Foucault – Il linguaggio e l’essere dell’uomo

Possiamo oggi comprendere, e fino in fondo, l’incompatibilità che regna tra l’esistenza del discorso classico (poggiante sull’evidenza non problematizzata della rappresentazione) e l’esistenza dell’uomo, nei termini in cui essa appare al pensiero moderno (e con la riflessione antropologica che essa autorizza): qualcosa come un’analitica del modo d’essere dell’uomo è diventato possibile soltanto una volta che è Bild 428stata dissociata, trasferita e invertita, l’analisi del discorso rappresentativo.
Possiamo altresì intuire quale minaccia faccia pesare sull’essere dell’uomo, così definito e istituito, la ricomparsa contemporanea del linguaggio nell’enigma della sua unità e del suo essere.

Il compito che ci attende non sarà forse quello d’inoltrarci in un modo di pensiero, finora ignoto nella nostra cultura, tale da consentire di riflettere a un tempo, senza discontinuità o contraddizione, l’essere dell’uomo e l’essere del linguaggio?
In tal caso, occorre scongiurare, con le più grandi precauzioni, tutto ciò che può essere ritorno ingenuo alla teoria classica del discorso (ritorno la cui tentazione, occorre ben dirlo, è tanto più grande in quanto siamo davvero disarmati per pensare l’essere scintillante ma scosceso del linguaggio, quando disponiamo invece della vecchia teoria della rappresentazione interamente costituita, la quale ci offre un luogo in cui tale essere possa abitare e dissolversi in un puro funzionamento).

Ma può anche darsi che il diritto di pensare l’essere del linguaggio e nello stesso tempo l’essere dell’uomo, venga per sempre escluso; forse a questo punto esiste come un’incancellabile apertura (quella appunto in cui esistiamo e parliamo), per cui occorrerebbe relegare fra le chimere ogni antropologia che problematizzi l’essere del linguaggio, ogni concezione del linguaggio e del significato che intende cogliere, manifestare e liberare l’essere proprio dell’uomo.

È qui, forse, che prende radice la scelta filosofica più importante del nostro tempo. Scelta che non può farsi se non nella prova d’una riflessione futura.
Nulla infatti può dirci in anticipo da quale parte la via è aperta. La sola cosa che per ora sappiamo con piena certezza, è che mai nella cultura occidentale l’essere dell’uomo e l’essere del linguaggio poterono coesistere e articolarsi l’uno sull’altro. La loro incompatibilità è stata uno dei tratti fondamentali del nostro pensiero.

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La mutazione dell’analisi [classica] del Discorso in analitica della finitudine [esistenziale e/o linguistica dell’uomo] ha tuttavia un’altra conseguenza.
La teoria classica del segno e della parola doveva mostrare come le rappresentazioni, le quali si susseguivano in una catena così stretta e fitta da impedire che le distinzioni vi apparissero e da essere in fin dei conti tutte eguali, potevano dispiegarsi in un quadro permanente di differenze stabili e d’identità limitate. Si trattava di una genesi della Differenza che aveva la sua origine nella monotonia segretamente variata dell’Uguale.

L’analitica della finitudine ha una funzione diametralmente opposta: mostrando che l’uomo è determinato, essa rende manifesto che il fondamento di tali determinazioni è l’essere stesso dell’uomo nei suoi limiti radicali; essa deve altresì rendere manifesto che i contenuti dell’esperienza sono essi stessi le condizioni proprie di tali limiti, e che il pensiero frequenta già anteriormente l’impensato che a quei limiti si sottrae e che esso stesso è sempre volto a recuperare; mostra infine come l’origine di cui l’uomo non è mai contemporaneo, è all’uomo tolta e data a un tempo nella forma dell’imminenza: insomma, per l’analitica della finitudine si tratterà sempre di mostrare come il Differente e il Remoto siano altresì il Vicinissimo e il Medesimo.

