Lévi-Strauss – Viaggi andata e ritorno, viaggi comunque zoppi

Considerati da un punto di vista più generale, i miti che abbiamo discusso si sforzano di risolvere una contraddizione che un sistema di vita fluviale doveva rendere sensibile soprattutto per popolazioni stanziate in vicinanza dell’equatore. Nell’ordine temporale, Simone-acqua-quadrola notte si alterna esattamente con il giorno poiché, in quella parte del mondo, i due periodi hanno la stessa durata.
La realtà vissuta offre dunque l’immagine perpetua di una mediazione riuscita tra due condizioni concepibili almeno da un punto di vista teorico: quella in cui ci fosse solo il giorno e quella in cui fosse solo la notte, o anche tra condizioni in cui la durata di uno dei periodi eccedesse in maniera considerevole quella dell’altro.

Per contro, nell’ordine spaziale, è semmai lo stato di mediazione che dipende da una visione teorica: perché l’andata fosse uguale al ritorno, sarebbe stato necessario, per i viaggi in piroga, che i fiumi scorressero in entrambi i sensi. Ma la realtà empirica non ci presenta niente di simile. Infatti, benché la distanza rimanga la stessa, si passa un intero giorno se non di più a risalire un tratto di fiume per scendere il quale erano bastate poche ore.
Questo è vero soprattutto quando i fiumi sono interrotti da salti e da rapide; allora la corrente imprime una velocità prodigiosa alla piroga che si dirige verso valle, ma costringe a lunghi trasbordi per via di terra quando la destinazione è verso monte.

Ora, nei miti in cui uno dei dioscuri si sforza di dare una duplice direzione ai fiumi, l’altro fa fallire il suo tentativo creando le rapide e le cascate, cause principali della disuguaglianza dei tragitti.
Pertanto, l’asse spaziale e l’asse temporale si riferiscono a strutture che, da un punto di vista logico, debbono apparire simmetriche e invertite.

Sull’asse temporale, lo stato di mediazione è lo stesso che viene fornito dall’esperienza, e soltanto la speculazione teorica permette di ricostituire uno stato primitivo di non mediazione, sotto le due forme che suggeriscono i miti, cioè il prevalere del giorno o quello della notte: condizioni fra le quali non esiste d’altra parte alcuna parità.
Sull’asse spaziale, avviene il contrario: ciò che è dato è soltanto l’assenza di mediazione; con il fantasma del fiume a duplice direzione, la speculazione ricostituisce uno stato iniziale opposto.
In ogni caso, perciò, i poli di ciascun asse, che si corrispondono da un punto di vista logico, sono l’uno vissuto e l’altro pensato.

rapida-fiume

Il paradosso diventa sensibile soprattutto sull’asse sociologico, che appare ora come una funzione degli altri due: endogamiche e esogamiche che siano (e in maniera più o meno rigorosa nei vari casi), le regole del matrimonio costringono a considerare attentamente la distanza a cui si andranno a cercare le spose, ma in vista della perpetuazione della specie, cioè per assicurare quella periodicità delle generazioni che viene misurata, in ultima analisi, dalla durata della vita umana.
Non bisogna perciò stupirsi se, nei miti dedicati all’impossibile arbitrato del vicino e del lontano, risorge spesso il motivo della vita breve, istituita dai demiurghi insieme alla distanza ragionevole fra la luna e il sole, all’inevitabile differenza nella durata dei viaggi per via d’acqua tra l’andata e il ritorno, e al grado di mobilità permesso alle donne.

Secondo la più antica versione che si conosce del già ricordato mito Tamanac, il demiurgo rinunciò a dare una duplice direzione ai fiumi, ma ruppe le gambe della propria figlia vagabonda che «era amante de camminate» e promulgò la vita breve.
Un’altra versione, più recente, aggiunge che egli fece delle incisioni rupestri senza uscire dalla sua grossa piroga e che rese più dolce il rilievo del suolo, diminuendo così gli ostacoli alla navigazione che si fanno sentire soprattutto quando si risale la corrente.

All’altra estremità del continente, presso gli Ona e gli Yahgan della Terra del Fuoco, i demiurghi si adoperano per regolare l’alternanza del giorno e della notte, per dare un ordine all’universo, istituire la vita breve, e insegnare agli esseri umani l’arte di copulare e di riprodursi.
I codici astronomico, geografico, sociologico e biologico sono ovunque collegati.

Schloe-giorno-notte

Potremmo esprimerci in maniera più precisa dicendo che l’asse astronomico, verticale poiché interessa il cielo e la terra, e l’asse geografico, orizzontale tra i poli del vicino e del lontano, si proiettano in scala ridotta sotto forma di assi che sono anch’essi perpendicolari fra di loro: un asse anatomico, i cui poli sono costituiti dall’alto (testa) e dal basso (gambe), e l’asse sociologico, che oppone il matrimonio endogamico (vicino) e il matrimonio esogamico (lontano).

