Il pensiero moderno, a partire dal XIX secolo, ha stabilito per l’uomo e per le cose un rapporto tutto nuovo con l’origine, mentre denunciava come chimere le genesi descritte in passato.
Questo nuovo modo di rapportarsi all’origine autorizzava e, allo stesso tempo, eludeva anticipatamente gli sforzi positivistici volti a inserire la cronologia dell’uomo all’interno di quella delle cose, in modo da restaurare l’unità del tempo e da ricondurre l’origine dell’uomo a una semplice data, a una piega nella serie successiva degli esseri – sforzi volti, insomma, a sistemare tale origine, e con essa la comparsa della cultura, l’aurora della civiltà nel movimento dell’evoluzione biologica.
Autorizzava parimenti lo sforzo inverso e complementare volto a disporre, in base alla cronologia dell’uomo, l’esperienza che questo ha delle cose, le conoscenze che ne ha acquisito, le scienze che ha potuto così costituire (di modo che se tutti i cominciamenti dell’uomo hanno il loro luogo nel tempo delle cose, il tempo individuale o culturale dell’uomo consente, in una genesi psicologica o storica, di definire il momento in cui le cose trovano per la prima volta il volto della loro verità).
In ciascuno di questi due allineamenti, l’origine delle cose e quella dell’uomo si subordinano l’una all’altra; ma il solo fatto che esistano due allineamenti possibili e irreconciliabili, indica la asimmetria fondamentale che caratterizza il pensiero moderno sull’origine.
Inoltre, tale pensiero fa affiorare entro un’ultima luce e come in un chiarore essenzialmente reticente, un certo strato dell’originario in cui nessuna origine, a dire il vero, era presente, ma in cui il tempo dell’uomo, senza cominciamento, manifestava per una memoria possibile il tempo senza ricordo delle cose.
Da qui una duplice tentazione: psicologizzare ogni conoscenza, quale essa sia, e fare della psicologia una sorta di scienza generale di tutte le scienze; o, inversamente, descrivere questo strato originario in uno stile che sfugga ad ogni positivismo di modo che sia possibile, a questo punto, turbare la positività di ogni scienza e rivendicare contro quest’ultima il carattere fondamentale, non definibile di tale esperienza.
Ma, dandosi come compito di restituire il campo all’originario, il pensiero moderno vi scopre immediatamente l’arretramento dell’origine; e si propone paradossalmente di inoltrarsi nella direzione in cui tale arretramento si compie e non cessa di approfondirsi; esso tenta di farlo affiorare dall’altro lato dell’esperienza, come ciò che la sorregge in virtù del suo stesso regredire, come ciò che è vicinissimo alla sua possibilità più visibile, come ciò che, in essa, è imminente; e se l’arretramento dell’origine si offre così nella sua massima evidenza, non è forse l’origine stessa che, ormai liberata, risale fino a sé nella dinastia del suo arcaismo?
Ecco perché il pensiero moderno è votato, nel suo intero, alla grande preoccupazione del ritorno, all’ansia di ricominciare, alla strana inquietudine immobile che lo pone nella necessità di ripetere la ripetizione.
Così da Hegel a Marx e a Spengler si è dispiegato il tema d’un pensiero che per il moto in cui si compie – totalità raggiunta, violento recupero all’orlo della catastrofe, declino solare – si curva su se stesso, illumina la propria pienezza, chiude il proprio cerchio, si ritrova in tutte le figure strane della propria odissea e accetta di scomparire nello stesso oceano da cui era scaturito; contrapposta a tale ritorno, che pur non essendo felice è perfetto, si delinea l’esperienza di Hölderlin, di Nietzsche e di Heidegger, in cui il ritorno non si dà che nell’estremo arretramento dell’origine, dove gli dèi hanno dissolto lo sguardo, dove il deserto cresce, dove la τήχνη ha instaurato il dominio della propria volontà; di modo che non si tratta più ora d’un compimento o d’una curva, ma piuttosto dell’incessante lacerazione che libera l’origine in ragione stessa del suo regresso; l’estremo è allora ciò che vi è di più vicino.
