Un giorno l’uomo era virulento
non era che nervi elettrici
fiamme d’un fosforo perpetuamente acceso
ma tutto ciò è passato nella favola
perché sono nate le bestie
sì, le bestie
deficienze d’un magnetismo innato
buco di vuoto tra due soffietti di forza,
che non erano
non erano nulla
e sono diventate qualcosa
e la vita magica dell’uomo s’è perduta
l’uomo è caduto dalla sua rupe calamitata
e l’ispirazione che era la sostanza
è divenuta l’accidente, il caso
la rarità
l’eccellenza …
(Artaud, lettera a Pierre Loeb del 23 aprile 1947)
***
… una volta, l’ispirazione era la sostanza.
Prima che la nave di Ulisse, di Sindbad o di Giasone si gettasse nel «folle volo» attraverso un certo Stretto, l’ispirazione di tutti i naviganti (degli «aerei naviganti dello spirito») era la sostanza. Non l’ardimento, non il genio, non la grandezza trionfale, e tuttavia accidentale, di un Eroe. Non il fuoco d’un falò occasionale, festivo, periodico – che s’accende e poi si spegne a una certa data, in questa o quella ricorrenza.
Prima che l’Uomo s’imbarcasse a venire in qua, ad abitare – al di qua delle Simplegadi – nel buco aperto tra i due «soffietti di forze», tra gli Scogli delle due opposte tensioni, l’una ad eccedere, l’altra a venir meno a Se Stesso, l’una a esaltare, l’altra a tradire le proprie contemplazioni e la loro infinita ricchezza – prima che rassegnasse alle neonate bestie l’elettricità dei suoi propri nervi … l’ispirazione era la sua sostanza.
Prima che toccasse terra, quell’idea, quell’ispirazione, quella contemplazione … era tutto ciò che vi era di Umano al mondo. La pianta, o il corpo, che ne germogliava era l’accidente. L’ispirazione, l’idea, il seme immaginale era la sostanza.
L’idea che viveva sulle spalle degli organi, la Padrona della Casa, era allora la sostanza – e gli organi, le «sintesi cellulari», la «materia», la Sguattera della Casa, la «carne viva», erano i suoi accidenti. L’idea nutriva gli organi – il Corpo senz’organi organizzava le sue membra immonde, le sue parti basse, le pudenda, le gambe, le viscere, per farne le sue macchine. Per macchinare contemplazioni sempre più …
E già, per arrivare a contemplare chi, che cosa – se l’unico senso che, una volta passata di qua, resta all’ispirazione è di ritornare sui suoi passi, a ripetere, a ritroso come il salmone, il passaggio delle sue Simplegadi? e se il massimo d’estasi a cui può giungere, una volta tornata di là e ripercorso il suo «folle volo», è di arrivare a contemplare, non più il fuoco e nemmeno più il luogo, ma solo una certa pagina del Libro in cui si racconta della coincidenza della sua genesi con la sua estinzione?
Sennonché … l’ispirazione che era la sostanza, dacché s’è vista senza più una meta, senza più un senso, non per questo s’è spenta. D’altronde, se così fosse – da dove l’arte, la passione, il gioco e la pazzia che ancora ci incalzano?
L’ispirazione non sarà più, come una volta, la sostanza, e tuttavia è sempre all’opera. Insensata, a volte perfino contenta d’essersi tolto di dosso questo peso d’un senso, d’una «morale della favola», d’una escatologia, d’una meta o, come volgarmente si dice, di un obiettivo da perseguire.
L’ispirazione, come dice Artaud, s’è gettata in illo tempore nel vuoto … e dunque: che senso ha pretendere che abbia ora un senso? se mai lo ha avuto, era solo una scusa per continuare a ispirare viaggi sempre più «aerei», sempre meno «terreni» ai naviganti – solo una scusa per navigare nel compiacimento dei suoi mitici oltraggi a Se Stessa.
Oggi che le carte del gioco (dell’Oltretomba), almeno così pare, sono scoperte, oggi che sappiamo che non è più la Montagna del Purgatorio che deve essere circumnavigata, ma la Metafora che ci porta a spasso fra i nuovi idoli e feticci del Racconto, forse l’ingenuità, la voluta insistente ingenuità con cui Artaud sostiene, giocando a darsi arie da filosofo, che l’ispirazione era la sostanza e non l’accidente d’un genio occasionalmente in ascolto della sua Musa – oggi, questa sua ingenuità può avere per noi la forza di un responso sibillino.
Perché, per bocca sua, per bocca di Artaud, l’ispirazione ci sta dicendo con tutta l’ingenuità di cui è capace d’ispirare un poeta crudele con Se Stesso – sì, ci sta dicendo: guardami, non posso più mentirti … io sono la tua Macchina.
A ciascuno di noi, uno per uno, a tutti assieme, ci sta dicendo: come fai a non vedere che sono io a macchinare i tuoi desideri? io la Medea, per cui si va al Vello d’Oro? io il Drago che lo custodisce? io il Re che lo proibisce? io tutti i fantasmi che costellano la via del Racconto? io la Macchina che conta e che racconta? io la Signora di tutte le lune, io Elena la Bella, io la guerra e la pace, io gli Achei e i Troiani, io la Natura, il Mondo, la Realtà aperiodica?
L’ispirazione trova per bocca di Artaud il coraggio, e dice: sono tutta qua! Sono il tuo Corpo senz’organi – sono la tua Idea, sono la tua Rimossa, sono – perciò – la sola che ritorna. Il tuo solo numero periodico. Perciò, contami!
E se al ritorno non mi chiami più Sostanza, se a questo passaggio preferisci chiamarmi Macchina, vuol dire che la mia potenza di numerazione e denominazione è ancora capace di stregarti.