L’esperienza pratica mi ha aperto una nuova e inaspettata via di accesso alla saggezza orientale. Non che io sia, beninteso, partito da una più o meno approfondita conoscenza della filosofia cinese; anzi ho iniziato la mia carriera di psichiatra e psicoterapeuta pratico ignorandola completamente, e solo le mie successive esperienze professionali mi hanno mostrato che dalla mia tecnica ero stato condotto inconsapevolmente su quella via segreta che per millenni era stata percorsa dai migliori spiriti dell’Oriente.
Si potrebbe considerare questa osservazione come una mia presunzione soggettiva, ma Wilhelm, eccellente conoscitore dell’anima cinese, mi ha confermato senza riserve questa coincidenza, dandomi con ciò l’animo di scrivere su un testo cinese [il Segreto del fiore d’oro] che, per la sua materia, rientra completamente nelle misteriose oscurità dello spirito orientale. Ma il suo contenuto – è questa la cosa straordinaria – forma al tempo stesso un vivissimo parallelo con ciò che accade nello sviluppo psichico dei miei pazienti, che cinesi non sono.
Per avvicinare maggiormente alla comprensione del lettore questo strano fenomeno, occorre ricordare che, come il corpo umano presenta, al di là di ogni differenza razziale, un’anatomia comune, anche la psiche possiede, al di là delle differenze di cultura e di coscienza, un sostrato comune da me definito inconscio collettivo. Questa psiche inconscia che è comune a tutta l’umanità, non consiste tanto in contenuti atti a divenire consci, quanto in disposizioni latenti a certe reazioni identiche. L’inconscio collettivo è semplicemente l’espressione psichica dell’identità della struttura cerebrale al di là di ogni differenza di razza. Questo spiega l’analogia e addirittura l’identità dei motivi onirici e dei simboli, e in generale la possibilità d’intesa tra gli uomini. Le diverse linee di sviluppo psichico partono da un ceppo comune, le cui radici affondano in ogni passato. In ciò si fonda perfino il parallelismo psichico con l’animale.
Dal punto di vista puramente psicologico si tratta di comuni istinti di rappresentazione (immaginazione) e di azione. Ogni rappresentazione e azione conscia si è sviluppata su queste immagini archetipiche inconsce, con le quali rimane in costante relazione. Questo capita specialmente quando la coscienza non ha raggiunto ancora un grado troppo alto di chiarezza, e cioè quando ancora dipende in tutte le sue funzioni più dall’istinto che dalla volontà conscia, dall’affettività più che dal giudizio razionale.
Tale condizione garantisce uno stato primitivo di benessere psichico, che però si tramuta subito in disadattamento, quando si presentino circostanze che richiedano più elevati adempimenti morali. Gli istinti infatti sono sufficienti soltanto per una natura che resti più o meno costante. Un individuo che sia guidato più dall’inconscio che da una scelta cosciente tende perciò a uno spiccato conservatorismo psichico. Questo è il motivo per cui il primitivo non muta neppure durante i millenni, e teme ciò che è estraneo e inconsueto, che potrebbe portarlo al disadattamento e da qui verso i più gravi pericoli psichici, insomma a una sorta di nevrosi.
Una coscienza, più elevata e dilatata, che deriva dall’assimilazione di ciò che era estraneo, tende all’autonomia, alla ribellione contro i vecchi dèi, che altro non sono che le potenti immagini archetipiche inconsce che fino ad allora avevano tenuto la coscienza in stato di soggezione.
Quanto più forte e autonoma diventa la coscienza, e con essa la volontà conscia, tanto più l’inconscio viene relegato sullo sfondo, e tanto più facile diviene per il prodotto della coscienza emanciparsi dal modello archetipico inconscio. Guadagnando in libertà, infrange le catene della nuda istintualità, e giunge infine a uno stato di assenza di istinto, o anche di opposizione ad esso.
Questa coscienza sradicata, che non si può più appellare in nessuna circostanza all’autorità delle immagini arcaiche, ha certamente qualcosa della libertà prometeica, anche della hybris senza dio.
Essa si libra al di sopra delle cose, perfino al di sopra degli uomini, ma corre il pericolo di perdere l’equilibrio, e questo non tanto per i singoli individui, quanto piuttosto per l’insieme dei membri più deboli di una siffatta società, i quali vengono poi, anch’essi come Prometeo, incatenati al Caucaso dell’inconscio.
