Lacan – Per ciascuno la lettera è il suo inconscio

Nella nostra disciplina si tratta di sondare qual è nel mondo del soggetto umano la portata dell’ordine simbolico. Ciò che può essere immediatamente colto in questa prospettiva è ciò che ho chiamato «immistione dei soggetti».
Ve lo mostrerò con la storia della Lettera rubata, che il caso ci ha offerto, e in cui Mihai-Criste-tasti-macchina-scrivereabbiamo preso l’esempio del gioco del pari o dispari.

Questo esempio è introdotto dal portavoce del senso del racconto, ed è supposto dare un’immagine elementare della relazione intersoggettiva, fondata sul fatto che il soggetto presume il pensiero dell’altro in funzione delle supposte capacità di astuzia, di dissimulazione, di strategia di quest’ultimo, che sarebbero date in un rapporto duale di riflesso. Il che si regge sull’idea che si possa distinguere l’apprendimento dell’idiota da quello dell’uomo intelligente.
Ho sottolineato come questo punto di vista sia fragile, e anche solitamente estraneo a ciò di cui si tratta, per la semplice ragione che l’intelligenza, nel caso, consiste nel fare l’idiota.

Tuttavia, Poe è un uomo prodigiosamente avveduto, e non avete che da leggere l’insieme del testo per vedere come la struttura simbolica della storia superi di gran lunga la portata di questo ragionamento, seducente per un attimo, ma eccessivamente debole, che qui ha esclusivamente una funzione di acchiappababbei.
Mi piacerebbe che coloro che hanno letto La lettera rubata da quando ne parlo alzino la mano – neppure la metà della sala!

Almeno penso che sappiate che si tratta della storia di una lettera rubata in circostanze sensazionali ed esemplari, raccontata da un infelice prefetto di polizia che ricopre il ruolo, classico in questo genere di mitologie, di colui che dovrebbe trovare quel che c’è da cercare, ma che può solo sbagliar strada.
In breve, il prefetto domanda a quel certo Dupin di trarlo d’impiccio. Dupin, lui, rappresenta il personaggio, ancora più mitico, di colui che capisce tutto. Ma la storia va ben al di là del registro di commedia legato alle immagini fondamentali che soddisfano il genere detective.

L’augusto personaggio la cui persona si profila sullo sfondo della storia, sembra essere nientemeno che un personaggio regale. La scena avviene in Francia sotto la Restaurazione. L’autorità dunque non è certo rivestita di quel carattere sacro che può Schloe-uomo-piccionetenerne lontana la mano di audaci attentatori.
Un ministro, anche lui uomo di alto rango, di grande disinvoltura sociale, e che gode della fiducia della coppia regale, poiché si trova a parlare di affari di Stato in intimità col re e la regina, sorprende l’imbarazzo di quest’ultima nel tentativo di dissimulare all’augusto compagno la presenza sul suo tavolo di qualcosa che è nientemeno che una lettera, di cui il ministro individua subito firma e senso. Si tratta di una corrispondenza segreta. Se la lettera resta lì, gettata con indifferenza sul tavolo, è proprio perché il re non ne noti la presenza. È sulla sua disattenzione, se non sulla sua cecità, che la regina fa affidamento.

Il ministro, che certo non ha le fette sugli occhi, individua di che cosa si tratta, e mette in atto un giochetto, che consiste prima a intrattenere la compagnia, poi a estrarre di tasca una lettera che ha già lì, e che vagamente assomiglia all’oggetto – chiamiamolo fin d’ora l’oggetto della lite.
Dopo averla tenuta un po’ in mano, l’appoggia con negligenza sul tavolo a fianco della prima lettera. Dopo di che, approfittando della disattenzione del personaggio principale, non gli resta che prendere quest’ultima con tutta tranquillità, e mettersela in tasca senza che la regina, che non ha perso un solo dettaglio di tutta la scena, possa fare nient’altro che rassegnarsi a vedere il documento compromettente prendere il volo sotto i suoi occhi.

