Puech – Il viaggio del Figlio del Re dei Re

Nulla è più straordinario e più significativo dell’episodio che segna l’epilogo di cui è protagonista l’eroe del «Canto della Perla» o «dell’Anima»: il Figlio del Re, o dei Re, lo Spirituale o il Salvatore, disceso in Egitto, ossia in questo mondo inferiore che gli è «straniero», per conquistarvi la propria anima, o una porzione della propria anima, simboleggiata da una perla custodita e tenuta prigioniera da un serpente, da un temibile drago.

L’eroe, dopo essersi impadronito della perla, che aveva la missione di riportare al Regno di suo Padre, e dopo essersi spogliato dell’«immonda veste» che era stato costretto a drago-verdeindossare per non distinguersi in alcun modo dagli abitanti del paese, veste che equivale visibilmente al corpo, alla «tunica», all’«involucro» carnale, si affretta a tornare al palazzo dei suoi genitori, alla sua patria celeste.

«All’improvviso», sulla via del ritorno, egli vede giungere, recato da due «tesorieri», il meraviglioso, lo splendido vestito colore di luce, splendente di oro e di gemme, confezionato per lui nel luogo della sua origine, e che egli aveva dovuto lasciarvi, dopo averlo inizialmente portato nella sua prima infanzia, al momento di compiere la propria missione, in attesa di riceverlo nuovamente come ricompensa della sua impresa.

In questo vestito che, perciò, era rimasto fino ad allora nel mondo superiore, il principe si riconosce subito: lo avverte come «simile» a se stesso, vi coglie la propria esatta «somiglianza»; vi si scorge «come in uno specchio»; il vestito è il suo specchio, uno specchio che gli rimanda un’immagine assolutamente fedele di lui stesso.
Anzi meglio: non soltanto l’eroe «vede» il vestito «tutto intero in sé» e insieme «si vede tutto intero» nel vestito, non soltanto egli si conosce attraverso esso e grazie a esso, ma nello stesso tempo egli prende coscienza che entrambi sono una sola cosa.

Possono anche essere «due», apparire, se presi da parte o parzialmente, distinti: in realtà, provenendo da uno stesso principio, essendo parti di un medesimo tutto, essi sono nondimeno, in virtù di una «forma», di una morphê identica, una sola e medesima cosa, un unico essere.
La loro «statura» è uguale ed è cresciuta simultaneamente, unitamente. Per giunta, il vestito è più di un oggetto, di una cosa inerte e muta: il racconto, che lo mostra animato, percorso da «moti di gnosi», pronto a parlare ed effettivamente in atto di proclamarsi proprietà del Figlio del Re, ne fa una specie di essere cosciente, intelligente, vivente.

In definitiva, l’eroe ci si identifica in modo assoluto, e realizza, mediante una congiunzione e una fusione totale, l’identità, prima semplicemente riconosciuta, che li lega reciprocamente: entrambi si affrettano uno incontro all’altro, diventano sempre più vicini fino a toccarsi e, infine, a confondersi; il vestito, largamente dispiegato, si stende sul principe: questi lo indossa, si avvolge «tutto intero» in esso e, ormai divenuto una Blake-angelo-verdesola cosa con esso, sale alla «Porta» del Palazzo del «Re dei Re», suo Padre, e fa per sempre ritorno al Regno natale.

Che qui il vestito simboleggi l’«immagine» o il «doppio» celeste dello Spirituale – egli pure, agli occhi e nel linguaggio degli gnostici e dei manichei, «figlio del Re», «reale infante» – di cui è tipo l’eroe del Canto, e che, più in generale, l’episodio, anzi tutto l’Inno, abbia lo scopo di rappresentare, secondo una teoria che si ritrova tra l’altro in Taziano, la salvezza dell’anima a opera dello spirito, la restaurazione dell’uomo nel suo stato originario e perfetto operato dalla sizigia, cioè dalla congiunzione della psiche col pneuma o noûs, è quanto risulta anche da una semplice analisi del brano.

Ma a rafforzare questo convincimento contribuiscono le descrizioni, fornite da numerosi testi mandei e manichei, dell’anima dell’uomo «vittorioso» e «giustificato» che risale, dopo la morte, al luogo della propria origine, al Paradiso, al Regno della Luce e della Vita, e riceve dall’alto, alla sua uscita dal corpo o lungo il cammino, una «veste di gloria», un «vestito di luce» che indossa.
Fra le altre, hanno attirato la nostra attenzione due testimonianze manichee.

