Il Reale, «quello che realmente è», era per Platone il «mondo delle idee», era il mondo «di allora», il mondo «di là» da questo nostro presente, la cui «realtà» è fatta invece di «cose» (nonché, di rappresentazioni più o meno «artistiche» di queste «cose» mediante i segni e le parole).
Il Reale, non questo Coso qui che ci è appiccicato addosso, ma «quello, il solo che realmente è»… più che il mondo, è il tempo delle idee – il Tempo in cui si seminano le prime idee, le prime «visioni», le prime immaginazioni nei nostri neonati organi di senso.
Fu quello, dice Deleuze, il tempo delle «sintesi passive». Quello fu il «tempo perduto» di cui è alla ricerca Proust – il tempo senza segni e senza memoria, il Passato Puro di Bergson.
Nel labirinto delle rappresentazioni più o meno «filosofiche», come vedi, ci sono più e più idee che si specchiano le une nei riflessi delle altre. Lo specchio in cui si contemplano è ancora quello uscito dalla lingua di Platone. Ci sono schiere e schiere di Angeli, dicevano i Dottori della Sorbona nel Medioevo: ci sono schiere distinte per altezza e per rango.
È adunque da sapere primamente che li movitori di quelli [cieli] sono sustanze separate da materia, cioè Intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli […] Tante Intelligenze quanti sono li movimenti del cielo, ma eziandio quante sono le spezie de le cose…; chiamale Plato Idee… li Gentili le chiamano Dei e Dee […] Poi che non avendo di loro alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza), pure risplende nel nostro intelletto alcuno lume de la vivacissima loro essenza […]; ché non altrimenti sono chiusi li nostri occhi intellettuali, mentre che l’anima è legata e incarcerata per li organi del nostro corpo […] Lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore riverberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l’altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate.
(Dante, Convivio, 2: 4, 2; 4-5; 17; 3: 14.4)
Hai sentito anche tu? alcuno lume de la vivacissima loro essenza – dice il Poeta – ancora risplende nel nostro intelletto: una «luce» è ancora là, una luce nera, una luce invisibile a tutte le rappresentazioni, perfino alle più «poetiche», tuttora brilla in quel tempo della nostra mente, in quel Passato Remoto che è il solo Reale di cui si può dire che «è» senza dovervi aggiungere altro – perché quella Luce, lei sola, «è» la Mente Reale. Lei sola, la Spensierata. La Impensabile.
Se «è», è perché ci manca. Solo il suo raggio «è» tutto ciò che ci manca. Solo il suo «punto di vista» è tutto quanto può tornarci dalla mancanza. Può tornarci solo il futuro, quel Futuro lì, quel Futuro Anteriore, che precede alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza), quel Futuro Antico che ci traccia la via a un destino, e che non può destinarci che a tornare da Lui, a tornare «di là», a tornare ad «allora», al Tempo delle Idee, al Tempo delle Sintesi Passive, al Tempo delle Dominazioni Angeliche.
Ecco, io mando un angelo davanti a te
per custodirti sul cammino e farti entrare
nel luogo che ho preparato.
(Esodo, 23: 20)
Siamo destinati al luogo che ci fu preparato allora. Ovunque andiamo, è solo in quel luogo che ci è dato di «realizzarci»: solo là dove siamo stati dominati dalla Luce – dominati e, insieme, interrogati dal suo raggio.
Interrogati senza parole, interrogati fino a renderci oscuri e problematici a noi stessi. A proposito, per es., del nostro proprio rango. Del nostro prestigio nel grado e nell’altezza dell’immaginazione che ci dominò. Né sopra né sotto quel raggio e la sua linea di luce, il suo punto di vista.
Quanto alle luci intellettive, spirituali, ne è carico il Mondo Superno; sono le sostanze angeliche […]. Mediante la luce angelica si manifesta l’ordinamento del Mondo Superno […]. Se nel mondo del Reame vi sono sostanze luminose nobili, elevate, chiamate angeli che effondono la luce negli animi umani – e a causa di queste luci talora sono detti signori sicché Dio eccelso è il Signore dei signori – e hanno gradi differenti nella loro luminosità, è giusto che la loro immagine nel mondo della percezione sensibile sia il Sole o la Luna o gli astri.
(al-Ghazâlî, La Nicchia delle Luci)
Ci sono, come vedi, «rappresentazioni» antiche e moderne – ma sempre dello stesso problema. Cambia la Scena, ma la Recita continua a ripetere il suo più arcaico copione. Che è poi quella domanda: com’è che l’Angelo si è travestito da Uomo? e com’è che ha rimesso il destino del suo «essere» nelle mani della sua Ombra provvisoria?
Noi siamo già, dice Platone, prima ancora di nascere.
Noi nasciamo due volte, dice il mito di Dioniso. È alla seconda nascita, è quando veniamo fuori dalla coscia di Zeus, che lasciamo il Reale per il Simbolico…
***
«Prima che cominciassimo a vedere e a udire e a far uso degli altri nostri sensi, necessariamente, noi dobbiamo aver conosciuto l’Eguale in sé, e la sua realtà, perché altrimenti noi non avremmo mai potuto riportare gli eguali che ci risultavano dalle sensazioni a quell’Eguale là, né pensare che, pur aspirando a essergli simili, tutte le cose eguali gli restavano inferiori».
«Da ciò che si è detto, Socrate, è proprio così».
«E noi non abbiamo cominciato a vedere, a udire, a usare gli altri sensi, subito, appena nati?».
