Pur riconoscendo il loro lato oscuro o aleatorio, siamo tentati di applicare le osservazioni fatte a proposito di un viaggio per via d’acqua in una piroga guidata dal sole e dalla luna, all’interpretazione delle scene incise su osso, provenienti dalla tomba di un sacerdote o dignitario maya, scoperta a Tikal anni fa.
Uno degli autori del rinvenimento le descrive così: «Due divinità che remano con la pagaia, una a prua e l’altra a poppa di una piroga, avente come passeggeri l’iguana, la scimmia-ragno, un sacerdote che gesticola, un essere mezzo uomo mezzo pappagallo, e un animale peloso provvisoriamente chiamato “cane irsuto”. Un’altra versione della stessa scena pone in mezzo alla piroga una delle divinità e il sacerdote che gesticola e suddivide gli animali a coppie sul davanti e sul dietro. Le divinità hanno lo sguardo fisso e gli occhi grandi a dismisura; quella che governa la piroga a poppa soffre di strabismo, caratteristica del dio solare» (Trik).
Infatti, «gli occhi strabici costituiscono uno dei principali attributi del sole … nell’arte maya» (Thompson). Aggiungeremo che la divinità che sta a poppa sembra la più anziana, e lo stesso può dirsi del sole nei miti sudamericani che abbiamo passato in rassegna.
Infine, entrambi i personaggi hanno il cosiddetto naso «romano», caratteristica del dio del cielo Itzamnà, vecchio sdentato, signore del giorno e della notte, strettamente associato alla luna e al sole, fra i quali appare nelle sculture ad altorilievo di Yaxchilan.
Lasciando per ora da parte il problema che solleva il cambiamento di posto dei rematori nelle due scene, più importante per noi è il fatto che le incisioni di Tikal sembrano fondere in un’unica scena da una parte il viaggio in piroga del sole e delle luna, di cui il viaggio del cacciatore Monmaneki e del cognato ci ha come offerto una debole replica, e dall’altra un secondo aspetto dello stesso mito: sebbene gli animali siano diversi in entrambi i casi, è come se il Dio maya avesse imbarcato nella sua piroga quell’harem zoologico che l’eroe Tukuna aveva cercato di costituire.
L’unione dei due motivi, quello del viaggio in piroga e quello dei passeggeri animali, la ritroviamo in certi miti delle regioni settentrionali del Nordamerica:
Dené Peaux-de-lièvre: Il nocchiero
Il demiurgo, i cui nome Kunyan e Ekka-dekhiné, significano rispettivamente «il saggio» e «colui che supera sull’acqua tutte le difficoltà», aveva due mogli: una vicina, la propria sorella, saggia come lui; e l’altra lontanissima, un topo malefico che per poco non lo faceva perire. Egli andò incontro a numerose avventure, nel corso delle quali provocò un diluvio che distrusse l’umanità.
Con l’aiuto del corvo, fece nascere una nuova generazione di uomini (e l’uccello una generazione di donne), che uscirono dal ventre di due pesci. Ekka-dekhiné costruì anche la prima imbarcazione e intraprese un viaggio lungo il fiume Mackenzie, nel suo tratto inferiore. Avendoli incontrati nel suo cammino, lasciò che prendessero posto nella sua piroga una rana e il luccio che la voleva mangiare, poi un’altra rana e una lontra che litigavano a proposito di certe pelli che stavano conciando.
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Noteremo che gli Athapaskan del nord condividono con i Warrau del Venezuela la credenza che gli uomini e le donne siano stati creati da divinità distinte, una delle quali, secondo i Warrau, sarebbe proprio Kororomanna, responsabile della frazione maschile.
Parimenti, gli Athapaskan condividono con i Tukuna la credenza che i punti cardinali fossero invertiti prima che l’est prendesse il posto dell’ovest e viceversa.
Sempre nell’America settentrionale, ma nel nord-est, gli Irochesi associano il viaggio fluviale di un piccolo serraglio con l’origine del sole e della luna. Ma non sono gli astri in persona che viaggiano: il demiurgo e i suoi servi vanno a cercarli a oriente per il bene dell’umanità.