Il saggio cinese direbbe, con le parole dell’I Ching, che quando lo yang ha raggiunto il punto di maggior forza nasce nel suo interno l’oscura potenza dello yin, poiché col mezzogiorno comincia la notte, e yang spezzandosi diventa yin. […]
Una coscienza potenziata al prezzo di una inevitabile unilateralità, in tutti i casi si allontana talmente dalle immagini archetipiche da provocare un crollo. E già prima della catastrofe si annunciano i segni dell’errore, come assenza di istintualità, come nervosismo e disorientamento, come invischiamento in situazioni e problemi impossibili, e così via.
L’analisi del medico rivela subito un inconscio che, trovandosi in stato di completa ribellione contro i valori consci, non può dunque in nessun modo essere assimilato dalla coscienza; e il contrario è ancor più impossibile. Ci troviamo in primo luogo di fronte a un conflitto apparentemente insolubile, di cui nessuna umana ragione può venire a capo, se non con soluzioni fittizie o malsani compromessi. Chi rifiuti le une o gli altri si dovrà domandare dove stia quell’unità della personalità che ci è così indispensabile, e si troverà di fronte alla necessità di ricercarla.
A questo punto inizia dunque quella via che fu percorsa dall’Oriente fin da tempi immemorabili. È chiaro che il cinese poté percorrerla proprio per il fatto che non era mai stato in grado di separare gli opposti della natura umana in modo tale che andasse perduto ogni loro reciproco collegamento cosciente.
Di questa costante presenza della sua consapevolezza, egli è debitore al fatto che, proprio come nella mentalità primitiva, sic et non rimanevano uniti come lo erano in origine. Nello stesso tempo egli non poteva fare a meno di avvertire lo scontro dei contrari e, di conseguenza, di cercare quella via sulla quale diventare, come dicono gli indiani, nirdvandva, cioè «libero dai contrari».
Di questa via tratta il nostro testo, e di questa stessa via si tratta anche coi miei pazienti. Non ci sarebbe errore più grande che quello di proporre direttamente all’uomo occidentale la pratica cinese dello yoga, che andrebbe semplicemente a rafforzare la sua volontà e la sua coscienza a scapito dell’inconscio, ottenendo proprio l’effetto che si sarebbe voluto evitare, quello cioè di accrescere la nevrosi.
Non si insiste mai abbastanza sul fatto che noi non siamo orientali, e perciò in queste cose partiamo da una base completamente diversa. Inoltre ci sbaglieremmo di grosso se credessimo che questa sia la via che ogni nevrotico deve percorrere, o la soluzione per ogni stadio della problematica nevrotica.
Essa è consigliabile solo in quei casi in cui la consapevolezza ha raggiunto un livello abnorme e si è quindi allontanata dall’inconscio in misura eccessiva. Questa consapevolezza di livello elevato costituisce la conditio sine qua non.
Nulla di più sbagliato del voler intraprendere questa via con nevrotici che sono malati per un’eccessiva prevalenza dell’inconscio. Per questo stesso motivo tale via di sviluppo ha ben poco senso anche per coloro che non hanno ancora superato la prima età della vita (normalmente 35-40 anni), anzi può essere addirittura dannosa. […]
Percorrendo questa via, non si toglie alla bufera nulla della sua realtà, ma non le si sta più dentro, bensì al di sopra. Dato però che noi siamo, in senso psichico, allo stesso tempo e valle e monte, sembra inverosimile che ci si possa proiettare oltre l’umano. È vero che, quando proviamo un affetto, ne siamo sconvolti e tormentati, ma nello stesso tempo è anche presente, in modo percettibile, una più alta consapevolezza, che ci impedisce di identificarci con quello stato affettivo, una consapevolezza che considera quell’affetto come oggetto, e che può dire: «Io so di soffrire».
Quello che il nostro testo dice dell’inerzia, cioè «l’inerzia di cui non si è consapevoli e l’inerzia della quale si diventa consapevoli distano mille miglia l’una dall’altra», vale pienamente anche per gli stati affettivi.
