L’intersoggettività non è tutto miraggio, ma guardare il vicino e credere che pensi ciò che pensiamo noi è un errore grossolano. È da qui che bisogna partire.
Vi ho mostrato i limiti di ciò che possiamo fondare sulla intersoggettività duale, facendo ricorso al famoso gioco del pari o dispari che, invece di inventarlo, sono andato a cercare in Poe – e non c’è ragione di non credere che egli l’abbia ricevuto proprio dalla bocca del bambino che vinceva a questo gioco.
Giocare non è così difficile. Il movimento più naturale è cambiare semplicemente da pari a dispari. Il tipo più intelligente farà il contrario. Ma in un terzo tempo, la cosa più intelligente è fare l’imbecille, o il presunto tale. Ossia tutto perde la sua significazione. Vi ho anche mostrato che per giocare ragionevolmente a questo gioco, bisogna cercare di annullare ogni presa dell’avversario.
Il passo seguente – ed è l’ipotesi freudiana – consiste nel porre che, qualsiasi cosa facciamo con l’intenzione di farla a caso, non la facciamo a caso.
Vi ho costruito alla lavagna ciò che ai giorni nostri si chiama macchina. Essa potrebbe estrarre la formula che può sempre essere estratta in ciò che un soggetto tira fuori a caso, e che riflette in qualche modo l’automatismo di ripetizione, in quanto è al di là del principio di piacere, al di là dei legami, dei motivi razionali, dei sentimenti cui possiamo accedere.
Agli inizi della psicoanalisi, questo aldilà è l’inconscio, in quanto non possiamo raggiungerlo, è il transfert in quanto è veramente ciò che modula i sentimenti di amore e di odio, che non sono il transfert – il transfert è ciò grazie a cui possiamo interpretare questo linguaggio composto da tutto ciò che il soggetto ci può presentare, linguaggio che, al di fuori della psicoanalisi, è, in linea di massima, incompleto e incompreso. È questo l’aldilà del principio di piacere. È l’aldilà della significazione. I due si confondono. […]
La semplice possibilità di far giocare un soggetto con una macchina è già abbastanza istruttiva. Questo non vuol dire che la macchina possa trovare la ragione delle mie visioni. Vi ho detto che la formula personale può essere lunga come un canto dell’Eneide, ma non è detto che un tale canto ci darebbe tutte le significazioni. Se già trovassimo delle rime, saremmo sicuri di essere in presenza dell’efficacia simbolica.
Questo termine, utilizzato da Claude Lévi-Strauss, lo uso qui a proposito di una macchina. Si può pensare che l’efficacia simbolica sia dovuta all’uomo? Tutto il nostro discorso qui lo mette in discussione. La questione del resto sarebbe risolta solo se potessimo aver idea di come il linguaggio sia nato – cosa che, per lungo tempo, dobbiamo rinunciare a sapere.
Di fronte a questa efficacia simbolica, si tratta oggi di mettere in evidenza una certa inerzia simbolica, caratteristica del soggetto, del soggetto inconscio. […]
Il simbolo sorge nel reale a partire da una scommessa. La nozione stessa di causa, in ciò che comporta di mediazione tra la catena dei simboli e il reale, si stabilisce a partire da una scommessa primitiva – sarà così o no?
Non per nulla la nozione di probabilità viene al centro dell’evoluzione delle scienze fisiche, come mostra l’epistemologia nel suo sviluppo attuale, e non per nulla la teoria delle probabilità riattualizza una serie di problemi che, attraverso la storia del pensiero, per secoli, sono stati alternativamente posti in evidenza e occultati.
La scommessa è al centro di ogni questione radicale che concerne il pensiero simbolico. Tutto si riconduce al to be or not to be, alla scelta tra ciò che verrà fuori o no, alla coppia primordiale del più e del meno.
Ma presenza e assenza connotano assenza o presenza possibili. Il soggetto viene all’essere a causa di un certo non-essere su cui innalza il suo essere. E se non è, se non è qualcosa, evidentemente è di qualche assenza che testimonia, ma resterà sempre debitore di questa assenza, voglio dire che dovrà farne prova, non potendo far prova della presenza.
Ecco ciò che dà il giusto valore alla concatenazione dei piccoli più e piccoli meno che abbiamo allineato su un foglio di carta in diverse condizioni sperimentali. L’esame dei risultati raccolti ha un valore concreto, quello di mostrare certe deviazioni dalla curva delle vincite e delle perdite.
Come si è visto l’ultima volta, giocare è perseguire in un soggetto una regolarità presunta che si sottrae, ma che deve tradursi nei risultati in un niente di deviazione dalla curva delle probabilità.