L’episodio appare indissociabile da una cosmologia che è troppo complessa per essere esposta nei particolari. Diciamo solo che, volendo nascere dall’ascella della madre, un gemello malefico la fece morire nel momento del parto e che poi, impazientito perché essa impiegava troppo tempo a risuscitare, tagliò la testa del cadavere. La nonna (madre della defunta) appese questa testa all’albero dell’oriente, dove essa diventò il sole, secondo una versione onondaga, o la luna, secondo una versione mohawk.
Desolato per il fatto che l’umanità da lui creata fosse priva della luce del giorno, oppure afflitta da una notte troppo oscura, il gemello benefico intraprese un viaggio verso oriente in piroga, accompagnato da quattro animali: un ragno, un castoro, una lepre e una lontra.
Mentre il demiurgo e tre degli animali si lanciavano all’assalto dell’albero, il castoro rimase nella piroga: egli aveva il compito di girarla rapidamente appena i compagni fossero tornati.
Dopo che i viaggiatori si furono impadroniti dell’astro, questi compì ogni giorno e ogni mese il suo percorso regolare garantendo l’alternanza del giorno e della notte. Secondo le varie lezioni, la testa della donna diventa il sole, il suo corpo la luna, oppure il contrario.
Uno degli animali del mito assume dunque la funzione di pernio intorno al quale l’imbarcazione gira, se così possiamo dire, per tornare al punto di partenza. Forse in questo modo si può spiegare perché uno dei personaggi rimanga al centro della piroga nelle incisioni di Tikal e in diversi miti.
Lo stesso avviene secondo i Micmac, che sono Algonchini orientali: «L’uomo si mise a poppa, la donna a prua e il cane prese posto nel mezzo».
Una versione onondaga, apparentemente più dotta, fa nascere il sole dal corpo di un nonno. In una tappa ulteriore, il demiurgo riserva alla sola testa la funzione di astro del giorno, mentre al corpo è riservato il riscaldamento diurno durante l’estate.
Simmetricamente, egli trasforma la testa della propria madre in luna, che ha la funzione di astro notturno, mentre il corpo assicurerà il riscaldamento notturno durante l’estate.
Di conseguenza, si nota negli astri la stessa dissociazione della funzione illuminante da quella termica che abbiamo già osservato nel caso del Sudamerica.
Sarebbe interessante approfondire questo aspetto, in quanto altre dissociazioni sorgono nello stesso contesto: quella del demiurgo e del primo uomo, chiamato come il demiurgo nelle altre versioni, e quella, non rintracciabile altrove, degli animali viaggiatori, che qui sono distinti in quattro efficienti e due inefficienti.

Gli Irochesi abitavano il territorio al centro di una regione che va dai Grandi Laghi alla costa orientale, e nella quale le piroghe di corteccia d’albero erano di solito decorate, come nel Venezuela e nelle Antille, con stelle o cerchi concentrici ornati o meno di rosette.
Secondo i Malecite e i Passamaquoddy, i cerchi rappresentavano il sole la luna o i mesi. Quando gli Ojibwa o i Chippewa dei Grandi Laghi erano in viaggio, lasciavano frequentemente dietro di loro messaggi disegnati che non avevano un significato mitico, perché si riferivano ad avvenimenti reali e perché gli animali raffigurati richiamavano il diverso clan di appartenenza dei viaggiatori. Ne riproduciamo qui un esempio:
Diverse indicazioni convergenti suggeriscono dunque che i miti degli Irochesi e delle tribù limitrofe dipendono dallo stesso paradigma di quelli, provenienti dal Sudamerica, che associano l’idea di un’impresa lontana (guerresca o matrimoniale, accettata o rifiutata) con quella di una mutilazione e di un’esplosione corporea da cui risulta, secondo i casi, l’apparizione di un corpo celeste in movimento, oppure una calda luce diffusa.
Questi miti, sia che provengano dai Cashinawa, da tribù amazzoniche o guayanesi o anche dagli Irochesi, introducono sempre gli stessi termini in contrasto: fissione o esplosione, riguardanti l’alto del corpo (testa) o il basso (corpo senza testa, addome), e generatrici, da una parte, della luna o del sole, dall’altra, della sola luce o del solo calore, di tutt’e due insieme o del loro contrario.
