L’ispirazione è definita nel Webster’s Dictionary come «un influsso sovrannaturale che rende gli uomini atti a ricevere e a comunicare verità divine». Questo lo dice la parola stessa, che implica la presenza di uno «spirito»-guida distinto e pur tuttavia «interno» all’agente che è in-spirato, ma che certo ispirato non è se «esprime se stesso».
Prima di procedere oltre, dobbiamo eliminare ogni malinteso mostrando l’abuso indecente che della parola «ispirare» hanno fatto gli autori moderni. Scopriamo per esempio che «un poeta o un altro artista può farsi ispirare dalla pioggia» (H. J. Rose). Un uso tanto perverso delle parole preclude allo studente la possibilità di venire mai a capo di che cosa realmente volessero dire gli autori antichi.
Abbiamo detto «uso perverso» perché la pioggia non è in noi, come non lo è alcuna cosa percettibile ai sensi; né è la pioggia una sorta di spirito.
Il razionalista ha il diritto di non credere all’ispirazione e di non tenerne conto, cosa che può fare agevolmente se considera l’arte soltanto dal punto di vista estetico (delle sensazioni), ma non ha alcun diritto di pretendere che uno possa essere «ispirato» dalle percezioni sensoriali, da cui, in realtà, si può soltanto essere «affetti», e a cui si può soltanto «reagire».
Invece, l’espressione cara a Mastro Eckhart, «ispirato dalla sua arte», è perfettamente corretta, dato che l’arte è un genere di conoscenza, non qualcosa che si possa vedere, ma affine all’anima e anteriore al corpo e al mondo. Possiamo perciò con ragione dire che non solo «Amore», ma anche «Arte» e «Legge» sono nomi dello Spirito.
Qui però non c’interessa il punto di vista del razionalista, c’interessano solo le fonti da cui possiamo apprendere in che modo spiegava l’operazione dell’artista una tradizione che dobbiamo comprendere se vogliamo comprenderne i prodotti.
Qui si ritiene che sia sempre lo Spirito a ispirare un uomo: «il demone mi soffiò nel cuore che cominciassi a tessere», dice Penelope (Omero, Odissea, 19: 138). Esiodo ci dice che le Muse «soffiarono in me una voce divina … e mi ordinarono di cantare la stirpe degli dèi beati» (Teogonia, 31-32). Cristo, «per mezzo di cui tutto è stato fatto», non rende testimonianza a (non esprime) se stesso, ma dice: «Non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo» (Giovanni, 8: 28). Dante scrive: «I’ mi son un, che quando /Amor (Eros) mi spira, noto, e a quel modo / ch’ei ditta dentro, vo significando» (Purgatorio, 24: 52-54).
Infatti, «una vera arte della parola senza essere connessa alla Verità non esiste» (Platone, Fedro, 260e). E chi («quale sé») è che dice la «Verità che non può essere confutata»?
Non quest’uomo, Tal dei Tali, Dante o Socrate, o «io», ma la Sinderesi, lo Spirito Immanente, il Demone di Socrate e di Platone, colui «che vive in ciascuno di noi» (Timeo, 69c) e «di nulla preoccupato se non del vero» (Ippia maggiore, 288d). È il «Dio stesso che parla» quando non pensiamo i pensieri nostri, ma siamo i Suoi interpreti, o sacerdoti.
E così Platone, padre della sapienza europea, domanda: «Ma non si sa anche che nella pratica delle arti l’uomo che ha avuto questo Dio [Eros] per maestro diventa rinomato e illustre, ma chi non è stato posseduto da Eros rimane oscuro?» (Simposio, 197a).
Questo si riferisce in particolar modo ai divini iniziatori del tiro con l’arco, della medicina, e della divinazione, della musica, della lavorazione dei metalli, della tessitura, e dell’arte del nocchiero, ciascuno dei quali era «discepolo di Eros».
Platone intende ovviamente «l’Eros cosmico» che armonizza le forze opposte, l’Amore che agisce per ciò che possiede e per generare se stesso, non l’amor profano che è privazione e desiderio.
Sicché, l’artefice di qualunque cosa, se ha da esser chiamato creatore, deve nei suoi momenti migliori essere il servo di un Genio immanente: non lo si deve chiamare «un genio», ma un «ingegnoso»; non lavora da o per se stesso, ma attraverso e per un’altra energia, quella dell’Eros Immanente, del Sanctus Spiritus, fonte di ogni «dono».