È appunto ciò che tende a stabilirsi nei fatti, mostrando che per il solo fatto del dialogo, anche il più cieco, non c’è puro gioco del caso, ma già articolazione di una parola con l’altra. Questa parola è inclusa nel fatto che, anche per il soggetto che gioca da solo, il suo gioco ha senso solo se annuncia in anticipo ciò che egli pensa che uscirà.
Si può giocare da soli a testa o croce. Ma dal punto di vista della parola, non si gioca da soli – c’è già l’articolazione di tre segni, che comporta una vincita o una perdita, su cui si profila il senso stesso del risultato.
In altri termini, non c’è gioco se non c’è questione, non c’è questione se non c’è struttura. La questione è composta, organizzata, dalla struttura.
In se stesso, il gioco del simbolo rappresenta e organizza, indipendentemente dalle particolarità del suo supporto umano, quel qualcosa che si chiama un soggetto.
Il soggetto umano non fomenta questo gioco, vi assume il suo posto, e vi gioca il ruolo dei piccoli più e dei piccoli meno. Lui stesso è un elemento in questa catena che, appena si snoda, si organizza secondo leggi. Così il soggetto è sempre su più piani, preso in reti che si incrociano.
Qualsiasi cosa di reale può sempre uscire. Ma una volta costituita la catena simbolica, appena avete introdotto, in forma di unità di successione, una certa unità significativa, non può più uscire qualsiasi cosa.
(Lacan, Il Seminario: 2)
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Primo tempo (del grullo) – cambiare semplicemente da pari a dispari.
Secondo tempo (dell’intelligente) – non cambiare, ma replicare la mossa.
Terzo tempo (del super-grullo) – essere così intelligente da fare il grullo in sommo grado, e cioè … tanto vale tirare a indovinare a caso – lasciare cioè decidere alla Sorte: alla «divina Moira», come la chiama Platone. Meglio lasciare che sia essa ad assegnarmi un posto nella Catena magnetica dei suoi «affascinati».
Se essa è «divina», lo è nel senso che viene ad attribuirle Freud: è «divina» perché ha il suo codice segreto: «qualsiasi cosa facciamo con l’intenzione di farla a caso, non la facciamo a caso». Non così a casaccio come crediamo, perché dietro il Caso a cui affidiamo la sequenza delle nostre risposte, si cela una Regola – la regola aurea degli automatismi di ripetizione.
Se perciò mettessimo una macchina a registrare l’ordine delle nostre risposte casuali, e analizzassimo poi i suoi diagrammi, scopriremmo la Formula Magica del nostro incantesimo. La macchina, dice Lacan, troverà sempre un modo per estrarla: dall’apparente disordine casuale estrarrà comunque una ripetizione, un’onda che ritorna, più o meno periodica, punto e a capo.
Non c’è disordine a cui la macchina non sia capace di sottrarre un ordine. Per quanto lungo possa essere il diagramma delle risposte casuali, per quanto vasto il caos della loro successione, di sicuro la Macchina elaborerà una Formula. Magari sarà più logorroica di un canto dell’Eneide, dice Lacan, o – perché no? – tutta intera una Commedia. Non importa, la macchina ne porterà lo stesso allo scoperto la segreta «divina» ricorrenza.
L’abbiamo dunque trovato il quod al di là delle Simplegadi – abbiamo trovato l’aldilà del principio di piacere, dice Lacan. Abbiamo trovato l’«istinto di morte». L’abbiamo trovato là dove esso ritorna e si ripete. L’abbiamo trovato nell’automatismo delle sue «magnetiche» ripetizioni. Nei suoi «punto e a capo», nei suoi «si ricomincia», nei suoi «ritornelli», i soli (si badi bene) che danno slancio vitale alla curva della nostra vita.
Al di là dei legami, dei sentimenti e delle ragioni – al di là della coscienza, al di là di ogni nostro (presunto) sapere … ecco perché, in principio, lo si è chiamato inconscio, in quanto irraggiungibile vello d’oro del nostro essere «animali simbolici». Cioè a dire: animali che hanno la vocazione a rispondere alla chiamata del Magnete – cuccioli che amano giocare agli indovinelli, giocatori che si divertono a scommettere sul proprio destino.
Al di là di ogni sapere … e dunque: al di là di ogni significazione. Questa è la Colchide del Racconto: l’originaria insensatezza dei segni, il loro puro uso ludico, la loro libera attitudine alla sola … pazziella. O, come dice Lacan, alla scommessa: pari o dispari? più o meno? sì o no?
