Graf – I Normanni e la leggenda di Artù

Come mai, e per quale ragione, e a chi mai poté venire per primo in mente di strappare Artù all’isola di Avalon per porlo nell’interno di un vulcano, in Sicilia? Dobbiamo noi credere che inventori della strana finzione siano stati quei Siciliani medesimi tra cui Gervasio, secondo attesta, la trovò divulgata? O dobbiamo al contrario credere che altri Etna-1766uomini ne siano stati inventori?
Il dubbio, credo, sarà chiarito se si riesce a dimostrare: 1) che i Siciliani non avevano ragione di sorta, né quasi possibilità di immaginarla; 2) che la finzione stessa, specie nella forma che veste in Gervasio, ha in sé tutti i caratteri di una finzione, non italica, ma germanica, e rimanda a un vero e proprio mito germanico.

Cominciamo dal primo punto.
Che i Siciliani non dovessero avere nessuna ragione, e quasi nemmeno la possibilità d’immaginare la finzione, s’intende assai agevolmente. La finzione stessa presuppone sentimenti, credenze, fantasie, che i Siciliani non avevano e non potevano avere: un ricordevole affetto per Artù; un desiderio immaginoso di raccostarsi in qualche modo all’eroe; una vaga speranza di vederlo tornare, quando che fosse nel mondo.
Chi poneva Artù nell’Etna doveva sentirsi legato a lui da vincoli particolari, da vincoli di cui nessuna ragione potrebbe trovarsi nella storia, nelle costumanze, nelle aspirazioni del popolo di Sicilia; e se la finzione fosse stata frutto naturale e spontaneo della fantasia di quel popolo, noi dovremmo, sembra, trovarne vestigio in alcuna delle sue cronache, laddove non ce ne troviamo nessuno.

Fatto sta che ai Siciliani l’Etna ricordava altre meraviglie, e suggeriva altre immaginazioni: fatto sta che anche in Sicilia, come per tanti esempi si vede essere avvenuto nella rimanente Italia, la memoria e la fantasia tornavano ostinatamente alle storie e ai miti dell’antichità classica, nei quali, come in cosa loro propria, si compiacevano.
Nelle cronache dell’isola si trovano ricordati i Ciclopi, i giganti fulminati da Giove, il ratto di Proserpina, la fine di Empedocle, ecc.; e si può credere che nella coscienza popolare questi fossero più che semplici ricordi di tradizioni e di favole antiche, anzi che fossero, alcuni di essi, miti tuttora viventi.

Di un’apparizione dei Ciclopi e di Vulcano si fa ricordo ancora nel 1536, poco prima di una grande eruzione dell’Etna. Come in antico, si credeva che il monte ignivomo (e Salvator-Rosa-morte-Empedoclealtrettanto dicasi degli altri vulcani, non escluso quello d’Islanda) fosse uno spiraglio dell’inferno; e le leggende che più facilmente dovevano accreditarsi in Sicilia e diffondersi, erano le leggende monacali ed ascetiche, le quali appunto si conformavano a quella credenza, e narravano di anime dannate, portate a volo entro il monte dai diavoli, e d’altre meraviglie paurose.
Di queste leggende è grande il numero, e qui basterà ricordare quelle di Eumorfio e di Teodorico, narrate da Gregorio Magno, e quella del re Dagoberto, narrata dallo storico Aimoino.

Subito dopo aver narrato la storia del decano di Palermo, Cesario racconta quella di Bertoldo V, duca di Zähringen, a cui i diavoli preparano nell’Etna il meritato castigo. Secondo certo racconto riferito da Pier Damiano nella vita di Odilone, dentro l’Etna si udivano le querele delle anime purganti, tormentate da infiniti demoni. Nel nome stesso dell’Etna si trovava indicata la condizione sua. Isidoro da Siviglia dice che, essendo il monte fatto di ferro e zolfo, era chiamato anche Geenna. Gotofredo da Viterbo raccoglie la comune opinione, secondo cui l’Etna che vomita fiamme è chiamato così, perché ritenuto l’imbocco del Tartaro.
In Sicilia queste credenze dovevano essere assai divulgate. Parlando della grande eruzione del 1329 Nicola Speciale dice: «Parecchi, nelle vicinanze del monte, furono portati via dai diavoli, che assumendo vari corpi, predicavano nell’aria terribili menzogne».