Di tanto in tanto capitavano, nella mia pratica terapeutica, eventi di questo tipo, e cioè che un paziente riuscisse a superare se stesso grazie a potenzialità a lui sconosciute, e ciò costituì per me l’esperienza più preziosa. Nel frattempo avevo infatti imparato che i problemi più grandi e importanti della vita sono, in fondo, irresolubili; e non possono non esserlo, perché esprimono la necessaria polarità inerente a ogni sistema di autoregolazione.
Perciò mi chiesi se questa possibilità del superamento, e cioè di un ulteriore sviluppo psichico, non costituisse in genere il fatto normale, e se quindi il fatto patologico non consistesse proprio nel rimanere bloccati dentro o davanti a un conflitto.
Ogni individuo dovrebbe possedere, perlomeno potenzialmente, questo livello più alto, e poter dunque, in condizioni favorevoli, sviluppare tale possibilità.
Nell’osservare il processo di sviluppo dei pazienti che tacitamente, quasi senza rendersene conto, erano riusciti a superare se stessi, vedevo che i loro destini avevano tutti un elemento comune, in quanto il nuovo giungeva loro dalla sfera delle potenzialità nascoste, o dall’esterno o dall’interno. Essi lo accettavano e crescevano col suo aiuto.
Mi parve tipico che gli uni lo ricevessero dall’esterno, e gli altri dall’interno, pur non essendo mai il nuovo cosa soltanto esterna o soltanto interna. Se proveniva da fuori, diventava una profonda esperienza interiore; se invece proveniva dall’interno, si trasformava in evento esterno. In nessun caso però era stato procurato intenzionalmente e consciamente, ma sembrava piuttosto essere generato dal fluire del tempo.
La nostra tentazione di fare di tutto un fine e un metodo è così grande che voglio esprimermi qui in termini piuttosto astratti per non pregiudicare nulla, dato che il nuovo non deve essere classificato in modo preciso; ne verrebbe fuori altrimenti una ricetta riproducibile «meccanicamente» e si tratterebbe di nuovo di un «mezzo giusto» nelle mani dell’«uomo sbagliato».
Sono rimasto difatti profondamente impressionato dal constatare che l’elemento nuovo inviatoci dal destino solo di rado, o mai, corrisponde all’aspettativa cosciente e che, fatto ancor più notevole, pur opponendosi agli istinti più radicati, così come noi li conosciamo, esso resta però espressione singolarmente adeguata dell’intera personalità, un’espressione di cui non si potrebbe immaginare una più perfetta.
Che cosa hanno fatto dunque questi individui per provocare tale processo risolutivo? Per quanto ho potuto vedere io, non hanno fatto proprio nulla (wu wei), ma hanno lasciato accadere, come insegna il maestro Lü Tzu, poiché la luce circola secondo le sue leggi, se non si abbandonano le proprie abituali occupazioni. Il lasciar agire, il fare nel non-fare, l’abbandonarsi di Mastro Eckhart, è diventato per me la chiave che dischiude la porta verso la via: bisogna essere psichicamente in grado di lasciar accadere. Questa è per noi una vera arte, che quasi nessuno conosce. La coscienza interviene continuamente ad aiutare, correggere e negare, e in ogni caso non è capace di lasciare che il processo psichico si svolga indisturbato.
Il compito sarebbe di per sé abbastanza semplice (se la semplicità non fosse la cosa più difficile!). Per cominciare, esso consiste nell’osservare oggettivamente come si sviluppi un qualunque frammento della fantasia. Non ci sarebbe nulla di più facile, ma ecco incominciano le difficoltà.
O ci sembra di non avere frammenti di fantasia, oppure – «sì, ma è troppo stupido» – nascono mille buoni motivi contrari: «non ci si può concentrare»; «è noioso»; «ma a che scopo?»; «non è altro che…», e così via.
La coscienza solleva innumerevoli obiezioni, spesso appare pronta a spegnere l’attività spontanea della fantasia, nonostante ci possa essere la comprensione più profonda, e addirittura il fermo proposito di lasciar agire il processo psichico senza interferenze. In certi casi si verifica addirittura una vera e propria crisi di coscienza.