Particolarmente sorprendente è il parallelismo fra la cosmologia degli Irochesi e quella dei Cashinawa, perché i primi riuniscono nel medesimo mito, e traducono con l’opposizione dei dioscuri, due funzioni che invece gli altri suddividono fra personaggi riservati a miti distinti: la vergine scontrosa e il visitatore fiducioso, la prima chiusa in se stessa e ribelle ai rapporti sociali, come il gemello malefico irochese, che vorrebbe tenere per sé solo la luce emanata dalla testa materna; il secondo aperto alle sollecitazioni del mondo e degli uomini – siano anche nemici – come il gemello benefico, pronto a intraprendere un viaggio lontano per mettere in moto i corpi celesti.
Si nota però una differenza: gli eroi Cashinawa, dotati di attributi negativi, diventano una luna sterile, mentre la luna liberata dal demiurgo irochese è feconda. Sotto questo aspetto, i due gruppi si replicano esattamente.
Ridotti alla condizione di una testa tagliata, la vergine scontrosa e il visitatore fiducioso dei Cashinawa si decidono a diventare la luna soltanto dopo aver a lungo esitato e dopo aver respinto l’una dopo l’altra tutte le decisioni che sarebbero state vantaggiose per l’umanità, in primo luogo la loro eventuale trasformazione in legumi o frutti commestibili. Secondo le loro intenzioni, la luna sarà un astro luminoso ma senza calore, e perciò sterile: essi la scelgono perché non vogliono servire a niente.
Al contrario, il demiurgo irochese non si contenta di una luna ridotta a testa tagliata e la cui funzione sarebbe quella di illuminare il cielo notturno. Così, egli ricostituisce il corpo della madre, cui si rivolge poi in questi termini: «Ora, io voglio che tu vegli sulla terra qui presente, su tutte le specie di piante e su quelle che abitualmente danno frutti; e anche sui boschetti, di cui certi arbusti solitamente danno frutti; e anche sulle foreste di alberi di ogni specie, alcuni dei quali abitualmente danno frutti; e anche su tutte le altre cose che cresceranno abitualmente sulla terra qui presente, sull’umanità e sugli animali che servono da selvaggina … Infatti, quando sulla terra scenderà la notte, la tua funzione sarà allora quella di riscaldarla e di illuminarla a tua volta [cioè in alternanza col sole] e di far cadere su di essa la rugiada. Continuerai così ad assistere i tuoi nipoti, come tu li chiami nel pensiero, ed essi, da parte loro, continueranno a popolare la terra».
(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)
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Lo sospettavamo. Ora ne abbiamo la conferma: la «storia» di una remota inversione dei cieli, di un Sole che adesso sorge dove una volta tramontava, e viceversa, non è farina del sacco di Platone: è tutto fuorché una sua privata fantasia. Lévi-Strauss ci rassicura: anche gli Athapaskan e i Tukuna narravano un mito analogo. L’est delle odierne mappe fu una volta l’ovest.
Ma questo, che vuol dire? che dobbiamo prendere alla lettera il Racconto? o che il Racconto avrà qualcosa da dirci soltanto quando avremo compreso di quale «volta» (anzi, di quale «svolta») esso narra?
Si tratta certamente di una «volta» antica, di un remoto «c’era una volta». Si tratta di un’evidente allusione a un Tempo che fu, a un altro tempo, a un tempo in cui la Macchina celeste ruotava nel senso opposto a quello odierno. Se quello era un «senso», quell’attuale non può essere che un «controsenso». O, per dirla nel gergo dei miti sudamericani, quello di una volta era il senso del Sole Reale, quest’altro invece, il nostro, è solo il sentiero (simmetrico) inverso del Sole Visibile. È solo un’apparenza ingannevole – l’inganno essendo fondato sull’illusione di una «simmetria», di una commensurabilità tra i due Soli in questione.