«Tutto ciò che è vero, da chiunque sia stato detto, ha origine dallo Spirito», dice sant’Ambrogio (ad 1 Corinzi, 12: 3).
Possiamo ora, forse con minor pericolo di fraintendimenti, prendere in esame il più lungo passo platonico relativo all’ispirazione.
«È un divino potere che muove» anche il rapsodo o il critico letterario, in quanto parla bene, pur essendo soltanto l’interprete di un interprete. L’autore e l’interprete originale, se è un imitatore di realtà e non di pure apparenze, «è abitato e posseduto dal Dio … una sostanza leggera, alata e sacra; non sa poetare se prima non sia rinato dal Dio che è in lui, se prima non sia uscito di senno, e più non abbia in sé intelletto; ogni uomo, fintanto che conserva quel possesso, è incapace di produrre o d’incantare … Gli uomini che priva dell’intelletto, Dio li usa come ministri … ma è lo stesso Dio che parla, e che per mezzo loro c’illumina … Gli artefici non sono che Suoi interpreti secondo il modo in cui sono posseduti» (Ione, passim).
È soltanto dopo essere tornato in sé da quella che in realtà è un’operazione sacrificale, che l’artefice esercita la propria capacità di giudizio; in primo luogo per «saggiare se gli spiriti vengono da Dio», e in secondo luogo per saggiare se la sua opera è conforme a ciò che ha visto e udito.
La cosa più significativa che subito emerge da questa profonda analisi della natura dell’ispirazione è la funzione sacerdotale, di ministro, attribuita all’artista.
L’intenzione originale delle forme intelligibili era non di divertirci, ma, letteralmente, di «ri-memorarci». Il canto non cerca l’approvazione dell’orecchio, né il dipinto quella dell’occhio (quantunque questi sensi possano imparare a riconoscere lo splendore della verità, e divenire, una volta addestrati, del tutto affidabili), ma hanno tutti il fine di provocare quella trasformazione del nostro essere che è lo scopo di ogni atto rituale.
Di fatto, sono le arti rituali quelle più «artistiche», perché sono le più «corrette», come è necessario che siano se hanno da essere efficaci.
(Coomaraswamy, Il grande brivido)
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Spirito, demone, genio immanente, sinderesi … ovvero tutto l’armamentario a cui la Scolastica ricorreva per sostenere che ciascuno di noi ha l’intuizione immediata degli intelligibili (bene e male, innanzitutto), e che ciascuno ce l’ha per contatto o influsso diretto della sfera «divina» sulla sua intelligenza. Aggiungici perciò anche il «Padre» a cui allude Gesù, nonché l’Amor che ditta li «versi strani» a Mastro Dante, e perché no?, già che ci sei, finanche l’Arte, la Legge … ed ecco un bel fritto misto (vorrei dirlo con rispetto, ma non ci riesco), e un cuoco che si cura di friggerlo a regola d’arte, ovvero in olio platonico, di cui si raccomanda, lo dice lui, che sia olio extravergine, immune cioè dagli abbagli linguistici di una «modernità», nota bene, «razionalista».
Sembra di sentire il rantolo d’un vecchio chierico dell’Accademia: avrà pure imparato a memoria la lezione ascoltata dalla viva voce dell’Ipse dixit, ma – invece di salire a bordo della Piroga (cos’altro è Platone se non un nocchiero?) – lui preferisce fare gli scongiuri: non sia mai che qualcuno osi parlar male dell’«influsso sovrannaturale», di cui si fa garante l’etichetta dell’Enciclopedia britannica!
In parole povere: piuttosto che imbarcarsi in un viaggio da un capo all’altro del Fiume dei simboli e delle parole, in un viaggio, glielo concediamo, pieno di pericoli menzogne e fraintendimenti, lui che fa? si tiene stretto alla loro lettera, o perlomeno così crede, pur di non farsi trascinare chissà dove dalla corrente della «modernità».
Ecco un bel modo di dire, anche se chi lo dice crede di dire il contrario – un bel modo di dire che Platone è morto, e che quello che aveva da dire, è già tutto detto, e che si tratta solo, gelosamente, di custodirlo dagli attentati «razionalisti», di un Aristotele per cominciare.
Ho fatto un giro di parole. Vengo al dunque.