Quand’anche non si voglia far conto della trista esperienza che i Siciliani avevano della natura del loro vulcano; quand’anche s’immagini che essi avessero perduto il ricordo dei danni sofferti per esso, e poco o nessun pensiero si dessero delle sue perpetue minacce, l’opinione che essi ne avevano, come di una bocca spalancata dell’Inferno, doveva bastare a vietar loro di fingervi dentro il regno incantato di Morgana e il soggiorno di Artù; mentre a fingere tali cose potevano essere tratti assai più facilmente uomini venuti d’altronde, i quali non ben conoscevano la natura del monte, e ai quali meno tetre fantasie potessero essere suggerite a primo aspetto da quella tanta feracità di campi e giocondità di aspetti, cui già gli antichi non si erano stancati di ammirare e di celebrare.

Etna-700

Veniamo ora al secondo punto.
La leggenda di Artù nell’Etna non è, come s’è già notato, una leggenda nuova; è una leggenda variata; ma nella variazione sua sono alcune particolarità che meritano d’essere considerate attentamente.
Artù vivo, ma ferito, dimora in Avalon, la quale è veramente un’isola del fiume Bret, nella contea di Somerset, e antica sede dei druidi. La poetica fantasia abbellì quell’umile isola, e ne fece un luogo di delizie da porre a riscontro delle famose Isole Fortunate.
Goffredo di Monmouth, nella Vita di Merlino, dice di essa: Insula pomorum quae fortunata vocatur.

Secondo la leggenda derivata, che, per comodità di espressione, seguiteremo a dir siciliana, Artù dimora nell’interno dell’Etna.
Questa innovazione non incontrò molto favore; e noi vediamo altri eroi, come, per esempio, Uggeri il Danese e Rainouart, andare a raggiungere il buon re Artù nell’isola e non nel monte; ma non perciò può dirsi che essa fosse del tutto arbitraria e illegittima.
Circa il 1139 avvenne un fatto che avrebbe potuto addirittura tagliar le radici alla leggenda della miracolosa sopravvivenza di Artù: si credette di aver trovato, o si disse d’aver trovato, appunto nell’isola di Avalon, presso l’abbazia di San Dunstano, il corpo di Artù, morto e sepolto da secoli. Ma tale ritrovamento, cui non fu, sembra, estranea la Gerzhedovich-forestapolitica, non valse a togliere certi dubbi, che forse già da gran tempo si avevano circa il vero luogo del rifugio di Artù, e circa alcune altre particolarità della sua leggenda.

Di tali dubbi abbiamo parecchi indizi: il trovatore Aimeric de Peguilain (1205-1270) dice in suo serventese (Totas honors): «Voglio in un mio serventese, per tutto il monte / e per tutti i mari, se posso / trovare qualcuno che sappia darmi notizie / di re Artù e di quando deve tornare».
In un codice di Helmstadt si trova una nota ov’è detto che Artù, combattendo contro certa belva, perdette i suoi cavalieri e, avendo ucciso la belva, non fece più ritorno a casa; onde i Bretoni lo aspettano ancora. Del luogo ove egli possa essere andato non v’è neppure un cenno.

Ma, secondo l’autore del Lohengrin, Artù è in un monte dell’India, insieme coi cavalieri del Santo Graal, e nel Wartburgkrieg si dice che Artù dimora entro un monte, insieme con Giunone e con Felicia, figliola di Sibilla.
Da tutto ciò si rileva che, fuori di Bretagna, la tradizione era alquanto vaga e malsicura, se non circa la rimozione e la vita soprannaturale di Artù, almeno circa il luogo della sua dimora; e che per tempo una opinione era sorta, la quale poneva quella misteriosa dimora nell’interno di un monte.

Ora, qui, noi ci troviamo in presenza di una finzione essenzialmente germanica. L’immaginazione dell’eroe rimosso dal mondo, serbato miracolosamente in vita, e destinato a futuro ritorno, è comune a molte e svariate genti; ma l’immaginazione di un siffatto eroe (o dio) chiuso nel cavo di un monte è, più specificamente, germanica.
Nella mitologia nordica ce ne sono parecchi esempi. Il dio Wotan abita nell’interno di un monte; in molti hanno stanza, insieme con le loro famiglie, Frau Holda e Frau Venus; in monti stanno rinchiusi, aspettando il giorno del loro riapparire nel mondo Carlo Magno, Federico II, Carlo V.
Questi misteriosi rifugi non sono inaccessibili agli uomini: come nel racconto di Gervasio abbiamo visto il servo del vescovo di Catania penetrare nel meraviglioso soggiorno di Artù, similmente Tannhäuser penetra nel monte ove alberga Frau Venus; un pastore penetra in quello ove Federico aspetta l’ora segnata, ecc. […]