«Sicuro».
«Ma non abbiamo detto che, per questo, era necessario aver prima la conoscenza dell’Eguale in sé?».
«Sì».
«Quindi, questa conoscenza, noi l’avevamo prima di nascere».
«Pare di sì».
«Dunque, se noi, prima di nascere, possedevamo questa conoscenza e, con la nascita, ne potemmo disporre, ne consegue che già prima e, poi, una volta nati, noi avevamo non solo il concetto di Eguale in sé e quello di Maggiore e di Minore, ma anche tutte le altre Idee. Perché il nostro discorso, ora, non vale solo per l’Eguale in sé ma anche per il Bello, per il Buono, per il Giusto, per il Santo, insomma per tutto ciò che noi, parlando, definiamo col termine di realtà in sé, sia nelle questioni che poniamo che nelle risposte che diamo. Dunque, necessariamente, di tutte queste realtà, noi dobbiamo averne avuto conoscenza prima di nascere».
«È così».
«E anche risulta (salvo che, una volta in possesso di queste conoscenze, non ci troviamo poi, a ogni nostro successivo rinascere, nella condizione di averle dimenticate) – che appunto nel nostro perenne rinascere non cessiamo mai di sapere, e conserviamo questo sapere per tutta la vita. Perché essere sapienti significa aver acquistato conoscenza di qualcosa e conservarla, non perderla; perché dimenticanza non è forse, Simmia, perdita di conoscenza?».
«Senza dubbio, Socrate».
«Sta bene: ma se invece, io penso, acquisite delle conoscenze prima di nascere noi le perdiamo nascendo, e poi, con l’uso delle sensazioni, veniamo riacquistando le cognizioni che un tempo avevamo, ciò che noi chiamiamo apprendere non consiste forse in un riacquisto di quel sapere che era già nostro? E se questo noi chiamiamo reminiscenza, non diciamo bene?»
«Sì, certo».
«Infatti, abbiamo già dimostrato che, percependo noi una data cosa con la vista o l’udito o con qualche altro organo di senso, ci si presenta alla mente un’altra cosa, che avevamo dimenticato e a cui quella data cosa si avvicinava o per somiglianza o anche per dissomiglianza. Da qui, una delle due: o siamo nati con la conoscenza, ripeto, delle realtà in sé e continuiamo ad averla per tutta la vita, oppure quelli di cui diciamo che apprendono, non fanno altro che ricordarsi e questo loro apprendimento non è altro che reminiscenza».
«Effettivamente è così, Socrate».
«Cosa ne pensi, dunque, Simmia, che noi siamo nati già sapienti, oppure che, man mano, in seguito, ci ricordiamo di quanto già conoscevamo?».
«Mah, così sul momento, non so proprio che cosa dire, Socrate».
«Però saprai dirmi la tua opinione almeno su questo: un uomo che sa, sarà in grado di render conto delle cose che sa?».
«Certo che lo sarà, Socrate».
«E credi anche che tutti siano capaci di dare ragione delle realtà di cui or ora dicevamo?».
«Ah, lo vorrei proprio, ma temo – rispose Simmia – che domani a quest’ora non ci sarà nessuno capace di cavarsela degnamente».
«Quindi, Simmia, secondo te, non tutti conoscono queste realtà?».
«Ah, no di certo».
«Allora si ricordano di quello che appresero un tempo?».
«Certamente».
«Ma quand’è che le nostre anime hanno conosciuto queste realtà? Non certo da quando è iniziata la nostra vita umana?».
«No, certo».
«Allora prima?».
«Sì».
«Quindi, Simmia, le anime esistevano prima ancora di assumere forma umana, separate dal corpo e dotate di intelligenza».
«A meno che, Socrate, questa conoscenza non l’acquistiamo al momento di nascere. C’è anche questa eventualità».
«Ah, sì? Ma allora quand’è che noi perdiamo la conoscenza di queste realtà? Infatti, abbiamo appena detto che noi non la possediamo alla nostra nascita. O pensi che la perdiamo nel momento stesso in cui l’abbiamo acquistata? O mi sai dire quando?».
«No, Socrate e ora m’accorgo di aver detto una sciocchezza».
«Non è così, Simmia? Se esistono queste realtà di cui stiamo tanto parlando, cioè, il Bello, il Buono, e così via, e se ad esse riconduciamo le cose che percepiamo con i sensi, perché riconosciamo che quelle realtà sono in noi preesistenti, se ad esse confrontiamo le cose sensibili, allora bisogna pur dire che come esistono queste realtà così anche la nostra anima esiste ancora prima della nostra nascita. Se non fosse così, non se ne andrebbe all’aria tutto il nostro ragionamento? Non è, quindi, logico e necessario che, se esistono queste realtà, anche le nostre anime devono esistere prima della nostra nascita e, viceversa, se non esistono le une, non possono nemmeno esistere le altre?».
«Sicuro, Socrate, – ammise Simmia – c’è un’innegabile correlazione tra i due fatti e mi pare proprio che la questione si sia risolta in questo rapporto necessario tra l’esistenza dell’anima, prima della nostra nascita, e quella delle realtà di cui hai parlato. Niente ora è più chiaro di questo, cioè che tutte queste realtà di cui s’è parlato, il Bello, il Buono e così via hanno al più alto grado, una loro esistenza. E mi pare che questo sia stato dimostrato abbastanza».
(Platone, Fedone, 75b-77a)