Se l’origine della sapienza greca sta nella «mania», nell’esaltazione pitica, in un’esperienza mistica e misterica, come si spiega allora il passaggio da questo sfondo religioso all’elaborazione di un pensiero astratto, razionale, discorsivo? Eppure nella fase matura di questa età dei sapienti noi troviamo una ragione formata, articolata, una logica non elementare, uno sviluppo teoretico di grande livello.
A rendere possibile tutto ciò è stata la dialettica.
Con questo termine non va inteso ovviamente ciò che vi includiamo noi moderni: dialettica è qui usata nel senso originario e proprio del termine, ossia nel significato di arte della discussione, di una discussione reale, tra due o più persone viventi, non escogitate da un’invenzione letteraria.
In questo senso la dialettica è uno dei fenomeni culminanti della cultura greca, e uno dei più originali.
Il suo grande sviluppo unitario giunge a compimento con Aristotele: questi, infatti, in una sua opera giovanile, I Topici, guarda retrospettivamente a tutto il materiale elaborato da quest’arte, a tutte le vie da essa seguite, a tutte le forme, le regole, gli accorgimenti, le argomentazioni, gli artifici sofistici, per tentare di costruire su questa base una trattazione sistematica della dialettica, stabilendo i princìpi generali, le norme di una discussione corretta, ordinando e classificando tutto quel materiale, mettendo in piedi una teoria generale della deduzione dialettica.
Ma se questo è il compimento, lo sguardo retrospettivo, qual è il culmine e qual è l’origine della dialettica?
Quando confrontiamo le argomentazioni dialettiche di Platone, di Gorgia, di Zenone, cercando di giudicarle secondo il criterio del rigore logico e dell’eccellenza argomentativa, non mancano ragioni per sostenere, contro l’opinione dominante, una superiorità di Zenone rispetto a Platone.
E lasciando da parte il problema del culmine della dialettica, dove ne va cercata l’origine?
Il giovane Aristotele sostiene che Zenone è stato l’inventore della dialettica. Se tuttavia confrontiamo le testimonianze su Zenone coi frammenti di Parmenide, suo maestro, sembra inevitabile ammettere già in quest’ultimo una stessa padronanza dialettica dei concetti più astratti, delle categorie più universali.
Ma allo stesso Parmenide è forse possibile attribuire l’invenzione di un bagaglio teoretico così imponente, l’uso dei cosiddetti princìpi aristotelici di non contraddizione e del terzo escluso, l’introduzione di categorie che resteranno per sempre legate al linguaggio filosofico, non soltanto dell’essere e del non essere, ma verosimilmente anche della necessità e della possibilità?
Sarebbe più naturale pensare a una tradizione dialettica che risalga più indietro ancora di Parmenide, che prenda origine appunto in quell’età arcaica della Grecia, di cui si è parlato.
La dialettica nasce sul terreno dell’agonismo. Quando lo sfondo religioso si è allontanato e l’impulso conoscitivo non ha più bisogno di essere stimolato da una sfida del dio, quando una gara per la conoscenza tra uomini non richiede più che essi siano divinatori, ecco apparire un agonismo soltanto umano.
Su un contenuto conoscitivo qualsiasi un uomo sfida un altro uomo a rispondere: discutendo su questa risposta si vedrà quale dei due uomini possieda una conoscenza più forte.
Sulla base dei Topici aristotelici, si può ricostruire uno schema generale dell’andamento di una discussione, pur variato infinitamente nel suo svolgersi effettivo.
L’interrogante pone una domanda in forma alternativa, presentando cioè i due corni di una contraddizione. Il rispondente fa suo uno dei due corni, ossia afferma con la sua risposta che questo è vero, fa una scelta. Questa risposta iniziale è chiamata la tesi della discussione: il compito dell’interrogante è dimostrare, dedurre la proposizione che contraddice la tesi. In tal modo raggiunge la vittoria poiché, provando come vera la proposizione che contraddice la tesi, dimostra al tempo stesso la falsità della tesi, ossia confuta l’affermazione dell’avversario, che si era espressa nella risposta iniziale.
Per giungere alla vittoria occorre dunque sviluppare la dimostrazione, ma questa non è enunciata unilateralmente dall’interrogante, bensì si articola attraverso una serie lunga e complessa di domande, le cui risposte costituiscono i singoli anelli della dimostrazione. Il collegamento unitario tra queste risposte deve appunto costituire il filo continuo della deduzione, al termine del quale, come sua conclusione, si ritrova la proposizione che contraddice la tesi.