Tannhauser-teatro

Questa mi pare dunque la conclusione più ragionevole: essere sommamente improbabile che i Siciliani abbiano immaginata una leggenda, la quale, per una parte, contraddice a quanto essi sapevano, o congetturavano, della natura del loro vulcano, e involge, per l’altra, un mito germanico; essere sommamente probabile che essa leggenda sia stata immaginata da uomini venuti da fuori, i quali, mentre col vulcano avevano poca pratica, potevano recare seco il ricordo di quel mito germanico, o aver conoscenza di alcuna variazione già introdotta nella leggenda di Artù.
Che uomini poterono essere quelli? non gli Arabi, certo; dunque i Normanni. Vediamo quali fatti e quali ragioni si possono addurre a sostegno di tale congettura.

Come e in che tempo penetrarono e si diffusero primamente in Italia le immaginose leggende onde s’intreccia il «ciclo bretone»? Quali sono tra noi le loro più antiche vestigia?
Quando si tratta delle finzioni del ciclo carolingio, rispondere a siffatte domande riesce molto più agevole. Noi vediamo anzitutto le ragioni storiche, e diciamo pure morali, che dovevano, in certo modo, tirar in qua dalle Alpi la leggenda carolingia: Carlo Magno, campione della fede e della Chiesa, vincitore dei Saraceni infedeli, non era solamente un eroe franco, era un eroe universale cristiano; e questo eroe cristiano aveva, in Itala, Carlomagnofiaccata per sempre la potenza dei Longobardi; aveva, in Roma, cinta la corona del rinnovato impero. […]

Per le finzioni del ciclo bretone la cosa procede altrimenti. Non solo la diffusione loro tra noi non fu provocata e sollecitata da quelle ragioni che favorirono la diffusione delle leggende carolinge, né da altre equivalenti o affini; ma le vie stesse e i gradi per cui quella diffusione si venne comunque compiendo non ci si lasciano mai vedere distintamente. Esse erano note a noi fin dai primordi della nostra letteratura, e questo è un fatto innegabile; ma quando vogliamo intendere e spiegare il fatto, ci è forza ricorrere alle congetture, e appagarci degli indizi.

Che la poesia provenzale abbia largamente contribuito a far conoscere e diffondere tra di noi quelle finzioni, è cosa di cui non si può dubitare. Nei trovatori, i personaggi e i fatti principali che occorrono in esse sono ricordati con molta frequenza. Passando in Italia, la poesia dei trovatori doveva non solo recarvi la notizia sommaria di quelle finzioni, ma, ancora, stimolare efficacemente la curiosità, suscitare il desiderio di conoscerle alquanto più a fondo.
I primi trovatori vennero in Italia, per quanto se ne sa, sul cadere del secolo XII, quando l’epopea bretone (chiamiamola così) già sorta, anzi già famosa e divulgatissima in Francia, stava per ricevere l’ultima mano, ed esser levata a quel più alto grado di perfezione cui allora potesse attingere, dal suo maggior poeta, Chrétien de Troyes. […]

Ma, molti anni innanzi che venissero i trovatori, dovettero recare la «materia» bretone in Italia i Normanni che, per ragioni geografiche, e per ragioni storiche, diventarono i naturali promotori e propagatori di quelle immaginazioni, di quella poesia.
I Bretoni del continente assai per tempo strinsero con loro legami di salda amicizia; e nel 1066, combatterono in buon numero, alla battaglia di Hastings, sotto le vittoriose bandiere di Guglielmo il Conquistatore. I Bretoni insulari poi accolsero come liberatori i Normanni, la cui vittoria diede termine all’odiato dominio anglosassone. Più tardi, Enrico II non solo cercò, per propria soddisfazione, le vecchie leggende di Artù, ma fece anche quanto era in suo potere perché fossero largamente diffuse e gustate.