Vi risparmio il seguito. La regina vuole ad ogni costo recuperare questo strumento di pressione, se non di ricatto. Mette in ballo la polizia. La polizia, fatta com’è per non trovare nulla, non trova nulla. Ed è Dupin a risolvere il problema, e scoprire la lettera là dov’è, cioè nell’appartamento del ministro, nel posto più evidente, a portata di mano, celata appena.
Sicuramente, sembra che non avrebbe dovuto sfuggire alle ricerche dei poliziotti, dato che era compresa nella zona del loro esame microscopico.

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Per impadronirsene, Dupin fa tirare un colpo d’arma da fuoco all’esterno. Mentre il ministro va alla finestra per vedere che cosa succede, Dupin va alla lettera, e la sostituisce rapidamente con un’altra che contiene i versi seguenti:

… mire sì funeste
se non d’Atreo son degne di Tieste.

Questi versi, tratti dall’Atreo e Tieste di Crébillon padre, hanno una portata che va ben oltre quella di averci offerto l’occasione di rileggere per intero questa curiosa tragedia.
Quest’episodio è abbastanza singolare, se gli si aggiunge la nota di crudeltà con cui il personaggio che sembra il più distaccato e imparziale, il Dupin della favola, si frega le mani ed esulta al pensiero del dramma che non mancherà di scatenare. Qui, non è soltanto Dupin a parlarci, ma il narratore, miraggio dell’autore. Vedremo che cosa significa questo miraggio.
Il dramma esploderà quando il ministro, messo alle strette di provare la sua potenza, poiché da allora gli si opporrà resistenza, un bel giorno tirerà fuori la lettera. Si dirà – La mostri. Lui dirà – Eccola. E sprofonderà nel ridicolo, se non nel tragico.
Ecco chiuso il sipario sulla storia.

Ci sono due grandi scene – non nel senso in cui diciamo scena primaria – la scena della lettera rubata e quella della lettera ripresa, e poi scene accessorie.
La scena in cui la lettera è ripresa, è sdoppiata, poiché, pur avendola scoperta, Dupin non la riprende subito – deve preparare il suo trabocchetto, la sua piccola cabala, e anche la Schloe-lettera-uccellolettera da sostituire.
C’è ancora la scena immaginaria della fine, in cui vediamo perdersi il personaggio enigmatico della storia, quel singolare profilo di ambizioso di cui ci si domanda quale sia l’ambizione. È semplicemente un giocatore? Gioca sfidando, la sua meta – e in questo sarebbe un vero ambizioso – sembra consistere nel mostrare fin dove può arrivare. Dove arriva non gli importa. La meta dell’ambizione svanisce con l’essenza stessa del suo esercizio.

Quali sono i personaggi? Potremmo contarli sulle dita. Ci sono i personaggi reali – il re, la regina, il ministro, Dupin, il prefetto di polizia e l’agente provocatore che spara un colpo d’arma da fuoco in strada. Ci sono anche quelli che non compaiono sulla scena e fanno brusio dalle quinte.
Ecco le dramatis personae, di cui di solito si dà l’elenco all’inizio di un’opera teatrale.
Non esiste un altro modo di procedere?
I personaggi in gioco possono essere definiti diversamente. Possono essere definiti a partire dal soggetto, più esattamente a partire dal rapporto che determina l’aspirazione del soggetto reale grazie alla necessità della concatenazione simbolica.

Partiamo dalla prima scena. Ci sono quattro personaggi – il re, la regina, il ministro, e il quarto, chi è?

GUÉNINCHAULT: – La lettera.

Ma sì, la lettera e non il suo mittente. Benché il suo nome venga pronunciato verso la fine del romanzo, in verità non ha che un’importanza fittizia, mentre la lettera è effettivamente un personaggio. Anzi, è a tal punto un personaggio che tutto ci permette di identificarlo allo schema-chiave che abbiamo trovato alla fine del sogno dell’iniezione a Irma, nella formula della trimetilamina.
La lettera è qui sinonimo del soggetto iniziale, radicale. Si tratta del simbolo che si sposta allo stato puro, che non si può toccare senza essere immediatamente presi nel suo gioco.
Così, ciò che significa il racconto della Lettera rubata, è che il destino, o la causalità, non è qualcosa che si possa definire in funzione dell’esistenza. Si può dire che, quando i personaggi entrano in possesso della lettera, li prende e conduce qualcosa che domina di gran lunga le loro particolarità individuali.

surreal-lettera-palloncino

Quali che siano, a ogni tappa della trasformazione simbolica della lettera, saranno definiti unicamente dalla loro posizione nei confronti di questo soggetto radicale, dalla loro posizione in uno dei CH3.
Questa posizione non è fissa. In quanto sono entrati nella necessità, nel movimento proprio alla lettera, ciascuno diventa nel corso delle scene successive, funzionalmente differente in rapporto alla realtà essenziale che essa costituisce.