Non è necessario che il rispondente si renda conto che la serie delle sue risposte costituisce un nesso dimostrativo. L’interrogante cerca anzi di impedire che il disegno della sua argomentazione sia perspicuo. Perciò la successione delle domande spesso non segue il filo dell’argomentazione, e talvolta intervengono anche dimostrazioni incidentali e sussidiarie.
L’importante è che proprio la singola risposta sia ogni volta l’asserzione di una certa proposizione, che l’interrogante presenta come domanda.
Alla fine tutte le risposte saranno altrettante affermazioni del rispondente: se il loro nesso confuta la tesi, ossia la risposta iniziale del rispondente, sarà chiaro che il rispondente, attraverso i vari anelli dell’argomentazione, avrà lui stesso confutato la propria tesi iniziale.
Nella dialettica non occorrono giudici che decidano chi è il vincitore: la vittoria dell’interrogante risulta dalla discussione stessa, poiché è il rispondente che prima afferma la tesi e poi la confuta. Si ha invece la vittoria del rispondente, quando egli riesce a impedire la confutazione della tesi.
Questa pratica della discussione è stata la culla della ragione in generale, della disciplina logica, di ogni raffinatezza discorsiva. Difatti, dimostrare una certa proposizione, ci insegna Aristotele, significa trovare un medio, cioè un concetto, un universale, tale da potersi unire a ciascuno dei due termini della proposizione, in modo che si possa dedurre da tali nessi la proposizione stessa, ossia dimostrarla.
È poiché tale medio è più astratto del soggetto della proposizione da dimostrare, la discussione, come ricerca di medi, è una ricerca di universali sempre più astratti, in quanto il medio che dimostra la proposizione data avrà a sua volta bisogno di essere dimostrato.
La dialettica è stata così la disciplina che ha permesso di sceverare le astrazioni più evanescenti pensate dall’uomo: la famosa tavola delle categorie aristoteliche è un frutto finale della dialettica, ma l’uso di tali categorie è vivo e documentabile nella sfera dialettica molto tempo prima di Aristotele.
Lo stesso si dica per i princìpi formali che reggono il corretto svolgimento di una discussione, a cominciare dal principio del terzo escluso che regola la formulazione della tesi e la sua confutazione; e inoltre per le norme della deduzione e per i rapporti reciproci tra i vari termini che vi compaiono, materiale di studio e di applicazione da cui sorgerà la sillogistica aristotelica.
Si affaccia ora per noi la possibilità di tentare una spiegazione riguardo all’oscuro problema del passaggio dallo sfondo religioso della divinazione e dell’enigma alla prima età della dialettica.
Già da quello che si è detto risulta un punto di incontro fra i due fenomeni, cioè la sfera dell’agonismo riguardante la conoscenza e la sapienza. L’enigma, infatti, umanizzandosi, assume una forma agonistica, e d’altra parte la dialettica sorge dall’agonismo.
Ma approfondendo l’analisi dei due fenomeni, esaminando le testimonianze più antiche in proposito, e confrontando la terminologia usata nei due casi, c’è da supporre un rapporto più intrinseco, un nesso di continuità tra essi.
In questa prospettiva l’enigma appare come lo sfondo tenebroso, la matrice della dialettica. Decisiva qui è la terminologia.
Il nome con cui le fonti designano l’enigma è «próblema», che in origine e presso i tragici significa ostacolo, qualcosa che è proiettato in avanti. E difatti l’enigma è una prova, una sfida cui il dio espone l’uomo. Ma lo stesso termine «próblema» rimane vivo e in posizione centrale nel linguaggio dialettico, al punto che nei Topici di Aristotele esso significa «formulazione di una ricerca», designando la formulazione della domanda dialettica che dà inizio alla discussione.
E non si tratta soltanto di un’identità del termine: l’enigma è l’intrusione dell’attività ostile del dio nella sfera umana, la sua sfida, allo stesso modo che la domanda iniziale dell’interrogante è l’apertura della sfida dialettica, la provocazione alla gara. Oltre a ciò si è detto più volte che la formulazione dell’enigma, per la maggior parte dei casi, è contraddittoria, così come la formulazione della domanda dialettica propone esplicitamente i due corni di una contraddizione.
