Deleuze – L’alleanza di Abitudine e Memoria

La prima sintesi [passiva], quella dell’abitudine, è veramente la fondazione del tempo, ma la fondazione va distinta dal fondamento. La fondazione concerne il suolo, e mostra Gric-sognicome qualcosa si stabilisca su di esso, lo occupi e lo possieda, ma il fondamento proviene piuttosto dal cielo, va dalla sommità alle fondamenta, commisura l’uno all’altro il suo Io e il possessore secondo un titolo di proprietà.

L’abitudine è la fondazione del tempo, il suolo mobile occupato dal presente che passa. Passare è appunto la pretensione del presente.
Ma ciò che fa passare il presente, e adatta il presente e l’abitudine, va determinato come fondamento del tempo, che è poi la Memoria.
Ora, la memoria, come sintesi attiva derivata [o seconda], si fonda sull’abitudine, e in effetti, tutto poggia sulla fondazione. E, tuttavia, ciò che costituisce la Memoria non è dato [non è inscritto nell’Abitudine].

… quando Uno divenne Due
(Nietzsche)

Nel momento in cui si fonda sull’abitudine, la memoria viene a essere fondata da un’altra sintesi passiva, distinta dall’abitudine. E, a sua volta, la sintesi passiva dell’abitudine rimanda a quella sintesi passiva più profonda che è della memoria: Habitus e Mnemosine, o l’alleanza del cielo e della terra [dell’Alto e del Basso, della Testa e delle Gambe, dell’Idea e delle «cose»].
L’Abitudine è la sintesi originaria del tempo, che costituisce la vita del presente che passa, mentre la Memoria è la sintesi fondamentale del tempo, che costituisce l’essere del passato (ciò che fa passare il presente). […]

La «sintesi del tempo» presuppone, dunque, una lenta e progressiva maturazione. Cartesio invece giunge a conclusione solo a forza di ridurre il Cogito all’istante, e di espellere il tempo affidandolo a Dio nell’operazione della creazione perenne. In senso più generale, l’identità supposta dell’io non ha altro garante che l’unità di Dio stesso. Così la sostituzione del punto di vista dell’«Io» al punto di vista di «Dio» conta molto meno di quel che non si dica, in quanto l’uno conserva un’identità che deve appunto all’altro. Dio continua a vivere fintantoché l’io dispone della sussistenza, della semplicità e dell’identità che esprimono tutta la sua somiglianza col divino.

Michelangelo-contatto

Per contro, la morte di Dio non lascia sussistere l’identità dell’io, ma instaura e interiorizza in esso una dissomiglianza essenziale, una «assenza di segno» in luogo del segno o del sigillo di Dio. Che è quanto Kant ha visto profondamente, almeno una volta, nella Critica della ragion pura, riguardo alla simultanea scomparsa della teologia razionale e della psicologia razionale, al modo con cui la morte speculativa di Dio implica un’incrinatura dell’io.

Se la più grande novità della filosofia trascendentale consiste nell’introdurre la forma del tempo nel pensiero come tale, questa forma a sua volta, come forma pura e vuota, significa indissolubilmente il Dio morto, l’io incrinato e l’io passivo.
È vero che Kant non va fino in fondo: il Dio e l’io conoscono una resurrezione pratica. E anche nel campo speculativo, l’incrinatura è presto colmata da una nuova forma d’identità, l’identità sintetica attiva, mentre l’io passivo è soltanto definito dalla ricettività, non possedendo a questo titolo alcun potere di sintesi.

Ma la ricettività come capacità di provare affetti è soltanto una conseguenza, e l’io passivo è più profondamente costituito da una sintesi a sua volta passiva (contemplazione-contrazione), donde la possibilità di ricevere impressioni o sensazioni.
Pertanto non è possibile mantenere la ripartizione kantiana, che consiste in uno sforzo supremo di salvare il mondo della rappresentazione, ove la sintesi è concepita come Dalì-rovine-Medusaattiva, e si richiama a una nuova identità dell’io, mentre la passività è intesa come semplice ricettività priva di sintesi.

Solo in tutt’altra valutazione dell’io passivo l’iniziativa kantiana può essere ripresa, e la forma del tempo conservare insieme il Dio morto e l’io incrinato. In questo senso, è giusto dire che la via d’uscita dal kantismo non si trova in Fichte o in Hegel, ma soltanto in Hölderlin, che scopre il vuoto del tempo puro, e, in tale vuoto, scopre nello stesso tempo lo sviamento continuo del divino, l’incrinatura prolungata dell’io e la passione costitutiva dell’Ego. In questa forma del tempo, Hölderlin scorge l’essenza del tragico o l’avventura di Edipo, come un istinto di morte di figure complementari. Ma c’è da chiedersi se la filosofia kantiana possa essere di Edipo.