L’ossatura ideologica dei miti dell’America equatoriale sembra dunque legata a una infrastruttura in cui il pensiero indigeno scopre una contraddizione: quella fra un asse temporale di tipo equinoziale e un asse spaziale in cui la direzione del viaggio interviene per rendere disuguali distanze che nondimeno sono identiche.
Stando così le cose, si può rimanere sorpresi dalla ricorrenza del motivo del fiume a duplice direzione in regioni nordamericane nelle quali il fenomeno pertinente è costituito dal solstizio più che dall’equinozio. In un certo senso, questa ricorrenza conferma la nostra tesi, poiché la si osserva proprio dove abbiamo già notato la ricorrenza del viaggio in piroga, motivo complementare del precedente; da una parte presso gli Irochesi, dall’altra sulla costa del Pacifico, dal Puget Sound e dai Quinault a nord sino ai Karok e agli Yurok.

«All’origine dei tempi, il fiume Klamath scorreva da una parte verso monte, dall’altra verso valle, ma il creatore decise che le acque del fiume sarebbero discese verso valle e fiume-alberiche i salmoni sarebbero andati verso monte». Queste tribù della California nordoccidentale avevano un genere di vita essenzialmente fluviale. Celebri per la loro agricoltura evoluta, gli Irochesi abitavano però una regione di grandi laghi e di innumerevoli corsi d’acqua in cui, nei tempi antichi, essi navigavano più spesso e più lontano di quanto si possa immaginare oggi.

Pertanto, da questo punto di vista, il motivo dei fiumi a duplice direzione conferma con la sua distribuzione l’omogeneità del gruppo [narrativo], nonostante la distanza geografica delle tribù. Si verifica anche per questa via la correlazione fra l’ideologia e l’infrastruttura.
Tuttavia, sull’asse temporale, questa infrastruttura non ha carattere equinoziale, perché le popolazioni nordamericane da cui provengono i nostri esempi vivono tutte tra 40° e 50° lat. Nord. Colpisce però il fatto che almeno quelle occidentali abbiano in comune coi loro vicini settentrionali, fino agli Eskimo compresi, una vera e propria ossessione della periodicità diurna e notturna, e di quella stagionale.

È il caso dei Chinook dell’estuario del fiume Columbia, degli Yurok e dei Karok a nord, dei Sahaptin e dei Salish della costa. Ma, rispetto a quelli sudamericani cui pur si avvicinano sotto tanti aspetti, i miti che provengono da queste popolazioni presentano una notevole differenza: non si tratta tanto di rendere la notte uguale al giorno, quanto di evitare che le loro rispettive durate non diventino uguali a quelle delle stagioni.
In altre parole, la disuguaglianza relativa del giorno e della notte è chiamata in causa meno della loro durata assoluta. Per contro, i miti evocano in maniera sistematica procedimenti magici che servono ora da acceleratori, ora da freni, ma sempre con la speranza di ottenere l’uguaglianza delle stagioni: per tutta l’estensione di un vasto territorio che va dal Circolo Polare Artico alla California, i giochi di spago intrecciato servono a rallentare il sole nella sua corsa, o rischiano di prolungare i mesi invernali che le partite di «bilboquet» debbono allora permettere di abbreviare.

Con gli intrecci di spago gli Eskimo della Terra di Baffin ritardano la scomparsa del sole; con il «bilboquet» affrettano il suo ritorno. I Sanpoil credono di abbreviare l’anno quando giocano a «bilboquet» d’inverno. In klamath, fare un colpo a «bilboquet» si chiama «accecare un occhio del sole»; i Modoc, vicini e parenti dei Klamath, fanno Goldenthal-intreccio-spagointrecci di spago per «uccidere la luna», cioè per abbreviare il mese invernale che sta trascorrendo in quel momento.
Gli Shasta giocano d’inverno a «bilboquet», «affinché la luna invecchi e l’inverno sia breve … Sempre d’inverno i bambini fanno intrecci di spago, ma soltanto durante la luna crescente … e per affrettare il suo cammino. Invece, quando la luna decresce, si gioca a bilboquet con le vertebre di salmone perché essa muoia prima» (Dixon).

Tutte queste operazioni, che si potrebbero definire «zoppicanti» perché da una parte abbreviano e dall’altra allungano, presentano dunque, nella prospettiva della periodicità stagionale, un equivalente positivo della piroga, la cui valenza, nella prospettiva della periodicità quotidiana, diventa negativa quando essa «zoppica»: cioè quando il tragitto è più lungo in una direzione rispetto all’altra.

