Graf – Artù nell’Etna

Avalon

Per secoli fu creduto che Artù, mortalmente ferito in battaglia, non fosse mai morto, ma vivesse in luogo incantato e recondito, donde sarebbe, una volta o l’altra, per far ritorno e prender vendetta dei nemici del suo popolo e suoi.
Si sa quale luogo tenesse nella coscienza dei Bretoni vinti, ma non caduti di animo, siffatta credenza; come intimamente si legassero ad essi i ricordi loro più dolorosi e le più accarezzate speranze; come tutto il sentimento loro di nazione trovasse in essa una consacrazione ed un simbolo.

Alano de Insulis (m. 1202) ricorda come ai tempi suoi quella credenza fosse ancora così viva e comune in Armorica che il contraddirla avrebbe portato pericolo di lapidazione.
Fra le genti d’altra stirpe la lunga e paziente aspettativa diede il tema a locuzioni proverbiali notissime; e Arturum expectare tanto venne a dire quanto aspettar ciò che non può né deve avvenire; e speranza bretone fu sinonimo di speranza vana e assurda. […]

Secondo l’antica tradizione bretone raccolta da Goffredo di Monmouth, Morgana aveva trasportato Artù ferito in quella paradisiaca isola di Avalon, altrimenti detta Insula pomorum, o Fortunata, della quale è sì frequente ricordo in cronache e poemi del Medioevo, ma non era possibile che, prima o poi, la finzione non variasse su questo punto, specie migrando fuori di patria, prendendo ad allignare fra nuove genti, incontrandosi con altre finzioni, offrendosi a nuove spiegazioni e connessioni.
Come Orlando, fatto cittadino di altre patrie, ebbe mutato il luogo della sua nascita e il Beekman-barca-Avalonteatro delle sue prime gesta, così Artù ebbe mutato il luogo della sua miracolosa segregazione.

Ed eccoci farcisi innanzi una tradizione, la quale sembra abbia smarrito ogni ricordo dell’isola di Avalon, e pone la incantata dimora di Artù nell’interno dell’Etna. È Gervasio da Tilbury il primo fra gli scrittori che ne dà notizia […].
Gervasio passa per uno degli scrittori più bugiardi del Medioevo; ma tale opinione, se non vuol essere ingiuriosa ed erronea, deve ridursi in più giusti termini. Gervasio è bugiardo perché riferisce molte cose non vere; non già perché se le inventi: volendo parlar rettamente, egli è favoloso e non bugiardo; e come scrittore favoloso appunto ha acquistato importanza notevole agli occhi di quanti attendono allo studio dei miti e delle leggende medievali.

Nel suo racconto vi sono alcuni accenni a cose vere e reali, che, mentre rivelano nell’autore un testimone di veduta, o un ripetitore ben informato, ne confermano il carattere tradizionale. Dei miracoli operati dal corpo di Sant’Agata in guardar la città di Catania dagli incendi dell’Etna, è frequente il ricordo nelle cronache siciliane. Ciò che si dice del cavallo del vescovo è pure conforme al vero; giacché sappiamo, non solo che su quelle pendici del vulcano si allevavano cavalli di molto pregio e vigore, non meno agili che animosi; ma, ancora, che per la troppa ubertà dei pascoli, gli animali d’armento e di gregge ci venivano soverchio gagliardi e baliosi, cosicché a certi tempi dell’anno bisognava trarre loro sangue dalle orecchie. […]

E che il suo racconto appartenga davvero alla tradizione, ce lo prova il fatto che la leggenda è narrata, in forma alquanto diversa, da uno scrittore di poco posteriore a Gervasio, e da lui indipendente: Cesario di Heisterbach, che la racconta in tal modo.

MacWhriter-Etna

«Nel tempo in cui l’imperatore Enrico soggiogò la Sicilia, era nella Chiesa di Palermo un decano, di nazione, secondo ch’io penso, tedesco. Avendo costui, un giorno, smarrito il suo palafreno, che ottimo era, mandò il servo per diversi luoghi a farne ricerca.
Un vecchio, fattosi incontro al servo, gli chiese: “Dove vai? e che cerchi?”.
Rispostogli da quello che cercava il cavallo del suo padrone, soggiunse il vecchio: “Io so dov’è”. E dove? “Nel monte Gyber (sic), in potere di re Arturo, mio signore. Quel monte vomita fiamme come Vulcano”.
Stupì il servo in udire tali parole, e l’altro soggiunse: “Di’ al tuo padrone che da oggi a quattordici dì venga alla corte solenne di lui; e sappia che tralasciando di dirglielo, sarai punito aspramente”.
Tornato addietro, il servo espose, non senza timore, quanto aveva udito. Il decano si rise di quell’invito alla corte del re Arturo; ma, ammalatosi, morì il giorno prestabilito».