L’aver introdotto il tempo nel pensiero come tale, esaurisce davvero l’apporto prestigioso di Kant? Infatti, già a nostro avviso la reminiscenza platonica va intesa in questo senso. L’inneità [l’«essere innato»] è un mito, non meno che la reminiscenza, ma è un mito dell’istantaneo, e per questo conviene a Cartesio.
Quando Platone oppone espressamente la reminiscenza all’inneità, egli vuol dire che quest’ultima rappresenta l’immagine astratta del sapere, ma che il movimento reale di apprendere implica nell’anima la distinzione di un «prima» e di un «dopo», cioè l’introduzione di un tempo primo per dimenticare quanto sapevamo, poiché ci accade in un secondo tempo di ritrovare quanto avevamo dimenticato (cfr. Fedone, 76 ad).

Ma il problema è sotto quale forma la reminiscenza introduca il tempo. Anche per l’anima, si tratta di un tempo fisico, di un tempo della Physis, periodico o circolare, subordinato agli avvenimenti che passano in esso o ai movimenti che esso misura, alle metamorfosi che lo scandiscono. Senza dubbio questo tempo trova il proprio fondamento in un «in sé», cioè nel passato puro dell’idea che organizza nella forma del circolo l’ordine dei presenti secondo le loro somiglianze decrescenti e crescenti con l’ideale, ma che pure fa uscire dal circolo l’anima che ha saputo conservare per sé o ritrovare il regno dell’«in sé».

Ciò non toglie che l’idea sia come un fondamento partendo dal quale i presenti successivi Popovic-visionesi organizzano nel circolo del tempo, sicché il puro passato che la definisce si esprime di necessità ancora in termini di presente, come un antico presente mitico.

In questo già consisteva l’equivoco della seconda sintesi del tempo, l’ambiguità di Mnemosine, la quale appunto, dall’alto del suo passato puro, sovrasta e domina il mondo della rappresentazione in quanto fondamento, «in sé», noumeno, Idea, ma resta ancora relativa rispetto alla rappresentazione che fonda, e poiché innalza i princìpi della rappresentazione, e cioè l’identità con cui costituisce il carattere del modello immemoriale, e la somiglianza con cui costituisce il carattere dell’immagine presente (lo Stesso e il Simile), è irriducibile al presente, superiore alla rappresentazione, e tuttavia non fa che rendere circolare o infinita la rappresentazione dei presenti (persino in Leibniz o in Hegel, è sempre Mnemosine a fondare lo svolgimento della rappresentazione nell’infinito).

(Deleuze, Differenza e ripetizione)

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Dunque: il Fondamento cade dalle nuvole – cade, di lassù, su una Terra che gli è «aliena»: sulla Terra delle abitudini contratte nella ripetizione inconscia dei nostri primissimi tempi (le abitudini, fa osservare Deleuze, non sono che «contrazioni», e dunque «sintesi» di differenze colte nella ripetizione) piove dunque, come una manna dal cielo, l’Idea della reminiscenza platonica.
È su questo suolo di «abitudini» passive – in quanto indotte dall’Ambiente, ovvero dal SI, soggetto della Macchina Linguistica Cosciente, di cui l’«io» comincia appena a intravedere i riflessi sul lago – è qui, su questa Terra primitiva, che viene a germogliare il seme dell’altra «sintesi passiva», la Memoria prima d’ogni memoria «cosciente», prima di ogni memoriale «scritto» nel linguaggio simbolico, prima dunque di ogni rappresentazione. Memoria, perciò, ancora «inconscia», memoria «patetica», affidata cioè tutta quanta al pathos dell’Io passivo.

Gric-pietà

Di questo Patetico Infantile, l’Abitudine è l’«originaria», la prima sintesi passiva, la prima contrazione dei suoi vissuti, passati e patiti, in un Presente che passa.
La Memoria invece sopraggiunge «calando dall’alto» una sua propria «contrazione», un’altra sua «sintesi»: quella che funge da Fondamento del Tempo. Essa apporta, dissemina, distribuisce nella Terra delle Abitudini via via contratte «l’essere del passato».
Nel Presente che passa, essa inocula così la Presenza di un «indimenticabile».

L’«autocoscienza» del cogito non è, dunque, come lo concepisce Cartesio, l’evento di un istante – qualcosa come la folgorazione sulla via di Damasco, la fulminea intuizione di un tempo, per giunta, dato come «assoluto», come «territorio divino», esterno ed estraneo alla partorizione dell’«io» nel cogito.
L’«autocoscienza» del cogito non giunge invece che al termine di un processo sotterraneo, come sua estrema «contrazione»: di un processo a cui il tempo è tutt’altro che estraneo.