In ogni caso, questa «svolta» implica un capovolgimento, una vera catastrofe – non però degli astri e del loro movimento (come la lettera del mito lascia intendere), ma dello Sguardo chiamato a contemplarli. Implica un’età, essa sì remota (e rimossa), in cui lo Sguardo ancora contemplava naturalmente la Realtà, e i suoi occhi ancora «parlavano» il linguaggio dell’immaginazione spontanea. Un’età dello Sguardo anteriore ai colpi che la Realtà si accingeva a infliggergli. Una preistoria dello Sguardo o, come la si chiamerebbe oggi, la Stagione narcisistica d’una Veggenza infantile, che abbraccia tutto il tempo, tutto il Presente vissuto dallo Sguardo fino al giorno in cui, passate le acque vorticose delle Simplegadi o un qualunque altro «gorgo» mitologico, si è, per così dire, consegnato alla Memoria e all’Intelligenza – fino cioè al giorno in cui ha rimesso il suo destino alle «sintesi attive» del linguaggio simbolico.
Perché – se ancora non s’è capito – è da questa parte delle Simplegadi che si vede il Sole sorgere all’inverso. È solo da questa nuova angolazione che si vede scorrere il Fiume in cui noi, come Eraclito, fummo un tempo immersi, come pesci nell’oceano. Solo da qui, dall’osservatorio simbolico, dalla finzione delle nostre «sintesi linguistiche», ci possiamo rappresentare fuori dalle sue onde. Nell’Aperto «creato» dalle nostre parole, dice il Filosofo.
È quel che intende pure Socrate, quando nel Fedone dice che noi, il mondo, dacché siamo emersi dal Reame dei Fiumi sotterranei, lo vediamo «alla rovescia».
A quei tempi, abitavamo un altro mondo – il Mondo Reale. E stavamo a contemplarlo e a immaginarlo dai piani alti del nostro essere.
Poi, dice il Racconto, di lassù dovemmo discendere ai piani bassi. Dovemmo abdicare a quel che «vedeva» la Testa, per affidarci ai nostri organi «ciechi»: alle gambe innanzitutto, che promettevano di portarci chissà dove, e alle braccia, che si dichiaravano pronte a remare per noi e ad affrontare il grande viaggio in piroga.
A essere mutilati, storpiati, guastati sotto i colpi del Reale – non erano gli astri né i loro movimenti, o perlomeno non solo essi. No, eravamo noi – era, come dice Deleuze, il nostro arcaico «io passivo». Erano le mille e mille larve delle nostre immaginazioni costrette, per sopravvivere, a imbarcarsi al di qua delle Simplegadi.
E allora, quando il Mito racconta che gli astri attuali, il Sole e la Luna e le stelle visibili allo Sguardo che ci ritroviamo ora dopo la catastrofe, sono passati per una trafila cruenta (di teste tagliate, occhi accecati o strabici, e via dicendo), va da sé che è alla traumatica «svolta» del nostro Sguardo che allude.
Allude alla sua inversione di prospettiva. Alla catastrofica fine del tempo (paradisiaco) delle sue immaginazioni. All’avvento di un altro Presente, del nostro nuovo modo di essere presenti al Sole e alla Luna e alle stelle. Presenti alla separazione, ai pesi e alle misure per tenerci alla giusta distanza (tra il troppo vicino e il troppo lontano) dalla loro /che una volta era anche la nostra/ Realtà.
C’era una volta il Presente – senza passato né futuro. Il Presente senza attesa né memoria. Senza speranze né rimpianti. Il Presente fatto solo di presenza alla Realtà. Il Presente immediatamente vissuto – senza mediazioni di nessun genere. Il Vivente che scorreva nel Fiume ignaro di ogni rappresentazione.
Ora che la Stagione di Narciso è finita /a chi è finita/ vige un altro Presente: un presente che passa e lascia il posto al futuro, un presente che si fonda sul passato e che si annienta nel futuro. Un presente che, in compenso, si lascia rappresentare. E che, per quanto scorrevole e fuggente, grazie ai segni di cui ora disponiamo, si lascia richiamare dall’Assenza (di Realtà) a cui è votato.
Ora che il Presente Reale ci è divenuto, esso, il Remoto e il Rimosso – dobbiamo arrangiarci con le finzioni e le mediazioni di cui è capace il nostro linguaggio simbolico.
Dobbiamo accontentarci di quest’altro Sole, e di quest’altra Luna, e di tutte queste nuove stelle … senza testa, guerce, storpie o strabiche, che è tutto quanto la Nave dei Racconti è riuscita a tradurre di qua, da questa parte delle Simplegadi.
Ovvero: di tutto quel Presente solo la coda; di tutta la lingua che «parlavamo» allora, solo l’ultima eco.