Il racconto è, in parte, quello di Gervasio e, in parte, è diverso. Il cavallo smarrito, il servo che ne va in traccia, la misteriosa dimora di Artù, sono comuni ad entrambi e mostrano che i due hanno, quanto alla sostanza, la medesima origine; ma, d’altra banda, quello di Cesario differisce tanto da quello di Gervasio che, ragionevolmente, non si può supporre che ne sia derivato.
Il racconto di Cesario rivela certe infiltrazioni che in quello di Gervasio non appaiono. Penetra in esso un elemento pauroso e tetro, alcunché di infernale e di diabolico che Busoni-cavallo-nerocertamente fu estraneo alla tradizione primitiva e più genuina. In esso la leggenda epica non è ancora trasformata, ma tende già a trasformarsi in leggenda ascetica.

È in un altro racconto, di poco posteriore a quello di Gervasio, che questa trasformazione si vede compiuta. Stefano di Borbone, morto all’incirca il 1261, narra il fatto a questo modo.

«Udii narrare a un frate di Puglia, per nome Giovanni, il quale diceva esser ciò avvenuto dalle sue parti, che un certo uomo, andato in traccia del cavallo del suo signore su per il monte presso a Vulcano (sic), ove si crede sia il purgatorio, vicino alla città di Catania, trovò, secondo gli parve, una città, che aveva una postierla di ferro, e a colui che la custodiva chiese notizia del cavallo che andava cercando.
Il custode gli rispose che n’andasse sino alla corte del principe, il quale o glielo farebbe restituire, o gliene darebbe notizia; e richiesto dall’altro, in nome di Dio, di alcuna norma circa quell’andata, soggiunse badasse bene di non mangiare di nessuna vivanda che potesse essergli offerta.

«Parve al cercatore di vedere per le vie di essa città tanti uomini quanti ne sono al mondo, di ogni generazione e condizione. Passando per molte sale, giunse ad una, ove scorse il principe circondato dai suoi. Ecco gli offrono molti cibi, ed egli non vuole gustarne nessuno: gli mostrano quattro letti, e gli dicono che uno di essi è apparecchiato per il suo signore, gli altri tre per tre usurai.
E gli dice il principe che al signor suo e ai tre usurai assegnava certo giorno come termine perentorio a comparire, e che mancando, sarebbero menati a forza; e gli dà un nappo d’oro, con coperchio d’oro, e lo ammonisce che non l’apra, ma lo rechi in segno della cosa al padrone, perché questi beva della sua bevanda; e, di giunta, gli fa restituire il cavallo.

«Se ne torna il famiglio; adempie il precetto; s’apre il nappo e ne schizza fiamma; si getta il nappo nel mare e il mare si accende.
Quei quattro, sebbene confessi (per timore solo, e non per penitenza), il dì assegnato sono rapiti sopra quattro cavalli neri…».

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Qui abbiamo, in sostanza, lo stesso fatto narrato da Gervasio e da Cesario, ma con particolarità nuove, che mostrano un crescente infoscamento della leggenda, e la preponderanza presa dagli elementi infernali e diabolici.
Secondo Gervasio, Artù mandò regali al padrone del cavallo, né in modo alcuno gli nocque; secondo Cesario, un ministro di Artù impose, per mezzo del servo, al padrone del cavallo di presentarsi a giorno fisso alla corte del principe; secondo Stefano, il principe assegnò il giorno del comparire al padrone del cavallo e allo stesso tempo a tre usurai.

Nel racconto di Cesario non s’intende il perché di quell’assegnazione, ma ben s’intende nel racconto di Stefano, dove la coppa ignivoma, che sarebbe un simbolo del vulcano, e la compagnia dei tre usurai, e quei quattro letti, che non dovevano essere letti di rose, e, più di tutto, i quattro cavalli neri rapitori, lasciano subito intendere di che cosa si tratti.
Quella città è una città infernale, quel principe, se non è Satanasso in persona, è uno dei suoi maggiori ministri, e perciò non si chiama più Artù, sebbene sia stato Artù in origine. Anche quella particolarità di non dover accettare cosa che sia offerta, si trova in numerose leggende diaboliche.

Questa graduale trasformazione della leggenda, lungi dall’essere capricciosa e arbitraria, era in certo qual modo ragionevole e necessaria, ma si deve, innanzitutto, insistere sul fatto che la versione primitiva non è quella di Stefano, e nemmeno quella di Cesario, ma bensì quella di Gervasio; anzi, una in cui l’elemento romanzesco e cavalleresco doveva Böcklin-vulcanoessere assai più copioso che nel racconto di Gervasio non sia.
Tale prima versione dovette essere affatto serena, affatto consentanea alla forma e allo spirito delle altre finzioni bretoni; e noi possiamo credere di rintracciarla, o di rintracciarne una che poco se ne discosti, in un vecchio poema francese intitolato Floriant et Florète, e pochissimo noto.