Se poi si riescono a superare le difficoltà iniziali, è probabile tuttavia che la facoltà critica intervenga ancora, tentando di interpretare il frammento di fantasia, di classificarlo, di considerarlo dal punto di vista estetico, o di svalutarlo. La tentazione di intromettersi è quasi insuperabile.
Dopo aver compiuto un’osservazione accurata si può, anzi si deve, abbandonare tranquillamente le redini della coscienza impaziente, perché altrimenti sorgerebbero ostacoli dovuti a resistenza. Durante ogni fase di osservazione occorre però mettere nuovamente da parte l’attività della coscienza.
Nella maggior parte dei casi i risultati di questi sforzi sono all’inizio poco incoraggianti. Si tratta di solito di veri e propri intrecci di fantasie, che non lasciano trasparire chiaramente né la loro provenienza, né la loro meta. Le strade che portano a fissare le fantasie variano inoltre da individuo a individuo. Per alcuni è più facile scriverle, per altri visualizzarle, e per altri ancora disegnarle o dipingerle con o senza visualizzazione.
In una profonda crisi di coscienza solo più le mani, spesso, sono capaci di fantasticare, modellando o disegnando figure che di frequente sono del tutto estranee alla coscienza.
Questi esercizi devono essere continuati finché la crisi di coscienza si risolva, finché in altre parole sia possibile lasciar accadere, il che costituisce lo scopo più immediato dell’esercizio. In tal modo è venuto a crearsi un nuovo atteggiamento, un atteggiamento che accetta anche l’irrazionale e l’incomprensibile, semplicemente perché è quello che sta accadendo.
Questo atteggiamento sarebbe un veleno per chi è già comunque oppresso dalle cose che gli accadono; acquista invece un altissimo valore per chi, nella totalità dell’accadere, abbia selezionato col proprio giudizio cosciente solo quanto è accettabile dalla sua coscienza, e dal fiume della vita sia finito perciò gradatamente in morte acque stagnanti.
A questo punto le vie percorse dai due tipi menzionati prima paiono dividersi. Entrambi hanno imparato ad accettare ciò che capita loro. L’uno accetterà dunque principalmente ciò che gli proviene dall’esterno, l’altro ciò che gli viene dall’interno, e come vuole la legge della vita, uno prenderà dall’esterno proprio quel che prima non avrebbe mai preso dall’esterno, e l’altro dall’interno ciò che prima avrebbe sempre respinto.
Questo rovesciamento della propria natura comporta un ampliamento, una elevazione e un arricchimento della personalità, purché in tale rovesciamento vengano conservati i valori precedenti, a patto che non fossero semplici illusioni. Se questi non vengono conservati, l’individuo precipiterà allora dall’altra parte e passerà dalla capacità all’incapacità, dall’adattamento al disadattamento, dal senso al non-senso, e perfino dalla ragione al disordine mentale.
La via non è priva di pericoli. Ogni bene ha un prezzo, e lo sviluppo della personalità è tra le cose più preziose. Si tratta di dire di sì a se stessi, di porsi dinanzi a se stessi come il compito più grave, di essere sempre consapevoli di ogni azione, e di tenere tutto ciò sempre ben davanti agli occhi in tutti i suoi aspetti problematici: davvero un compito che richiede un impegno totale.
Mentre il cinese può sempre appellarsi all’autorità di tutta la sua cultura e, se si incammina sulla lunga via, compie la migliore tra le cose che potrebbe fare, l’occidentale che voglia veramente imboccare questa via, ha invece contro di sé ogni autorità intellettuale, morale e religiosa. Gli è perciò infinitamente più semplice imitare la via cinese e lasciar da parte la scabrosa via europea, oppure, in modo meno semplicistico, ricercare la via a ritroso verso il Medioevo europeo della Chiesa cristiana, e barricarsi dietro il muro europeo, che separa i veri cristiani dai poveri pagani e da altre «curiosità» etnografiche, accampati all’esterno.
Si tronca qui bruscamente il flirt estetico o intellettuale con la vita e il destino. L’accedere a una coscienza superiore ci priva di ogni copertura alle spalle e di ogni sicurezza. L’individuo deve impegnarsi totalmente, poiché solo in virtù della sua integrità può procedere oltre, e solo la sua integrità può essergli garanzia che la sua via non si tramuti in un’assurda avventura.
(Jung, Commento al «Segreto del fiore d’oro»)