Il nostro caro Coomaraswamy non si rende conto di seppellire un platonismo già sepolto, quando traduce ἔνθεος con «ispirato», per poi da qui saltare tranquillamente allo Spirito (santo, ovviamente: ce n’è forse in giro un altro?). Se c’è qualcosa che si può imputare a questo suo modo di «custodire Platone», è proprio di tradire ciò che è convinto di mettere al riparo dagli agguati del pensiero moderno. Sta dicendo che Platone è così antico, talmente passato che per intendere al presente le sue parole, bisogna prima cristianizzarle! Grazie tante, ma ne faremo volentieri a meno di questo «ammodernamento»! è che ci saremmo aspettato il consiglio opposto: di farci noi «pagani», per accorciare le distanze dal Maestro.
Abbiamo già detto che l’unica traduzione «italiana» di ἔνθεος – l’unica, non la migliore! – è quella che ci suggerisce Dante a proposito del Serafino che «s’india», che sprofonda cioè nella contemplazione di «dio» (se lo scriviamo tra virgolette, è perché «dio» è, a sua volta, solo una vaga traduzione latina, nonché la tradizione apostolico-romana sovrascritta al greco θεός).
Tradizione che ci vieta, e qui cominciano le contraddizioni, di chiamare per esempio «divina» (θεία) un’entità come la Moira, ovvero la Signora della svolta, Madama la Sorte. E ancor meno, di arrogare un che di «divino» ai suoi umili, ma a volte infedeli, servi – usi a conservare le «soluzioni», invece degli «enigmi» e dei «problemi» conseguenti alla sua «dominazione».
È da qui che bisognerebbe ripartire. Bisognerebbe mettersi in viaggio lungo il Fiume Simbolico – facendosi domande, e non custodi di risposte. E a maggior ragione, quando si ha a che fare con Platone, con uno Straniero di duemila e cinquecento anni fa.
Che cosa poteva significare, allora, per un greco θεός? Questa dovrebbe essere la prima domanda, invece di affrettarsi a tradurlo con «dio». E che cosa ἔνθεος, invece di castrarlo nel nostro «ispirato»? E, ancora, che cosa Moira, e che cosa Demone, o Eros, solo per citare i più rinomati passeggeri a bordo della Piroga platonica?
Se non altro, per dare un minimo di senso a quel che, per bocca di Socrate, Platone stesso dice, allorché dice che sapiente è colui che sa di non sapere.
Sapiente è colui che, grazie a quel poco che s’illude di sapere, si reintroduce nella propria «ignoranza». Colui che ritorna sul proprio «inizio» analfabeta. Colui che non si va a nascondere dietro l’«efficacia simbolica» delle parole di cui, appresso ai chierici, ha preso l’abitudine di riempirsi la bocca. Colui che questa «efficienza simbolica» la indaga, parola per parola, e ne sorveglia gli «effetti» sulla propria (illusoria) sapienza.
È sapiente colui che non dice di credere ciecamente in «dio», ma piuttosto si domanda com’è che (anche a lui) questa Credenza – quale che essa sia – sia addirittura nata «cieca».
Proprio così – credere ciecamente cos’altro è se non una scommessa al buio? Cosa, se non un’avventura nel Paese degli indovinelli?
Chi crede, ha ragione Pascal, scommette – pari o dispari?
E allora se, pur credendo, è così sapiente da non sapere se indovinerà il più o il meno di ciò che gli è nascosto – a questa condizione, forse, potrà tornare ad ascoltare Platone e noterà che ogni suo «dire» è una scommessa giocata sul «non sapere» o, come diremmo oggi, sull’«inconscio».
Platone, da buon greco, scommette sul θεός. Su ciò a cui per un greco alludeva la parola θεός.
Apri il vocabolario, e leggi: θεός – da θεάομαι – vedere, contemplare, donde il «teatro», ossia il luogo in cui si mettevano in scena le pubbliche «visioni» e «apparizioni» del θεός: quelle che, a detta di Artaud, oggi sarebbero possibili solo facendo a noi stessi un atto di «crudeltà».
A cominciare dalla crudeltà di dirci che il θεός non rinvia al nostro «dio», ma piuttosto al «miraggio», al «vedere spettacolare», teatrale, con cui, uno per uno, siamo stati accecati al nostro Reale Remoto, e attratti da un invisibile Magnete a «uscire da noi stessi», per entrare in un altro mondo: nell’orbita di un Teatro, ossia di un Miraggio Collettivo, di Popolo, di Piazza – in una Cecità condivisa da un «insieme di scommettitori» e nel loro Passaparola che, a dispetto di quanto a parole proclama, tanto più si accanisce a disfarsi dell’antico e dei suoi enigmi, quanto più si arrocca nella sua difesa a oltranza.