Siamo così passati da una riflessione sull’ordine delle Differenze (con l’analisi che ne deriva e quell’ontologia del continuo, quell’esigenza di un essere pieno, senza frattura, dispiegato nella sua perfezione, le quali presuppongono una metafisica) a un pensiero del Medesimo, costantemente da strappare al suo contraddittorio: il che implica, a parte rovina-specchiatal’etica, una dialettica e una forma d’ontologia, la quale, non avendo bisogno del continuo e non dovendo riflettere l’essere se non nelle sue forme limitate o nell’allontanamento della sua distanza, può e deve fare a meno della metafisica.

Un gioco dialettico e un’ontologia senza metafisica si richiamano e si rispondono l’uno all’altra attraverso il pensiero moderno e lungo l’intero arco della sua storia: questo pensiero infatti non procede più verso la formazione mai compiuta della Differenza, ma verso la rivelazione sempre da attuare del Medesimo.
Una tale rivelazione non può prescindere dall’apparizione simultanea del Duplicato e dello scarto infimo ma invincibile, contenuto nell’«e» dell’arretramento e del ritorno, del pensiero e dell’impensato, dell’empirico e del trascendentale, di ciò che è dell’ordine della positività e di ciò che è dell’ordine dei fondamenti.

L’identità separata da se medesima in una distanza ad essa, in un certo senso, interna, ma che in un altro senso la costituisce, la ripetizione che dà l’identico ma nella forma della lontananza, si situano probabilmente nel centro di quel pensiero moderno, cui affrettatamente viene attribuita la riscoperta [del problema] del tempo.
Di fatto, guardando un po’ più attentamente, ci accorgiamo che il pensiero classico riconduceva la possibilità di spazializzare le cose in un quadro, alla proprietà della pura successione rappresentativa di richiamare se stessa muovendo da sé, di duplicarsi e di costituire una simultaneità a partire da un tempo continuo: il tempo fondava lo spazio.

Nel pensiero moderno, ciò che si rivela come fondamento della storia delle cose e della storicità propria dell’uomo, è appunto la distanza che scava il Medesimo, lo scarto che lo disperde e lo riunisce ai suoi due estremi.
Proprio tale profonda spazialità consente al pensiero moderno di pensare continuamente il tempo, di conoscerlo in quanto successione, di considerarlo in quanto compimento, origine o ritorno.

(Foucault, Le parole e le cose)

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il Significante, dice Lacan, non è funzionale.
Non è «in funzione» del Senso del Discorso, se non là dove (più o meno tardivamente) si è ridotto a servire alla lettera della Rappresentazione vigente. Solo là esso si pensa al servizio di un «cogito», di un pensiero – solo là dove come e quando si spoglia, innanzitutto per pudore, del suo essere «segreto», del suo essere «secrezione» erotica e, in quanto tale, piena di desiderio, ma – per l’appunto – vuota di senso.

Solo nel Discorso Rappresentativo il Significante può «abitare e dissolversi in un puro funzionamento», dice qui Foucault. Ce l’ha, in primis, con tutti i linguisti che ancora s’attardano a pensare il Significante al modo classico, e cioè come una Forma Cogitata, Razionale non solo in quanto è una «razione» del Dire Infinito, ma in quanto soprattutto è già «dotato di logica», di un Logos innato, è subito al servizio di un «io penso», di un «io dico», di un «io pongo» che, per l’appunto, pone il Significante come un suo frammento di «verità positiva».
Solo nel Discorso Rappresentativo il Significante può essere concepito come suo Subordinato, ed esaurito in questo solo ruolo di rappresentante «logico», di Forma «sensata» all’atto stesso della sua origine.

Oggi, diciamo almeno da Schopenhauer e dal suo Mondo come volontà e rappresentazione, la teoria classica del Discorso si è rivelata incompatibile con l’analitica esistenziale, ma, ciò che più conta, con l’esistenza stessa di noi uomini a cavallo dei due gudiashvili-gentemillenni.
Quel Discorso non ci rappresenta più. La sua razionalità non rappresenta più la nostra esistenza, né quella quotidiana della nostra vita, né quella mitica del nostro destino. Quel Discorso ci è morto dentro, dacché è tramontato il suo Mito. Da allora, siamo di nuovo punto e a capo – o almeno così sembra: di nuovo siamo di fronte all’enigma della Sfinge, di nuovo il nostro «essere uomo» è appeso a un indovinello dell’«essere del linguaggio».