Quest’ultima identità formale è addirittura stupefacente e impone quasi la convinzione di una stretta parentela tra enigma e dialettica.
L’uso di parecchi altri termini conferma questa tesi. Il verbo «probállein», che nel quinto secolo significa «proporre un enigma», viene usato da Platone alternativamente nel senso enigmatico (in un passo del Carmide il verbo è congiunto esplicitamente col termine «enigma» e si dice «gettava avanti un enigma») e nel senso dialettico, testimoniando un’unità di fondo tra le due sfere: talora significa ancora «proporre un enigma» e talora invece «proporre una domanda dialettica».
Ricordiamo anche, come usati ora in senso dialettico ora in senso enigmatico, i termini «interrogazione», «aporia», «ricerca», «domanda dubbia».
Dunque il misticismo e il razionalismo non sarebbero in Grecia qualcosa di antitetico, dovrebbero intendersi piuttosto come due fasi successive di un fenomeno fondamentale.
La dialettica interviene quando la visione del mondo del Greco diventa più mite. Lo sfondo aspro dell’enigma, la crudeltà del dio verso l’uomo vanno attenuandosi, vengono sostituiti da un agonismo soltanto umano. Chi risponde alla domanda dialettica non si trova più in uno smarrimento tragico: se sarà sconfitto non perderà la vita, come era accaduto invece a Omero.
Inoltre la sua risposta al «próblema» non decide subito della sua sorte, in bene o in male. Il rispondente risolve l’alternativa con la sua tesi, asserendo qualcosa che sarà messo alla prova, ma che per il momento è accettato come vero. Chi doveva rispondere all’enigma, o taceva, ed era subito sconfitto, o sbagliava, e la sentenza veniva dal dio o dal divinatore.
Nella discussione invece il rispondente può difendere la sua tesi. Ma di regola ciò gli servirà a ben poco.
Il perfetto dialettico è incarnato dall’interrogante: costui pone le domande, guida la discussione dissimulandone le trappole fatali per l’avversario, attraverso i lunghi giri dell’argomentazione, le richieste di assenso su questioni pacifiche e apparentemente inoffensive, che si riveleranno invece essenziali per lo svolgimento della confutazione.
Si ricordi il carattere di Apollo come dio «che colpisce da lontano», la cui azione ostile è differita: ciò si incarna tipicamente nell’interrogante dialettico, che sapendo di vincere indugia, pregusta la vittoria, frapponendo le trame errabonde del suo argomentare.
Sotto questo punto di vista uno sfondo religioso rimane ancora nella sfera dialettica: la crudeltà diretta della Sfinge diventa qui una crudeltà mediata, travestita, ma in questo senso addirittura più apollinea. C’è quasi una ritualità nel quadro dello scontro dialettico, che di regola si svolge di fronte a un pubblico silenzioso.
Alla fine il rispondente deve arrendersi, se le regole sono rispettate, come tutti si attendono che debba soccombere, come per il compimento di un sacrificio.
Del resto si può addirittura non essere del tutto certi che nella dialettica il rischio non fosse mortale.
Per un antico l’umiliazione della sconfitta era intollerabile. Se Cesare fosse stato radicalmente battuto in battaglia, non sarebbe sopravvissuto. E forse Parmenide, Zenone, Gorgia non furono mai sconfitti in una discussione pubblica, in un vero agone.
(Colli, La nascita della filosofia)
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Dalla divinazione alla dialettica – si potrebbero sintetizzare così queste pagine di Colli, o anche: dal tirare a indovinare al ragionare la «risposta».
Ma non pare pure a te che si potrebbe dare lo stesso «titolo» anche alle pagine di Lacan sul «pari e dispari»? il tutto non comincia forse anche lì che bisogna indovinare il numero delle biglie nelle mani dell’«avversario», per poi svelarsi in fondo per quello che è sempre stato, e cioè (parole testuali) solo un «gioco dialettico»? nient’altro che una pazziella (salvo, poi, diventare una pazzia) simbolica?
E non ti pare che il passaggio in questione (dal «misticismo» alle categorie aristoteliche) non riguarda solo la storia della filosofia greca, ma ridisegna pari pari (anzi no: pari e dispari) la trafila mentale di ogni bambino, e cioè il suo progressivo affinamento divinatorio man mano che avanza nella Parola?