Questo poema, composto già forse nel secolo XIII, ma più probabilmente nel successivo, è di pochissimo pregio, rileva assai poco nella storia delle finzioni bretoni, e non avrebbe anzi, rispetto ad esse, importanza alcuna, se non fosse per quella leggenda arturiana che ci si vede intessuta. Qui la leggenda non è, come nei racconti di Gervasio, di Cesario e di Stefano, un’immaginazione slegata e smarrita, ma si allaccia a un’azione epica, quale che essa sia, e fa corpo con altre leggende e immaginazioni del ciclo. […]

Nella leggenda più antica doveva dirsi come e perché Artù fosse capitato nell’Etna. Ora, quelle ragioni e quei presupposti, e quella più antica leggenda, noi troviamo per l’appunto, almeno in parte, nel romanzo francese, la cui azione si svolge mentre il re Artù è ancora nel suo regno, a capo dei suoi cavalieri.
Qui l’Etna è una specie di regno fatato, dimora consueta della sorella di Artù, Morgana, e del numeroso suo seguito: è quello che nei romanzi francesi del Medioevo si chiama comunemente Faerie, ossia paese o città delle fate: c’estoit leur maistre chastel, dice il poeta parlando di Morgana e delle sue compagne.

In esso Morgana conduce Floriant, figliolo di un re Elyadus di Sicilia, il quale era stato ucciso dal traditore Maragot; e ve lo fa educare.
Il luogo è assai piacente, e ci si mena vita gioiosa, e non ci si può morire.
Floriant torna poi nel mondo, e incontra molte avventure; ma la buona Morgana, quando conosce che egli è prossimo alla sua fine, lo attira di nuovo nell’incantato soggiorno, e ci fa venire anche la moglie di lui, Florète.
Artù, che si suppone ancora sano e fiorente, ci andrà poi ancor egli a suo tempo, come annunzia la stessa Morgana (vv. 8238-40).

Li rois Artus, au defenir,
mes freres i ert amenez
quant il sera a mort menez.

Quando poi Artù ci fu andato, s’intende che ogni occasione poteva essere buona a fare che egli palesasse in qualche modo la sua presenza, e s’intende pure che egli dovesse Johnson-Artùdiventare il personaggio principale di quella corte fatata, e respingere nell’ombra, se non far dimenticare, tutti gli altri.
Così la leggenda si circoscriveva e si addensava, diventando più particolarmente la leggenda di Artù nell’Etna. E invero, nei due racconti di Gervasio e di Cesario, Morgana non è neppure nominata: in quello del primo, il monte è la curia, o corte, di Artù; in quello del secondo, Artù è signore del monte. Ora io credo che la cagione prima della trasposizione della Faerie di Morgana nell’Etna sia appunto Artù.

Ecco dunque uno scrittore inglese, uno scrittore tedesco, due scrittori francesi, porgere documento di una medesima leggenda, variata, dirò così, nella buccia, ma rimasta pur sempre quella nel nocciolo e nel midollo. E le testimonianze non finiscono qui, potendosi alle forestiere aggiungerne una nostrana, assai scarsa ed asciutta a dir vero, ma non però meno significativa.
In una rozza e bizzarra poesia, appartenente, come pare, al secolo XIII, due cavalieri, interrogati dell’esser loro da un misterioso personaggio che si fa chiamare Gatto Lupesco, rispondono:

Cavalieri siamo di Bretangna,
ke vengnamo de la montagna,
ke ll’omo apella Mongibello.
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire,
lo re Artù k’avemo perduto
e non sapemo ke sia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra
ne lo reame d’Inghilterra.

Qui si allude, senza alcun dubbio, a una credenza secondo la quale Artù sarebbe nell’Etna, ma non si afferma già che egli ci sia veramente. La cosa rimane in dubbio. I cavalieri se ne tornano indietro senza essersi potuti accertare del vero, e da tutto il passo sembra traspaia qualcosa della solita incredulità italiana in fatto di meraviglioso.
Oltre a quella credenza, vi è accennato, ma in modo indiretto, all’antica opinione che Artù dovesse tornare.
Da quanto precede, mi pare provata l’esistenza nei secoli XIII e XIV di una vera e propria leggenda (non di una semplice e scioperata immaginazione individuale), la quale poneva nell’Etna la dimora di Artù, e rimane provato che tale leggenda fu cognita a molti allora in Sicilia, se pur non fu popolare.

(Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medioevo)