione a ogni concezione ciclica.
(Deleuze, Differenza e ripetizione)
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Gli Interpreti, gli Attori salgono sul palcoscenico (detto da Deleuze s’intende: le «sintesi attive» entrano in gioco) «a condizione di identificarsi con figure del passato». Essi si guadagnano una «identità» (qualcosa come il primo germe di «io») solo ripetendo un Personaggio – solo «doppiando» un riflesso della Montagna nel lago, solo «duplicando» un certo Passato.
Ciascuno ne può ridere, o piangere – interpretare comicamente o tragicamente questo Passato, a condizione però di farne il suo «doppio» o, forse meglio, di offrire se stesso come «doppiatore» del già «filmato».
La Storia è un film, la Storia è un teatro – anzi no: la Storia è la Sceneggiata.
Si sceneggia «a soggetto»: lo dimostra il fatto che il Copione non è poi così rigido come può sembrare, e ammette perfino la «libera (e perciò arbitraria) interpretazione», perché, tutto sommato, esso è Vuoto – uno Spazio sempre vuoto, e perciò capace di accogliere tutt’e tre i tempi della Ripetizione, e di ciascuno tutti i colori, e perfino le sfumature, delle loro interpretazioni possibili.
Lo Spazio della Storia è sempre là – di Identico, di Medesimo nella ripetizione temporale, non c’è che lo Spazio Originario della Storia. Nient’altro che la Scena Vuota – e perciò Aperta a tutti gli attori possibili e immaginabili.
Questo Spazio, ci sta dicendo di volta in volta Deleuze, ha una base – un piano orizzontale: quella che lui chiama la Terra di Fondazione. Questo Spazio ha una Superficie: il Lenzuolo Bianco su cui si proietta il Film della Montagna, dice dal canto suo Lacan. Questo Schermo è la Coscienza, la Memoria Storica, il Passato da vivere ancora, da ripetere all’infinito, o – se preferisci – fino al Giorno del Giudizio.
Certi mistici ne parlavano già, tempo addietro. Dicevano: questo Spazio è la Tavoletta di Smeraldo. È là, di fronte a tutti i candidati alla stesura d’un copione, e a ciascuno di loro dice: su, dai, scriviti qui!
Dicevano quei mistici che un Calamo scende dall’alto, ogni volta che un novello interprete si candida a riscrivere la Sceneggiata: è il suo Occhio che cade nel Miraggio dei riflessi della Montagna nel Lago. Cade, dice Deleuze, il Fondamento. Dice: sull’Abitudine cade (incide) il primo solco Mnemosine. È ancora l’immagine stoica: dall’alto cade un sasso nell’acqua e…
Lo vedi? anche se in apparenza è dei tre tempi della Ripetizione che qui si parla, tu non farti ingannare: prima del «numero del movimento», prima della scoperta del Tempo, prima cioè della prima tecnica di memoria, c’è il «movimento» senza memoria da un riflesso all’altro della Montagna nel Lago. Prima, dunque, c’è questo Spazio: uno, isotropo, continuo, indifferenziato. È la Sostanza della nostra Storia. La nostra Storia cadrebbe nel vuoto in mancanza di questo Palcoscenico, o se questo Palcoscenico rimanesse una Superficie Inerte a cui nessun Occhio dia lo spessore, il volume, del proprio Miraggio «ermeneutico».
Quando ciò accade, quando dal Cielo scende – nei riflessi del Lago – l’Occhio (di Narciso) – questo, dice Deleuze, è il «momento della metamorfosi»: dal comico al tragico.
Finché l’Occhio la contempla – la Storia è tutta da ridere. Ma quando il suo sguardo si lascia «tirare giù» dalle stelle, succede sempre che la corda è troppo corta, e l’Occhio atterra, il Fondamento affonda nello Specchio, e tutto diventa, di colpo, tragico, serio, mitico – e non c’è enfasi che sappia rendere onore al Prestigio di questo Trauma, di questo traumatico mutamento indotto dal primo seme di memoria (dalla prima «lacrima di Iside», avrebbero detto gli Egizi) che cade sulla Terra dei Comici Inizi e la feconda di «vita nova».
Uno scacco, un trauma – ecco di che si tratta. Gli sguardi cadono dalle nuvole, piovono ma non immaginano d’andare incontro a quella cesura che separerà irreversibilmente ogni Narciso dal suo Passato, e che della sua gioiosa libidine, della sua spiritosaggine infantile, segnerà irrevocabilmente la fine.
Il bruco finisce di ridere quando diventa farfalla: nasce così il Tragico, entra in scena l’Eroico. Nasce il prestigioso «io»: nasce questo secondo Narciso, questo Narciso in lutto e senza più vie d’uscita dalla Superficie in cui si è specchiato. Lo Specchio, il Film, la Storia l’ha «arruolato».
Ora, Narciso ha un Presente (storico) strappato via al suo Passato (anonimo). Ha un lutto tanto più grave, in quanto l’ha «patito» proprio là dove gioiva. D’ora in avanti, Narciso non ha che da far oscillare questo suo lutto tra il pianto presente e il rimpianto del passato. La sua interpretazione – sarà ora triste, ora allegra, ma quale che sia, sarà comunque una ripetizione «intraciclica», col suo ritmo alterno interno di gioia e di pianto. Sarà perciò una ripetizione impotente a cogliere Se Stessa, a percepire Se Stessa come ciò la cui «verginità» adesso è lacerata tra i due «estremi» del Comico e del Tragico, del Vecchio e del Nuovo.
Cogliere la Ripetizione – la Forma Vuota Inconscia della Ripetizione: giungere a percepire l’Istinto di Morte (secondo la nomenclatura di Freud) è possibile, se mai, solo in un terzo tempo: in un tempo «interpretato» al di là del Comico e del Tragico – e perciò al di là dell’Eroico, al di là del Mitologico, al di là di ogni Rappresentazione del Dramma di Narciso.
Il terzo tempo è quello che «esclude l’Eroe», quello che ne presuppone la «morte». O ancora meglio: è il tempo di Nessuno, il tempo dell’Anonimo – il Tempo in cui l’Eroe, l’«io», non era ancora… nato. Il Tempo in cui Nessuno ancora non si era avventurato nella Chiacchiera ubriaca di Polifemo. Non era né Ulisse né Dante, né Zarathustra né Nietzsche. Insomma: era, ma non c’era.