Formulato in termini spaziali, il paradosso equinoziale corrisponde dunque a quel paradosso solstiziale che tribù molto distanti l’una dall’altra formulano in termini temporali. Nonostante la diversità dell’ambiente, tutte queste tribù conservano un’ideologia comune: da una parte attraverso operazioni speculative ispirate da cognizioni tecniche (l’arte della navigazione), dall’altra attraverso operazioni tecniche (di cui fanno parte anche i giochi) per scopi, è superfluo dirlo, destinato a rimanere puramente speculativi.
Infatti, non è possibile, sotto latitudini settentrionali, uguagliare la durata delle stagioni, come è impossibile che i fiumi scorrano in duplice direzione.

Nel pensiero degli Indios sudamericani, i miti prendevano come punto di partenza la periodicità quotidiana, la quale si fonda su un’esperienza vissuta della mediazione. Nello stesso tempo, i miti si sforzano di risalire a una assenza di mediazione la cui nozione è del tutto teorica, benché possa essere concepita secondo due modalità distinte. È infatti Gasparian-intreccio-spagopossibile, secondo i casi, scegliere l’ipotesi che all’origine dei tempi regnasse soltanto la notte oppure soltanto il giorno.
Ora, questa prevalenza della notte e questa prevalenza del giorno non si equivalgono da un punto di vista logico: sull’asse temporale, la prima corrisponde a una disgiunzione del sole e della terra, l’altra alla loro congiunzione.
Proiettandosi sull’asse spaziale, la stessa configurazione acquista una portata sociologica: secondo la distanza ideale che ogni società desidera mettere fra i futuri sposi, prima che il matrimonio li unisca essi saranno più o meno vicini l’uno all’altro, cioè relativamente congiunti oppure disgiunti.

Due miti guayanesi confermano questo legame.
Il primo mito (degli Arawak) afferma che il sole e la luna erano un tempo personaggi umani che tenevano la luce imprigionata in un cesto. Il sole voleva sposare un’india, ma era così alto che non poteva scendere; dovette dunque salire la ragazza. Appena arrivata, essa si affrettò ad aprire il cesto, e la luce si diffuse.
L’altro mito, di provenienza Kalina, racconta che il sole, signore della luce, fu costretto a diffonderla per sorvegliare meglio la moglie che lo ingannava. «Così egli diventò il sole visibile, che da quel momento avrebbe determinato l’alternarsi del giorno e della notte … Se non ci fosse stato il peccato, non sarebbe esistita la notte ma solo una luce perpetua».

(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)

***

I bambini Shanta giocavano a uccidere la luna, dei nostri noi diciamo che giocano ad «ammazzare il tempo».
A «morire» è il tempo lasciato scorrere senza memoria né intelligenza, il tempo inconscio, il tempo – direbbe Lévi-Strauss – dell’infrastruttura, il tempo delle «sintesi passive» che – a dire di Deleuze – popolano la Terra di Fondazione del nostro Logos. O se preferisci: le rapide e le cascate che rendono così disagevole il viaggio in piroga, specie sulla via del ritorno.

Munch-gelosia

Se non ci fosse stato il «peccato», se il Sole non fosse stato così «geloso» (l’abbiamo sentito dire anche a Ovidio), ci toccherebbe vivere soltanto un «tempo morto»: solo un Passato annegato nelle acque immacolate della sua purezza, del tutto inconscia.
Se il mondo non fosse sghembo, se vivesse tutto e sempre immerso nella sua eterna «immediatezza», non staremmo qui a copulare e riprodurci ideologicamente, così come la remota infrastruttura, a nostra insaputa, continua a dettarci.

Se ci detta qualcosa, è la sua «contraddizione originaria», la sua «doppiezza» necessaria, il suo «ambiguo» co-estendersi sul doppio asse spazio-temporale.
E il nostro «ideologico», quanto più ci crediamo lontani da ogni ideologia, tanto più fedelmente obbedisce alla schizofrenia logica dell’infrastruttura che ci governa il pensiero e la parola, la memoria e l’intelligenza, e le relative «sintesi attive».

I bambini tornano più facilmente ad «ammazzare il tempo» di quanto riesca a noi – solo perché essi risentono più fortemente il richiamo del loro Oblio, del loro Passato Puro. Ci sono più vicini, soprattutto quando giocano, ma anche quando si lasciano andare alle loro «distrazioni».
Noi, intanto, noi che, invece del tempo, siamo usi ad ammazzare piuttosto le persone, noi adulti, cresciuti e pasciuti all’ombra della mediazione, facciamo tanta fatica a resistere al sedia-musicalefascino dell’Immediato.

Noi siamo, ormai, imbarcati nel viaggio lungo il Fiume dei miti – ma sempre a caccia o a pesca di mediazioni, di simboli, di proiezioni, di rappresentazioni di un viaggio che però non viaggiamo più come una volta.
Bisogna saper ammazzare il tempo per vivere nell’immediatezza spontanea e nella dimenticanza. E, c’è da scommettere, ci saremmo riusciti se non fossimo, come il Sole, così gelosi.