Ma, sia che tale strato dell’originario, scoperto dal pensiero moderno entro il movimento stesso che ha portato all’invenzione dell’uomo, prometta l’avverarsi del compimento e delle plenitudini ultime, sia che invece restituisca il vuoto dell’origine – quello predisposto dal suo arretramento e quello scavato dalla sua vicinanza – ciò che esso prescrive di pensare, è qualcosa come il «Medesimo»: attraverso il campo dell’originario, che articola l’esperienza umana sul tempo della natura e della vita, sulla storia, sul passato sedimentato delle culture, il pensiero moderno si sforza di ritrovare l’uomo nella sua identità, nella pienezza o nel nulla che egli è; di ritrovare la storia e il tempo nella ripetizione che essi rendono impossibile ma che costringono a concepire; di ritrovare l’essere in ciò che esso è.
E così, nel compito infinito di pensare l’origine il più vicino e il più lontano possibile da sé, il pensiero scopre che l’uomo non è contemporaneo di ciò che lo fa essere o di ciò a partire da cui è; ma che è preso all’interno di un potere che lo disperde, lo trae lontano dalla propria origine, pur promettendogliela entro un’imminenza destinata forse ad essere costantemente sottratta; tale potere tuttavia non gli è estraneo; non risiede fuori di lui nella serenità delle origini eterne ed incessantemente ricominciate, poiché in tal caso l’origine sarebbe effettivamente data; tale potere appartiene al suo essere.
Il tempo – ma il tempo che egli stesso è – lo separa sia dal mattino in cui nacque sia da quello che gli è annunciato.
È evidente come questo tempo fondamentale, a partire dal quale il tempo può essere dato all’esperienza, differisca da quello che agiva nella filosofia della rappresentazione: il tempo qui disperdeva la rappresentazione imponendole la forma d’una successione lineare, ma era compito della rappresentazione restituirsi a se stessa entro l’immaginazione, e così duplicarsi perfettamente e dominare il tempo; l’immagine consentiva di recuperare il tempo integralmente, di recuperare ciò che era stato concesso alla successione, e di costruire un sapere non meno vero di quello di un intelletto eterno.
Nell’esperienza moderna, al contrario, la retrocessione dell’origine è più fondamentale di ogni esperienza, dal momento che proprio in essa l’esperienza scintilla e manifesta la propria positività; le cose si danno con un tempo che è il loro, giacché l’uomo non è contemporaneo del proprio essere.
Ritroviamo qui il tema della finitudine. Ma tale finitudine, annunciata in un primo tempo dallo strapiombare delle cose sull’uomo – dal fatto che egli era dominato dalla vita, dalla storia, dal linguaggio – appare adesso a un livello più fondamentale: costituisce il rapporto insormontabile dell’essere dell’uomo col tempo.
Riscoperta così la finitudine interrogando l’origine, il pensiero moderno richiude il grande quadrilatero che aveva incominciato a delineare allorché, sul finire del XVIII secolo, si rovesciò l’intera episteme occidentale: il nesso tra positività e finitudine, la duplicazione dell’empirico nel trascendentale, il riferimento perpetuo del cogito all’impensato, l’arretramento e il ritorno dell’origine, definiscono per noi il modo d’essere dell’uomo.
A partire dal XIX secolo, la riflessione cerca di fondare filosoficamente la possibilità del sapere sull’analisi di tale modo d’essere, e non più su quella della rappresentazione.
(Foucault, Le parole e le cose)
***
L’avrebbe sottoscritto anche Platone: anche per lui, infatti, tutto «ciò che era stato concesso alla successione» era… una parola tronca: arkhé. Tutto il sapere dei Sapienti era racchiuso, anche per lui, in una sola parola-chiave: Origine, Inizio, Principio. E questa sola chiave era tutta l’eredità concessa alla filosofia dei Successivi.
Tutti i «pensieri» quando prendono coscienza di sé, si scoprono a distanza dall’Origine da cui pure sgorgano. Tutti i «pensieri» hanno un passato senza memoria, senza storia – un passato che li vide nondimeno «vivi» e «dotati di voce», anche se non ancora di parole. E l’eco di quella Voce, la coda di quel Passato – è tutto quanto ad essi rimane, una volta che si sono imbarcati nella distanza dalla propria Origine smemorata.
