Nietzsche – Dei sublimi

Placido è il fondo del mio mare: chi potrebbe indovinare che esso nasconde mostri scherzosi!
Incrollabile è la mia profondità: ma essa luccica di guizzanti enigmi e risate.
Oggi ho visto un sublime, un solenne, un penitente dello spirito: oh, come la mia anima Felter-ominoha riso della sua bruttezza!
Col petto sollevato, simile a quelli che aspirano fiato: così se ne stava il sublime, tacitamente:

Tutto addobbato di brutte verità, la sua preda di caccia, e ricco di vesti stracciate; molte spine aveva anche indosso – ma non ho visto ancora una rosa.
Egli non ha ancora imparato il riso e la bellezza. Tetro fu il ritorno di questo cacciatore dalla foresta della conoscenza.
Tornava a casa dalla battaglia con belve feroci: ma dalla sua tetraggine ancora fa capolino una belva feroce – non ancora vinta!
Egli sta ancora là, come una tigre che voglia spiccare un balzo; ma a me queste anime tese non piacciono, questi ritratti su se stessi non sono di mio gusto.

E voi dite, amici, che non si ha da discutere sul gusto e sul sapore? Ma tutta la vita è una disputa su gusto e sapore!
Gusto: è il peso e insieme la bilancia e colui che pesa; e guai a ogni essere vivente che volesse vivere senza la contesa per il peso, la bilancia e coloro che pesano!

Se si stancasse della sua sublimità questo sublime: allora avrebbe inizio la sua bellezza – e allora lo gusterei e lo troverei saporoso.
E solo quando si distoglierà da se stesso, salterà al di là della sua stessa ombra – e, davvero! nel suo sole.
Troppo a lungo il penitente dello spirito sedette all’ombra e le sue guance sono smunte; quasi l’ha colto l’inedia per le sue attese.
Disprezzo è ancora nel suo occhio; e la nausea si cela nella sua bocca. Adesso riposa, è vero, ma il suo riposo non ha ancora conosciuto il sole.

Come il toro dovrebbe fare; e la sua felicità dovrebbe odorare di terra, non di disprezzo della terra.
Lo vorrei vedere come un candido toro, sbuffante e muggente mentre precede il vomere: minotauro-painte il suo muggito dovrebbe essere la lode di tutte le cose terrene!
Cupo è ancora il suo viso; su di esso scherza l’ombra della mano. Ancora adombrato è il senso della sua vista.
La sua azione stessa è l’ombra su di lui: la mano oscura colui che agisce. Egli non ha ancora superato la sua azione.

Certo, di lui io amo la nuca taurina: ma vorrei vedere anche l’occhio angelico.
Deve ancora disimparare la sua volontà eroica: un elevato egli ha da essere e non soltanto un sublime: – l’etere stesso dovrebbe sollevarlo, senza volontà!
Ha soggiogato mostri, ha risolto enigmi: ma egli dovrebbe liberare anche i suoi mostri e i suoi enigmi, dovrebbe trasformarli in figli del cielo.
La sua conoscenza non ha ancora imparato a sorridere e a essere senza gelosia; la sua scrosciante passione non si è ancora acquietata nella bellezza.

In verità, non nella sazietà dovrebbe tacere e immergersi la sua brama, ma nella bellezza! La grazia appartiene alla magnanimità di colui che ha grandi sensi.
Col braccio appoggiato sulla testa: così dovrebbe riposare l’eroe, così dovrebbe egli superare anche il suo riposarsi.

Ma proprio per l’eroe la bellezza è di tutte le cose la più ardua. Irraggiungibile è la bellezza per ogni volontà violenta.
Un po’ più, un po’ meno: proprio questo è qui molto, è qui il massimo.
Stare in piedi coi muscoli rilassati e con la volontà staccata: questa è la cosa più ardua per voi tutti, o sublimi!

Quando la potenza diventa clemente e scende giù nel visibile: un tale scendere giù, io lo chiamo bellezza.
E da nessun altro come da te, o possente, io voglio appunto la bellezza: la tua bontà sia il tuo supremo sopraffare te stesso.
So che sei capace di ogni malvagità: perciò da te voglio la bontà.

Lohmuller-sleeping

Davvero, spesso ho riso dei rammolliti che si credono buoni perché non hanno artigli!
Alla virtù della colonna aspira! – più bella essa diventa e sempre più delicata, ma di dentro più dura e più robusta, quanto più ascende.

Sì, o sublime, per te verrà il momento di essere anche bello e di specchiarti nella tua stessa bellezza.
Allora l’anima ti rabbrividirà di brame divine; e persino nella tua vanità sarà adorazione!
Questo infatti è il segreto dell’anima: solo quando l’eroe l’ha lasciata, le si avvicina, in sogno, – il super-eroe.

(Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

***

Zarathustra un dì ha incontrato il (tale) Sublime.
(Forse che Zarathustra non è sublime? Anzi – lui il Sublime?)
Perciò, un incontro come questo poteva immaginarlo solo lo sguardo strabico di un Nietzsche, insieme vedente e veduto – Narciso e, insieme, il suo puerile aldilà «visti» annegare nelle acque di uno stesso Passato.
È tutto già accaduto. E tutto ciò che c’era da incontrare, è stato incontrato. E tutto ciò che c’era da sapere, è stato saputo. Ma proprio allora la Sapienza è divenuta così possente – uomo-preghiera-nuvoleda insuperbirsi.

Strano, proprio il più «superbo» dei Personaggi che la Sapienza ha saputo mettere in scena – strano davvero che debba, proprio lui, ora, incontrare l’Orgoglioso della Landa, il Sublime vestito (dei cenci) di verità.
È come se la Sapienza avesse saputo, nel Passato, procurarsi l’antidoto al suo peggior vizio, e se pure il Sapiente Orgoglioso più non se ne ricorda, ora c’è Zarathustra a fronteggiare l’Ultimo Mostro.

In fondo a ogni sublimità c’è un’origine di luce. Solo così il Sublime che è in ogni Nietzsche si salva: solo se dall’origine, dal Passato dimenticato, ora a lui ritorna e si fa incontro Colui che gli manca, Zarathustra – il candido Profeta che la Sapienza, sapendo a quali rischi andava incontro per le vie del sapere, seppe tenere da parte – fuori dalla mischia.
In fondo a ogni sublimità c’è una luce nera che irradia da tutto ciò che è stato sapientemente tenuto laggiù, nel Passato – una luce che non si vede, una luce da cui si può solo essere visti. E quando, da laggiù, quella luce ci vede, solo in quei rari istanti preziosi, ci compare dinanzi il suo candido Profeta – l’Inviato della nostra preesistenza.

È uno strano incontro – questo che volgarmente dicesi col proprio doppio. Strano, questo vedersi visto con gli occhi del mondo, e intanto sapersi sotto lo sguardo che ci raggiunge da un’altra esistenza, dalla notte della nostra antica Veggenza, dai tempi in cui mai nessuno fu così solo come il nostro tardivo Zarathustra.
Era il Primo – e perciò: giunge da Ultimo.
Giunge alla fine del cammino del suo proprio Creatore.
I due «s’incontrano». Non per affrettare le conclusioni, ma perché tanto lo sanno già tutti come andrà a finire. Finirà che il Creatore scoprirà poco a poco d’essere lui la Creatura di Zarathustra. O meglio: la creatura di quell’antico germe immaginale, di cui Zarathustra è solo l’ultima «riscrittura».

Finirà che l’Eroe dovrà disimparare il suo eroismo, e il Sapiente la sua sapienza, e l’Amante tutti i balocchi del suo amore.
Zarathustra lo richiama alla prima, alla più mitologica delle provocazioni: ad andare al Nietzsche-cima-montedi là del proprio eroismo, del proprio sapere, del proprio volere.
Perché eroismo sapere e volere si nutrono di «disprezzo della terra». E questo disprezzo, col tempo, li avvelena.
È il superbo Zarathustra che parla al Superbo – ma, poiché ciò che dice viene dal fondo del mare, poiché ritorna dal più lontano, e le sue parole hanno il gusto e il sapore che ha la Sapienza quando nasce, estremo rimedio al male estremo – all’Eroe suggerisce il super-eroe. Suggerisce che torni a «sapere di terra», come fu allora – nel suo Passato.

Lui che predilige le altezze, lui che abita sulle cime dei monti, Zarathustra gli suggerisce che torni a «scendere giù», sulla terra. Proprio lui! che non ha mai messo piede sulla terra.
Ebbene, proprio lui, solo lui ha la parola del rimedio contro la presunzione del Creatore: torna, gli dice, torna a sporcare la tua mitologica Sublimità. C’è un irraggiungibile che non è sopra le nuvole, dove lo cerchi tu – per domarlo alla tua sapienza.

Questo irraggiungibile è laggiù – nella terra dove fu gettato il primo seme della tua immaginazione. Quel seme di cui io, Zarathustra, sono l’ultima eco.
Ascoltami, Sublime! la bellezza è di tutte le cose la più ardua. Essa non si dà a chi la vuole. Volerla è farle violenza!
Bellezza è già data – e perciò manca.
Bellezza non è qualcosa che si conquista, non è il premio né il coronamento di uno sforzo. Bellezza è «scendere giù», Bellezza è l’«abbassarsi», il «divenire piccino», il movimento a «contrarsi nel proprio seme».
Bellezza è avere la «bontà» di «sopraffare se stessi».

Perciò, infine: non alla Colonna, ma alla Virtù della Colonna – aspira! Non all’Opera, non all’Azione, ma alla Bontà della Sapienza che ha operato e agito, puramente contemplando.
Bellezza è avere la «bontà» di contemplare l’aldilà del proprio desiderio di Bellezza. Di contemplare questo «aldilà» che ogni Sapienza sporca quando ne pretende l’incarnazione. Bellezza è questo «aldilà» che è, e che ci manca.