Il logos della logica, la Parola del sapere, la Parola che porta memoria delle sue dicerie, viene dopo. L’intelligibile subentra in un secondo tempo. Il primo tempo è del Grullo – dell’Idiota, dello Stolto che vuole solo pazziare, e che non ha niente da dire, niente ma proprio niente da significare, se non, alla lontana, la sua volontà di vello, la sua «velleità» giocosa.
Datemi una macchina: voglio giocare! Voglio connettermi al Gioco dell’Oca!
Sappiamo quello che si dice in giro dell’Oca, sappiamo che la si usa come sinonimo di Stupidità. Solo che ci si scorda un piccolo particolare: che l’Oca è la Signora del Terzo Tempo, non è semplicemente grulla, scema (e bella), ma è super-grulla, super-imbecille, e perciò la più Intelligente – voilà: Medea. E insieme la più bella: Elena, Elena di Troia (e come disse Totò: Troia, questo nome non mi è nuovo! e come poteva essere diversamente, se Troia è la più Vecchia del Racconto?).
Il semplice fatto che c’è una Vecchia Città, vuol dire che c’è una Potenza Magnetica che tiene assieme dei «cittadini». Il semplice fatto che c’è la Nave Argo, assicura che ci sono in giro nei nostri mari, finanche in quelli più lontani, degli Argonauti che giocano ai pirati. E il semplice fatto che io sto in questo momento scrivendo a macchina, vuol dire che c’è nell’aria che mi volteggia intorno, anche se non la vedo, l’Oca della Parola.
Se abbiamo costruito una macchina che «parla, scrive e gioca» con noi, è la prova – se ce ne fosse ancora bisogno – che la Parola ha trovato una via per automatizzarsi, che ha trovato una formula per «dialogare» con noi, e che questa formula, di cui noi le abbiamo dettato la struttura, essa la può estendere molto più in là, e molto più rapidamente, dei tempi della nostra intelligenza.
La macchina ha però un limite: è troppo intelligente per passare al Terzo Tempo, per fare fino in fondo la parte dell’Oca.
Perciò essa potrà scrivere e giocare con le mie emozioni e con le mie ragioni, ma sempre e soltanto in modo intelligente, sempre a fare i conti e registrare la successione delle mie risposte, ma mai si concederà, come solo l’Oca sa concedersi, a fare oltraggio alla sua memoria e alla sua intelligenza.
Anche se le chiedi di tirarti fuori dei numeri random, essa continuerà a obbedire alla struttura che vi è stata programmata. Sicché, proprio essa, l’Automatica, mancherà di quell’automatismo di ripetizione che è tutto e solo «umano». Lo imiterà, ma non l’incarnerà – perché essa non «vede» i miraggi dei miei «punto e a capo», è indifferente all’insensatezza delle ragioni profonde del Gioco a godere, è indifferente alla «cecità» delle mie svolte «super-grulle».
Quand’anche ricostruisse tutto intero il canto dell’Eneide – che è, nell’ipotesi di Lacan, la Formula delle mie ripetizioni – non ne saprebbe però mai il «duende», dal momento che il loro «da dove» è al di là della significazione intelligente, al di là di ogni memoria. Più arcaico, più oscuro. Tutto e solo ludico. Niente a che vedere con la Logica.
Lacan, riprendendo qui un’espressione cara a Lévi-Strauss, parla di «efficacia simbolica». I simboli, s’intende, sono efficienti – producono, generano, riproducono e rigenerano il loro magnetismo.
Ora, però, il punto è che questa efficacia simbolica – la «potenza magnetica» capace di attrarre sempre nuovi anelli nella Catena Simbolica – lo dice Platone e lo conferma Lacan, è della Macchina, è del Dio, e non dell’Uomo.
Finché non risponde alla chiamata della Sorte, finché una seconda e una terza e chissà quante altre volte non abbocca ai suoi ripetuti richiami, finché non entra nel Reame del Dialogo, non c’è un giocatore «umano». Non c’è Tizio né Caio né Sempronio. Nessuno c’è, prima che Ulisse entri in chiacchiere con Polifemo.
È la Macchina Dialettica (questa vince, questa perde), la Macchina delle Scommesse, a «creare» umanità.
Non importa su che cosa, per caso, scommetti. Non importa a quale anello ti «ispiri», né a quale profezia ti aggrappi: se come Pascal scommetti sull’esistenza di Dio, o se come un qualunque giocatore d’azzardo ti giochi tutto sul Ronzinante di don Chisciotte.
Tu scommetti sulla tua previsione di futuro, sulla tua attitudine profetica. Ma sì, anche se non vuoi ammetterlo, presumi pure tu di essere un indovino.
Perciò hai abboccato alla provocazione: pari o dispari? E perciò, ci scommetto, pure tu hai rimesso il tuo destino al Gioco dell’Oca.