Al tempo delle nevi e del vin cotto della mia infanzia dodicenne, bambino-bambina, quale vacanza-premio, ero dai miei tradotto dai «campi» a Lecce – ché la domenica, ai gesuiti del Collegio Argento, si celebrava in rosso –.
Oh, la gran bella trascurata casa della zia Raffaella, col suo vario giardino di fichi giganteschi e melograni, e i peschi sul terrazzo dell’entrata; pesche rotonde e pese come bilie, rosso sangue dentro e fuori del frutto. E il profumo rampicante dei gelsomini, così intenso che noialtri ragazzini – mia sorella e tre altri cuginetti – si dormiva a finestre ben serrate.
La zia, maestra elementare a Maglie, era il rimpianto in vestaglie velate a fiori, persuasa com’era dell’aver immolata la sua quasi artistica «sensibilità» al ripiego della famiglia.
Testimoni di quel suo perpetuo e assai nervoso recriminare: un pianoforte nero a coda, stonatissimo, dentro il vuoto salone ripetuto da specchio-impero; e, nella stanza da pranzo, una bacheca polverosa di parsimoniosi scaffali, vuoti loculi dei tomi mai sepolti o, se pure, via via smarriti. E, strana, in questa miniatura alessandrina dell’ignoranza santa, quasi lì a profanare l’universo della dottrina assente, strana davvero sonnecchiava autunna la quasi omnia in sbilenchi e disossati volumetti opera di Bibi Shakespeare nella sua prima edizione UTET.
Come, del resto, appiè della specchiera, nel salone della musica, ammucchiate, riposavano le partiture per canto e pianoforte di Tosti, del Toselli e tanto Verdi. Certi tramonti, è vero, non torneranno più, ché appena il disincantato adolescente alza dal pavimento dell’infanzia il suo volto confuso, ha già negli occhi l’ultimo tramonto.
«Sei stonato», si stizziva il fantasma di mia zia che a tutti i costi mi accompagnava al piano.
«Non so che farci».
E allora canticchiava lei. Eravamo in tanti fuor della grazia dell’intonazione: noi due e, nessuno escluso, i tasti gialli e neri.
Tacevo e, mentre lei si disperava al suo «caro ideale» che non tornava più, sgattaiolavo nella stanza-Stratford, e, troglodita, leggevo in sacrosanta incomprensione i versi dell’Apemanto in Timone d’Atene, il primo amore di poesia-teatro al mio sguardo.
Ho detto «incomprensione», e solo adesso la vita m’ha insegnato che nient’altro ci serena nell’adulto travaglio sia o no artistico, sia o no «pensoso» – non gli accordi d’amore, non le prove rare dell’amicizia, non le attenzioni che puntualmente bistrattiamo; non gli assensi e le cure del «reciproco», le «intese», eternamente disilluse – nient’altro a questo mondo ci è conforto quanto l’incomprensione, patetica, un po’ goffa, di chi ci vive accanto. Assidua.
Come potremmo altrimenti sopravvivere a più lustri d’amore «costante», alle stagioni alterne degli umori cangianti nei decenni d’una sola giornata, ai litigi, alle tregue, al maquillage nevrotico, all’andare e venire nella stanza del tempo lento e breve della pur temperata intollerabile intolleranza; se lei, l’incomprensione, mai invocata, non vegliasse con noi e su noi?
Che sarebbe dei nostri progetti, se, subito «compresi» dal prossimo nostro, venissero esauditi, realizzati prima d’essere stati intrapresi? Che ne sarebbe della nostra vita, se già vissuta?
Ecco che quel mio modo stupito d’intraleggere Shakespeare, oltre il senso mediato, si felicitava, inconscio, con la mente mia bambina che da quel testo era così pensata, sillaba dopo sillaba, parole, una per una, due tre insieme, demotivate, in sé e per sé sovrane, verticali fuocherelli fatui, impotenti a disporsi dentro i ranghi-sequenza della frase.
Non che mi lusingasse, inconsapevole allora, certa candida vena oratoria propria dell’enfasi e di quella seriosità immancabile nel vaniloquio infantile. Dicevo, come senza il viluppo del concetto, si schiudevano a sera i fiori bianchi, luminescenti dei gelsomini sul verde sciolto in nero delle siepi, e vanivano i muri della casa, se veduti dall’orto, al primo accendersi interno delle lampade.
Leggevo a mezza voce, proprio per niente mortificato di non capirci niente; parole, suoni, naturalmente nomadi come lassù le stelle, qua e là in cielo disposte, compitate a grumi, ma rare a fronte le miriadi altre lacrime disperse.