La prima ai «tre grandi angeli», o «angeli di Luce», uno dei quali reca questo «vestito», affianca la «Forma di luce», presentandola in atto di andare insieme incontro agli Eletti e ai Catecumeni, «quando questi rinunciano al mondo» (muoiono), e in atto di manifestarsi loro.
Secondo l’altra, che riguarda soltanto il destino dell’Eletto, la venuta dei tre angeli, qui chiamati «tre dèi», è accompagnata da quella di una «vergine», della «vergine che è simile alla persona (o all’anima) di questo Eletto».

Queste due testimonianze ci hanno indotti a un accostamento, peraltro classico, con varie esposizioni di escatologia iranica, secondo le quali, il terzo giorno dopo la morte e alla vigilia di varcare il ponte Chinvat, l’anima del defunto vede venire incontro a sé, nelle sembianze di una giovinetta, «la propria daênâ», la sua immagine o archetipo celeste, il suo «doppio», il suo «io» trascendente, in qualche misura assimilabile a un angelo femminile, al «suo angelo» (personale), e nel contempo incarnazione della sua fede e delle sue buone azioni.

(Puech, Dottrine esoteriche e temi gnostici, in Sulle tracce della Gnosi)

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bimbi-treno

Ecco un altro esempio di viaggio andata e ritorno – il Figlio del Re discende per poi risalire. Andando su e giù, ha da portare a termine una sola missione: riprendere quella certa cosa preziosa, qui rappresentata dal suo «vestito», altrove da un «vello d’oro» o (perché tutti finalmente intendano) dal suo «doppio». Ha, insomma, da ricongiungersi – celibe qual è – alla Sposa del suo destino, ossia alla Prima Forma Nubile in cui, «al tempo dell’infanzia», quando era ancora a Casa del Padre, «vide» tutti i fili sparsi del suo essere inconscio comporsi in un solo gomitolo: la sua propria «unità» immaginale, la sua prima percezione speculare d’essere una sola persona, la sua prima identità narcisistica speculata «per sé»: per i fatti suoi – o che, perlomeno, egli credeva «suoi» finché non ebbe a scoprire che quella certa cosa preziosa a lui destinata era caduta «in possesso» dell’Altro.

Andare – riprendere la «cosa preziosa» – tornare: era questo lo schema antico. E il Canto della Perla non ha fatto che riadattato alle sue nuove finalità.
Vado, riprendo la lettera e torno – pensò Dupin. E guarda un po’, di una lettera si parla anche nel Canto della Perla. Non è più, essa stessa, la cosa preziosa, ma è quella che ridesta nel Figlio del Re la nostalgia del suo «vestito» o «doppio».

Piccoli dettagli, dirai. Inezie di fronte ai grandi temi escatologici evocati da Puech. E invece ti dico che Andare – Riprendere – Tornare è la Grande Insegna che lampeggia a lettere-colombecaratteri cubitali sopra il mappamondo di tutte le narrazioni di viaggi. Sono invece le differenze «locali», le variazioni «dialettali» del Racconto a essere scritte a caratteri minuscoli.
Sono le prediche dei mandei e dei manichei, sono le speculazioni gnostiche ad aver dato un colore «spirituale» a quello che, altrove, si è prestato invece a essere «spiritoso». Ma al di là di tutti i colori dell’arcobaleno – e l’arcobaleno è veleno per chi si lascia intrigare nei suoi miraggi cromatici – permane invariato il Messaggio.

Da monte a valle, dice questo Messaggio, scendere da monte a valle lungo il Fiume delle immaginazioni è un gioco da ragazzi. È a risalire la corrente che ci vuole, a volte, tutta una vita. Il Fiume, infatti, non è lo Stesso in tutt’e due le direzioni: sulla via del ritorno, da valle a monte, le sue acque non parlano più la vecchia lingua senza parole, non sono più miraggi né visioni da inseguire a nuoto, ma segni e simboli di un altro linguaggio – cascate metaforiche e dirupi metonimici, sensi propri che si confondono con quelli figurati, e che tutt’assieme fanno una Piroga, una Nave Argo, ovvero quell’«insieme crittografico» in cui bisogna imbarcarsi se si vuole intraprendere la via del ritorno.