È per via della «gelosia», infrastruttura appiccicata a ciascuna delle parole pronunciate dalla nostra lingua, che noi il tempo non siamo più riusciti, a un certo punto, ad ammazzarlo come al solito.
Ed eccoci dunque a viaggiare lungo il Fiume che solo nel Racconto scorre in entrambe le direzioni: solo nella teoria, il Fiume va da una mediazione reale, vissuta – quella temporale: l’alternanza del giorno e della notte, della luce e delle tenebre – alla ricerca di una immediatezza teorica; ma anche, all’incontrario, da una non-mediazione reale, vissuta – quella spaziale: un’identica distanza che però richiede tempi diversi per la sua percorrenza – in cerca di una mediazione simbolica.

Anche se si tratta di cammini inversi – dalla mediazione vissuta all’immediato teorico, e dall’immediatezza reale al mediato simbolico – poiché è una stessa Piroga, una stessa Logica, a percorrerli, deve per forza esserci tra loro una simmetria.
La simmetria è che entrambi sono logicamente concepiti come il «dopo» di uno stato iniziale opposto. Invece dell’alternanza reale del giorno e della notte – il Mezzogiorno di un Sole ideale sempre allo zenit, o una Notte Eterna. Invece dell’«identità» reale di un unico Fiume che scorre – due correnti parallele che scorrono idealmente l’una in senso opposto all’altra.

In entrambi i casi, se ci rifletti, il cammino è dal Presente al Passato. Anzi, è il cammino di un Presente alla volta del suo Passato. Di un Passato che il Presente attuale può solo «pensare», non più «vivere». E può pensarlo solo provando a invertire Se Stesso. Solo negandosi alla sua Presenza, ovvero solo a condizione di riconoscere d’essere vissuto realmente in un Passato senza Presente. E di fondarsi su di esso.

bilboquet
Bilboquet

Ma se quel Passato non è mai stato Presente a Se Stesso, non nel modo a cui è Presente tuttora, come ricostituirlo? come farcene un’idea?
Se quel Passato è la nostra oscura «preesistenza» che sempre ci accompagna, in quanto fondamento su cui si regge il nostro Presente, il Presente cosciente di passare, insomma: se quel Passato viaggia ancora assieme a noi, a bordo della nostra stessa Piroga – come possiamo noi penetrare nell’Enigma della sua purezza, se non ripulendola teoricamente delle sporcizie della nostra gelosia? Se non riconoscendo che le sue sono macchie di gelosia?

Non abbiamo, da un punto di vista logico, che questa chance: fare in modo che i poli di ciascun asse narrativo, quello che narra del vissuto e quello che narra del pensato, siano tra loro corrispondenti ma non equivalenti.
Possiamo escogitare, è vero, una «corrispondenza» del Sì e del No. Solo che a dire Sì si fa presto, mentre a dire No a chi hai detto Sì ci vuole tempo, molto tempo – anche se la loro distanza reciproca è la stessa.

A spingerci in questa ricerca delle simmetrie emerse dalla catastrofe del nostro Passato Puro, è l’«ideologia» che ci detta l’infrastruttura nata doppia, storta dalla sua «solare» gelosia.

La ricorrenza, in regioni del mondo tra loro lontane e in società profondamente differenti, di forme di parentela, regole di matrimonio, atteggiamenti ugualmente prescritti tra certi tipi di parenti, ecc., induce a credere che, in entrambi i casi, i fenomeni osservabili risultino dal gioco di leggi generali ma nascoste.
(Lévi-Strauss, Antropologia strutturale)

Le leggi generali del «non desiderare la donna mia», le leggi nascoste del nostro «appetito», ci modellano a loro immagine e somiglianza: la loro «doppiezza» infrastrutturale è la Matrice dell’ideologia e delle regole di convivenza sociale, perfino di società tra loro distanti e le cui «condizioni ambientali» sono solo parzialmente assimilabili (la vita fluviale, la vita passata a pagaiare nel Fiume). Le diversità ambientali non pregiudicano il ricorso alla stessa ideologia (alle stesse regole nuziali, alle stesse norme della parentela, ecc.): non importa se ci troviamo a vivere all’equatore o al polo nord – la nostra ideologia obbedisce alla gelosia, e per nascondersela le basta solo uno spostamento del suo paradosso da una latitudine all’altra.
Più precisamente, l’ideologia non fa che spostarla dallo zenit immobile da cui s’irradia la sua Realtà Immediata, sullo Zodiaco delle dodici perplessità che il Sole visibile incontra sul suo cammino «zoppo». Indifferentemente ai solstizi e agli equinozi, è sempre la stessa (incognita Maestà) Gelosa di se stessa.