Normanni-Guglielmo

Il troviero Gaimar, che per primo mise in versi la Historia Britonum di Goffredo di Monmouth, fu normanno, e normanno fu pure quel Wace che ne imitò con più fortuna l’esempio, a tacere di altri. Leggende bretoni e leggende normanne s’innestarono, si fusero assieme, come può vedersi ne Roman de Rou dello stesso Wace.
A gente d’indole avventurosa, quale in tutta la vita loro si danno a vedere i Normanni, la storia poetica di Artù doveva piacere naturalmente; e le guerre combattute con gli Anglosassoni, e le vittorie riportate sopra di essi, dovevano esser cagione che quella storia poetica fosse dai Normanni considerata quasi come cosa loro propria.

Innamorati di quelle colorite leggende, essi, avidi di avventure e di gloria, dovevano recarle con sé dovunque andassero, come un suffragio poetico ai loro ardimenti dovevano ripeterle e propagarle ovunque fermassero stanza.
Con sé certamente le recarono essi in Napoli, in Puglia, in Sicilia, e in grazia loro dovettero le leggende bretoni essere conosciute per la prima volta in Italia. Di siffatta introduzione noi non abbiamo, è vero, prove dirette. Nessuno dei cronisti (e non sono pochi) i quali narrano le gesta dei Normanni in Italia, fa il più breve accenno alle leggende bretoni, o lascia intravedere in qualsiasi modo che i Normanni avessero recato dalla patria loro un ciclo di tradizioni o di favole, e si adoperassero a diffondere le une e le altre. […]

I Normanni, che avevano nella fantasia la deliziosa e incantata isola di Avalon, credettero forse di riconoscere alcune delle sue proprietà nella ubertosa campagna in mezzo a cui sorge arduo e maestoso il vulcano.
Si sa che i primi Normanni che approdarono alle coste dell’Italia meridionale, tornati in territori_normanni_380patria, narrarono meraviglie di quelle terre sorrise dal sole, e recarono con sé il desiderio di ritornarvi, come poi fecero, cresciuti di baldanza e di numero.
Forse l’isola di Sicilia tutta intera assunse agli occhi loro l’aspetto della paradisiaca isola di Avalon, stanza di Morgana e di Artù.

Si ponga mente a un altro fatto.
Mentre in Sicilia, come in altre parti d’Italia, sono frequenti i nomi di luoghi e le locuzioni proverbiali derivate dalle leggende del ciclo carolingio, la qual cosa prova che tali leggende erano veramente passate nella letteratura orale e nella coscienza del popolo, nulla di consimile si vede essere avvenuto rispetto alle leggende del ciclo bretone; e ciò prova che il popolo non ebbe gusto alle leggende bretoni, o che se l’ebbe, fu sì debole e scarso da escludere affatto l’ipotesi che esso potesse lavorarvi intorno di suo.

Una eccezione vuol farsi in favore della fata Morgana, colei che dovette penetrare nell’Etna insieme con Artù.
Ora, è noto che col nome di «fata Morgana» si designa un fenomeno ottico (ciò che i Francesi chiamano mirage) solito a lasciarsi vedere con maggiore frequenza e perspicuità appunto nello stretto di Messina. Quel nome designa al presente il fenomeno stesso, e non accenna più ad alcuna individuata e soprannaturale potenza che ne sia cagione; ma in origine non dovette essere così.
Si credette allora alla reale presenza della Fata in quei luoghi, e il fenomeno si considerò come un’opera dell’arte sua, forse come uno dei giochi o degli allettamenti onde ella abbelliva le ore e il soggiorno ai suoi compagni di faerie.

Non è, né può essere provato, ma è molto probabile dunque che, assai prima di approdare in Sicilia, i Normanni avessero cognizione di una leggenda che poneva Artù all’interno di un monte; approdati in Sicilia, essi non ebbero a fare un grande sforzo di fantasia per porre l’eroe entro il massimo monte dell’isola. Può darsi anche che, prima d’approdarvi, essi avessero una generale notizia della possibile rimozione e dimora degli eroi nell’interno di un monte, o una particolare notizia di qualche eroe in tal modo rimosso e dimorante, e che, trovatisi in presenza del meraviglioso vulcano, pensassero senz’altro di trasporvi il re Artù.
Se parecchi poemi francesi pongono la scena della loro azione in Sicilia; se in molti altri la Sicilia è ricordata; se di parecchi si può ragionevolmente congetturare che siano stati composti nell’isola, noi dobbiamo esserne grati soprattutto ai Normanni; e dai Normanni dobbiamo riconoscere la leggenda arturiana che Gervasio da Tilbury fu il primo a raccogliere e a tramandare.

(Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medioevo)