In altri termini, se prendiamo questa storia nella sua luce esemplare, per ciascuno la lettera è il suo inconscio.
È il suo inconscio con tutte le conseguenze, cioè a ogni momento del circuito simbolico ciascuno diventa un altro uomo.
È quanto cercherò di mostrarvi.

(Lacan, Il Seminario: 2)

***

… mettersi a specchio del «babbeo» o della «grulla» con cui hai a che fare – va bene sì, ma fino a un certo punto. Va bene, diciamo, fino al punto di farti «acchiappare» nel gioco Wolstenholme-uomo-librodegli specchi – mia cara allodola.
Lo vedi anche tu. Sembra, ha tutta l’aria d’essere soltanto un gioco a chi è più intelligente, più furbo, più acuto dell’altro/a. Ma questa non è che l’esca per i «babbei», ovvero per tutti quelli (e ci scommetto, siamo in tanti) che la vita la passano in concorrenza o, per meglio dire, solo a fare le scarpe all’altro. Tutta la vita a presumersi più «bravi» dell’altro… e a rimanere a fare, senza saperlo!, la parte dei polli ingabbiati in questo – come chiamarlo, se non pensiero perverso?

Perverso pensiero di uno sguardo riverso contro se stesso.
È così: vince sempre il Banco a questo gioco controverso. Non vinco né io né tu – vince Lui, Esso, il Gioco. Vince, per usare le parole di Lacan, la «struttura simbolica» delle storie, degli indovinelli e degli enigmi su cui pensiamo di misurare la profondità del nostro essere, e invece nient’altro misuriamo che la potenza che ha, su ciascuno di noi, l’«essere assieme», la superficialità dello «stare assieme al mondo», assieme a calpestarci l’un l’altro il nostro «essere stati» reali «senza storie e senza parole».

Assieme a recitare ciascuno la sua parte di molecola nella formula dell’incantamento che fu chimicamente «mortale» al nostro Passato Puro: l’alchimia di un’alba spuntata assieme alla prima scommessa.
E da allora eccoci, ciascuno a inseguire la sua «lettera», ciascuno a provare a indovinare dov’è nascosta, a non poter fare a meno di attendere il «postino», quando non il poliziotto o il giudice di giustizia, che ce la riporti.

Ehi, siamo qui! maomettana mente aspettando che venga a noi la montagna di lettere che abbiamo scritto al mondo. Dicono così, da sempre, gli Eremiti ricacciati nella solitudine della loro Origine.
Perfino i Solitari, compresi i più Santi e i più Poetici tra loro – essendo entrati una volta /quella volta che fu la loro arkhé/ «in possesso della lettera», continuano a essere presi Schloe-sirena-miraggionel Gioco, a essere dominati da Lui, da Quello che trascende «le loro particolarità individuali».

E tutto questo… per via di un miraggio!
Non uno qualsiasi, però – ma quel miraggio, quello della «luce dell’alba», quello della «cognitio matutina», come la chiamavano una volta: il miraggio iniziale, il «miraggio del Narratore».
Il miraggio il cui «resto», quel poco che rimane del suo «essere stato», è appeso a un frammento del Racconto, a una particina nel Teatro dell’Esserci, a una letterina dello «stare assieme» sulla parola. Il miraggio che a ciascuno di noi assegna, all’Origine sua archetipica, una «posizione» sulla scena del Discorso Umano … un atomo di uno dei tanti CH3 distribuiti nello spazio della Formula di Superficie che è tutta la Realtà Umana. La Realtà così come l’uomo se la rappresenta a parole.
È il miraggio della differance, il miraggio attraverso cui ciascuno «emerge» al Mondo Simbolico. O, come forse meglio si dovrebbe dire: quello con cui ciascuno «annega» nell’inconscio che la Formula gli nasconde.