Il bambino è nell’agone. Diciamolo meglio: è nel gioco. Deve indovinare il mondo, ed è con un indovinello che il suo antagonista (non fa differenza se è un grullo, un dio, una sfinge o una slot-machine) lo «adesca». Per attrarlo a sé gli propone (probállein) il più semplice dei «problemi», ma anche il più terribile dei «giochi»: indovina cosa (quod) ti nascondo!
Può essere la Pizia, la Sibilla o la Signora degli indovinelli – è Lei a provocare il bambino, e a spingerlo sempre più in là nella «dialettica», ad avventurarsi in ragionamenti sempre più contorti, finché non scioglie l’Enigma che gli ha imposto ludica mente. (Non è solo per alleggerire la lezione ai seminaristi che Lacan ricorre alla «macchina che gioca»).
Solo quando il piccolo «giocatore» sarà giunto, se mai ci giungerà, fino alle categorie aristoteliche, e magari anche un poco oltre, solo allora comprenderà che egli era già dov’è finalmente giunto – già immerso nei giochi dialettici della Lingua della sua Gente, già introdotto nel regime della Macchina Onnisciente, fin dalla prima volta che ha detto: sì, voglio giocare anch’io a questo gioco!
La dialettica, lo dice bene Colli, è più antica di Aristotele. Con Aristotele, il «gioco» è andato così avanti, è diventato così serio … solo perché Aristotele ha finalmente «udito» un’abitudine discorsiva, una ripetizione automatica in atto tanto nei dialoghi di Platone quanto nelle chiacchiere della gente comune. Solo perché ha «visto» delle vie (le arterie delle categorie) e delle viuzze (gli accidenti delle qualità) per le quali tutti noi passiamo fin da bambini – le vie della Parola, e della Verità, pardon della Vincita, simbolica.
Non ci vuole un professore per capire che c’è dialettica solo là dove si dialoga, e che non è necessario che i due dialoganti siano alla pari, uomo che parla a uomo, perché si possa parlare di dialogo. Si può parlare a dio, alla luna, alle stelle, e questo è già dialettica purché almeno uno dei due «interlocutori» pervenga a quello che Lacan chiama il «terzo tempo» del gioco, ovvero il momento in cui intuisce la presenza del Terzo, dell’Altro, nelle parole del gioco quali che siano i giocatori.
Il momento in cui intuisce che quest’altro è il Logos del loro dialogo, e che questo Logos ha le sue topiche, i suoi «loca» dicevano i Latini, i suoi passaggi abituali, le sue maniere di congiungersi e di disgiungersi a ogni passo – e che perciò i giocatori, anche il bambino inconsapevole, per il solo fatto che parlano, nella dialettica del Discorso ci sono immersi fino al collo.
Colli dice che la dialettica ha inizio col porre all’altro «una domanda in forma alternativa»: e non è la stessa cosa del «pari o dispari»?
Colli dice che la posta in gioco è la «vittoria». Lacan parla di una «vincita».
Ma tu non vedi che è il Discorso a spingerli, l’uno all’insaputa dell’altro, a imboccare la stessa via? e quale, se non la prima via per la quale s’incammina ogni bambino fin dalla prima volta che accetta l’invito a indovinare il quod che l’altro gli nasconde?
La via dove si vince – proprio così, alla lettera, perché questa è la via dove sempre e soltanto è il SI a vincere, il Soggetto inconscio del Discorso, la Macchina Parlante.
Dai, giochiamo! È così che la Macchina ci cattura. È così che gli dèi legarono (d’un laccio invisibile) anticamente il Lupo (che è in noi).
È soltanto un gioco, dai, fatti legare – dissero gli Ingannatori al Lupo.
Fecero così, si dice, per «umanizzarlo». Era una bestia feroce, ma una volta legato alla Parola, sarebbe diventato un agnellino.
Perché vincita o vittoria che avesse riportato, si sarebbe trattato soltanto di uno scalpo simbolico. Per indovinare il quod, magari addirittura la sua «verità nascosta», il Lupacchiotto si sarebbe infatti dovuto inoltrare, sempre di più, sulla Via della Chiacchiera. E su questa Via si vince solo a chiacchiere! Non c’è più niente di reale su questa via. Su questo via tutto è simbolo. Anche la vittoria è solo e sempre simbolica. La realtà è altrove.
Se solo capissimo questo, forse capiremmo anche perché Ulisse acceca il ciclope Polifemo, ovvero il Padrone della Via.