Per quante circonlocuzioni abbia prodotto, la Filosofia non ha mai avuto un secondo, un terzo o addirittura un quarto «problema», che non fosse, più o meno consapevolmente, un’estensione o una sorta di apri parentesi nel Problema Unico di quella sola parolina tronca, arkhé. Il Problema dell’Origine delle cose e delle parole, e dunque dell’uomo.
Ogni volta che la Filosofia si «ammoderna» non può che ricominciare da qui – sempre dallo stesso unico lascito testamentario del Passato, e perciò essa si rinnova semplicemente restituendo il campo all’originario, restituendo cioè la parola alla Domanda intorno all’Origine, invece di farla sproloquiare di questioni di lana caprina.
Perfino quello dell’essere, o del non-essere, è un falso problema – se, scippato come un pesce alla sua acqua, viene sottratto al suo proprio movimento che non può essere che quello di una regressione, di un ritorno a quello «strato originario» che nessuna archeologia può riportare alla luce, a meno che non abdichi a ogni suo sapere.
La prima volta che, scavando in questo campo, Freud ebbe la sensazione di essere vicino allo «strato originario» dell’Uomo, sappiamo come dovette arrangiarsi a chiamarlo. Lo chiamò «istinto di morte», riconoscendogli così una deliberata estraneità alla nostra «vita» cosciente. E sappiamo pure che, sotto l’influsso del positivismo dominante, provò, ma inutilmente, a pensarlo in termini biologici. Sta di fatto, però, che non incontrò mai l’ipotetico «gene» dell’Origine. Ma ne intuì, o presuppose, l’esistenza da certi indizi: da quel suo cocciuto movimento regressivo, dai flussi d’onda della sua «coazione a ripetere», a ripetere nient’altro che la sua arcaica ripetizione, e la dinastia tutta intera del suo arcaismo, senza però concedere un minimo accesso «linguistico» al suo Reame.
Gli parve che l’Origine avesse questa sola tensione: ripetere la sua ripetizione, ribadire il suo «vizietto», o il suo «guasto», e via, tornare subito a occultarsi nelle oscure pieghe dell’«istinto». Dell’«abitudine a celarsi» in quello che già gli antichi Sapienti, prima di Platone, aveva riconosciuto come il paradosso di Lete e Alêthé – Oblio e Fuga verso la Memoria. Oblio del Passato Puro, e Fuga verso quel poco che il Passato lascia dietro di è: il Presente appeso alla sua parola tronca.
Il paradosso era che proprio nell’Oblio del Passato senza ricordi, proprio là «l’esperienza [di una «verità» qualsiasi]scintilla e manifesta la propria positività». Era che l’Oblio stesso, e solo esso, suscita l’alêthé e la tiene a sé vincolata d’un filo invisibile. Era inoltre che proprio il suo tempo smemorato è quello che rilascia a noi una memoria. Solo l’eco, appena la coda, nient’altro che una parola tronca – l’alêthé, nella lingua dei Greci.
Il paradosso era insomma questo: che ogni nostra «verità» (e con ciò siamo già con tutt’e due i piedi nel Simbolico) è il miraggio di un Passato Reale che, se pure fu «sapiente», non fu mai presente a quella sua «sapienza», di certo non nel modo di qualcosa come il nostro «principio di realtà».
Il paradosso, così come Freud ebbe a trascriverlo, è che proprio l’«istinto di morte», che solo esso ci dà lo slancio verso la vita, la storia, il linguaggio.
Ecco perché Lacan «corregge» Freud. Gli aggiusta il tiro, o forse le parole in bocca: l’Origine è sì una Macchina, dice, è certo un Istinto, un Automa a ripetersi. Ma è una Macchina simbolica che genera un’infinità di sensi e di destinazioni per ogni «lettera» del linguaggio, della vita, e della storia, rimanendo però essa insensatamente sigillata nel suo guscio di mistero – chiusa nel cuore della Struttura «delle parole», certo, ma di una Struttura che ripete la sua insensata equazione che prende le parole per «cose». Di una Struttura che si fonda su questa assurda miracolistica equazione – propria ed esclusiva della mente umana – di confondere il reale col simbolico. Di farsi strada, di mettersi a distanza dall’Origine e dal Passato – dal Reale primitivo – per aprire, col simbolico, un altro mondo – il Reale propriamente Umano.