Ma, dice saggiamente Foucault, siamo sicuri che a questo enigma «arcaico» (perché, di fatto, i Filosofi sono ritornati alla questione prima e unica dell’arkhé, dell’Origine), così riformulato, nella doppia ambigua oscillazione tra il parlare e l’esistere dell’Uomo – siamo proprio sicuri che troveremo una risposta? O ci siamo infilati in un labirinto senza vie d’uscita?
Una via d’uscita, se mai ci fosse, in che lingua potrebbe più essere «rappresentata», se la Rappresentazione è, davvero, come si dice, «morta e sepolta»?
C’è il rischio, più che fondato, che tutte queste chiacchiere esistenziali, antropologiche, linguistiche confuse assieme, si riveleranno domani per quello che non sapevano di essere: delle chimere.

Beh, dico io: e se così fosse? Se domani rideranno di noi, della nostra ingenuità, se ci rappresenteranno come dei vuoti a perdere, dei perditempo e dei vagabondi che hanno solo profanato i Templi del Divino Pensiero, perché dovremmo dolercene?
Non vedo una «ragione» di lutto in tutto questo. Vedo, semmai, una Rivolta contro qualunque tentativo di irreggimentare l’Uomo in una Ragione al servizio di una Rappresentazione che non rappresenta più le ragioni della sua esistenza, perché ne rappresenta solo quella «razionale». Vedo una Rivolta contro un Sapere che si ostina a non fare i conti con il proprio «non sapere», contro un Pensiero che cocciutamente si rifiuta di rispondere agli indovinelli del suo stesso «impensato».

Che ridano pure, e le prendano per chimere – queste chiacchiere.
Noi non chiacchieriamo per dimostrare quello che sappiamo, ma per mostrare tutta la vastità di quello che non sappiamo. Né per realizzare quello che siamo, ma per picasso-pierrotidealizzare tutto il Teatro dei personaggi che non siamo.
Ridano, si divertano. Godano loro come non abbiamo potuto godere noi di predecessori meno seri e retorici, che ci dicessero di stare in guardia e di non prendere alla lettera le loro «rappresentazioni».
Siamo chimerici, e allora?
Siamo visionari, che c’è che non va?

Vediamo lo Spazio, forse, prima del Tempo – contrariamente a quanto accadeva agli uomini al tempo del Discorso Rappresentativo. È stato lo stesso Discorso però ad aprirci con le sue rappresentazioni lo sguardo su quest’altro spazio, più intimo, più profondo di quello che esso metteva in scena: lo Spazio delle nostre «visioni», delle nostre più acerbe «immaginazioni», lo Spazio dei demoni e dei fantasmi infantili, lo Spazio dei Serafini e dei Cherubini che congiurarono e macchinarono in illo tempore il nostro destino. E per giunta, a nostra insaputa.

Vediamo lo spazio della nostra originaria insipienza. Vediamo l’Empireo in cui risuonò il nostro balbettio. Vediamo la lettera gettata lì – in un non-dove, a cui possiamo ammiccare solo ricorrendo a metafore temporali.
Vediamo il Passato, il nostro Passato – Medesimo a se stesso – e se ancora ci si nasconde dietro qualche «differenza», è solo nei termini di uno «spostamento» temporale che riusciamo a catturarlo nelle parole.
Immutato, catatonico, il Posto dove prendemmo al laccio il Sole – è sempre . Il Tempo ne muta continuamente l’aspetto, fino a rendercelo irriconoscibile. Noi lo chiamiamo Passato. Ma proprio noi che viaggiamo in piroga alla volta del nostro Passato, noi che passiamo per tutte le «metamorfosi» temporali invece di fermarci a rappresentarle, noi vediamo solo lo Spazio. Quello Spazio là, sempre Medesimo a se stesso. Il fondo, chi lo può dire?, la Struttura, forse – del nostro essere e significare. Vuoto di senso, ma pieno di erotismo. Saturo di volontà di esistere e dare esistenza.