«Il significato è un sasso in bocca al significante». Ci sono infanzie così precoci? E allora non bisognerebbe crescere, dolce la mia compagna (in)comprensione.
Ma tant’è, se cominciano le doglie giovanili del vecchio Werther che si suicida pur di non regredire, là quando la sua Lotte non l’aveva neanche conosciuta.
Si cresce. E a scuola, e per l’appunto nell’ora di «poesia», t’insegnano a ricondurre in vieta prosa il delirio infantile d’un verso. Ti si richiede un «rigore» frastico quotidiano; con l’alibi d’accertare se «comprendi» quanto stai declamando, è in realtà la libertà del verso che s’intende ridimensionare a squallido commento. Il «che significa» usurpa la sovranità del «come è detto».
Da qui la «storia» della poesia soppianta i versi «sudati» senza storia. Eh, già, la «tradizione», intesa sempre non come ciò che fu quand’era in vita, ma come si presenta ora, da morta. E questo non fu mai – s’era pur vivo – si dà per certo. Si esorcizza il passato defraudandolo del presente che fu.
Tale e quale cimitero bigotto è riservato ai «classici» anche in scena. Chi assicura, demente, il riesumarli e intatti restituirli all’oggi, è onorato intelletto, in odore garante ossequio e devozione filologica, imbecille!
E chi, al contrario, innamorato pellegrino di tutto ciò che è (ed è già impossibile), che è stato, se ne rianima, scongiurandone la mortalità rassicurante, e quei gesti e suoni morti resuscita e riscrive a dispetto della polvere, e nel riscrivere esibisce intiero il suo proprio disagio d’esserci; sì, costui è considerato un brigante, profanatore del patrimoniale universo cimitero; ladro.
Chi, con l’ossame del tempo andato, museifica il presente, è persona «attendibile», «seria».
L’indisciplina, invece, di colui che, incurante dei secoli, vive al presente quel che presente è stato, è «untore» o scapigliato bricoleur, nel più benevolo dei giudizi.
Che ne è poi, figuriamoci, di chi non sa chi sia e pur si cimenta in ciò che non si sa che è stato. È il «caso mio».
La scena della mancanza, che non vuol dir non esserci, ma di questo s’affanna e disincanta, nel denunciarsi fuori d’ogni «ruolo». Il resto che m’attornia è la sfrontata, recidiva latitanza, masticatrice di cadaveri, retorica, oratoria – il fiato lezzo della cadaverina, appunto –, ostentata e ingombrante vitalità. Esuberanza tonda del com-passo generale di massa.
Ne sono certo: quando tra qualche secolo (niente majakovskiani vittimismi) leggeranno i viventi queste mie chiose, mi sentiranno tra loro (soprattutto gli assenti).
Ma voi, vivi a casaccio, che sputate sulla vita che è stata; voi, interpreti arroganti (non solo del passato putrefatto, ma del [non più] presente codificato), voi non sarete mai.
Solo è chi manca, e perciò ritorna.
Ma torniamo al mio Will bambino-ina, mentre la zia sui tasti neri e gialli smaniava gracidante-ispirata del suo «caro ideale» che non le tornava, al profumo dei fiori.
Quel tacere mentale spensierato dei suoni; quell’ignoranza innocente della «trama» che nessuna curiosità sollecitava; quel non staccare i toni, sia che a parlare fosse questo o quel ruolo di scena, somigliava la musica verdiana – tutta patria famiglia nei libretti – ma più bella, men bella, incomprensiva delle «storie», a dispetto dei «buoni» e dei «cattivi».
«Oh terra addio!» esagerava di là zia Raffaella-Aida, mentr’io elogiavo la morte di Timone.
D’accordo, era eccessivo, inconcludente. Sissignori, ci vuole una struttura, un rigore, sì, ma niente affatto immemori di quel nostro concertino sconclusionato in due stanze diverse del cervello e dei sensi narcotizzati dai gelsomini.
V’era un’incomprensione – testuale – più profonda e felice d’ogni «saperla lunga» avvenire. Che importava di Verdi, Tosti, Shakespeare? Nemmeno loro furono se stessi. C’era quanto mancava, in quel tramonto.
Ciò che conta in me attore sulla scena, oggi, è che la fine «studiata» si ricordi d’essere tale solo in quel principio. E dimentichi.
Ci si recita addosso il Will ch’è in noi. È lui che deve arrangiarsi al vaniloquio che ci nomina. È così che si shakera il suo Will che è stato. Adattarci a lui che fu, riferendone i versi, nell’«ammodernamento» dei «conflitti», è rifiutare a lui la scena d’oggi, e a noi la vita del suo passato.
(Bene, Sono apparso alla Madonna)