Penso, dice Cartesio, e così prendo coscienza di essere in quel tempo là – fuori di me, tempo di cui Dio è il sostegno e, insieme, il garante, non meno che della mia «identità».
Se perciò Cartesio pensava di sciogliersi dai lacci della teologia, s’ingannava – dal momento che questo suo «io», il cui punto di vista dovrebbe essere il «fondamento inconcusso» di una visione del mondo, poggia tutto quanto ancora sulla sussistenza di Basaldella-aumentiDio. Insomma, il tempo è posto da Cartesio ancora fuori dall’«io». L’io e il tempo s’incontrano dopo il cogito.

È Kant, lo sappiamo, il Copernico della nuova visione dell’«io». È Kant il primo a insinuare il tempo nel pensiero: il cogito, in tanto è possibile – egli dice – in quanto l’io ha già elaborato una «sintesi» (perciò: a priori) del tempo. A priori rispetto al cogito autocosciente.
Ma Kant, ci dice qui Deleuze, concepisce ancora questa «sintesi» come attiva – come elaborazione, cioè, prodotta dall’intelletto, anziché ereditata dal suo Passato senza memoria e senza intelligenza.

Il che lascia intravedere la persistenza, in Kant, ma non solo in lui, di un vecchio pregiudizio sulla «ricettività» dei nostri organi di senso, secondo cui gli occhi, per es., non farebbero altro che «vedere», prelevare cioè percezioni e inviarle all’Intelletto perché ne elabori una sintesi, un’idea – e invece gli occhi, non solo vedono, ma «immaginano» quel che vedono, lo «patiscono» prima ancora di inviarlo alla Mente.
I nostri organi di senso sono sì ricettivi – ma in questa loro ricettività va inclusa la possibilità di «sintesi passive», puramente patetiche, senza nessun intervento «logico».

Il Tempo è dunque una forma del pensiero, intima e preesistente al cogito di un «io», più arcaico di ogni «autocoscienza».
Il Tempo è la Forma della Coscienza – della Macchina Simbolica – che ogni io «patisce» prima ancora di venire a un mondo cosciente.
Non più la Forma della Rivelazione divina a cui l’io, grazie al cogito, si aggrappa per non cadere nel vuoto – ma la Forma Vuota del Soggetto della Coscienza del Mondo, del SI dell’Ambiente, nelle cui «illusioni» e «delusioni» vanno a spasso le abitudini di ogni io che nasce: vanno a rincorrere il Passato di un Soggetto altro dall’«io». Di un Soggetto che non è più Dio, neanche quello un po’ traballante di Cartesio. È, soltanto, l’Altro.

E quest’Altro è «afflitto» dalla morte (speculativa) di Dio.
Il declino della teologia e insieme della psicologia razionale – se n’era accorto lo stesso Kant – era il sintomo di quello sfaldamento progressivo in atto della vecchia certezza (o fede) millenaria che fosse Dio il «fondamento inconcusso» dell’essere dell’«io» e del suo Mondrian-composizionecogito, nonché del Tempo Assoluto nella cui intuizione il cogito l’introduceva.
Cartesio era stato il primo a prendere un’altra strada, quella dell’«io». Era il suo, però, solo un momentaneo compromesso con la Realtà di «Dio».

Ma, una volta concepito, da Kant in poi, come «forma nel pensiero», il Tempo
non può darsi che come «forma vuota». Man mano che Dio è venuto meno all’«illusione» della Coscienza – man mano che la sua fondatezza è sbiadita agli occhi del materialismo imperante nella Macchina Simbolica del suo proprio ambiente, ecco che l’«io» ha cominciato a patire sempre più la «vacanza» di un Assoluto, ed è cominciato a nascere, da qualche secolo in qua, nel nostro Occidente, «incrinato», «strappato», «lacerato», «dislocato» nello spazio lasciato vuoto dalla «morte di Dio».

Ma questo cosa vuol dire, se non che l’«io» che giunge a cogitare la propria «autocoscienza» ai nostri tempi, patisce la morte di Dio che si respira nel suo ambiente? E questo cosa vuol dire se non che la «sintesi (a priori)» del tempo è passiva? che è elaborata cioè sotto la pressione del clima (linguistico, culturale) in cui matura il cogito? e che perciò oggi è «vuota» di quanto una volta, giusto o sbagliato che fosse, la consacrava e la «riempiva»?

Vuota di dio, ripiegata su questa «vacanza», incrinata, divisa, lacerata nella sua «identità», questa Forma nasce nel pathos del pensiero, indotta dal Logos della Macchina Cosciente essa si insinua nelle pieghe di una antica, rimossa, «passione» di un «io» quando ancora non è attivamente un «io».
Questa Forma, dice Deleuze, è una «sintesi» dell’«io passivo». Essa viene a «prendere» l’«io», a stanarlo, a distaccarlo dal tempo nel quale «scorreva» … anonimo Nessuno.
È la Forma del Logos sociale, dell’Ambiente, della Casa, della Barcata – direbbe Lévi-Strauss – che viene a prendersi il pathos di un pensiero neonato, e a colorarlo dei suoi umori «storici».