Re Artù viene spesso rappresentato come cacciatore. Ora, il folklore francese conosce il motivo della Chasse Arthur, che è una semplice variante della Caccia selvaggia, altrimenti chiamata Mesnie Hellequin.
Tra tutte le possibili designazioni, quella di Caccia selvaggia stabilisce, meglio di ogni altra, il rapporto mitico tra la manifestazione aerea degli spettri e l’uomo o la donna selvaggi che conducono la danza.
Quest’uomo selvaggio non è soltanto un essere primitivo, maledetto o inselvatichito, quanto soprattutto una creatura magico-fiabesca dell’Oltretomba, antica reminiscenza di una divinità del destino. Egli assume insieme le sembianze di Ermes (psicopompo) e quelle di Eracle combattente. Ma si ritrovano in lui anche il Dagda e la sua doppia mazza, e Ogmios, il dio dei legami, futuro condottiero della Danza macabra (alla fine del XIV secolo).
Il condottiero di questa Caccia Selvaggia è meglio conosciuto sotto il nome di Hellequin, ma altri nomi possono sostituirsi a questo. Nel XIII secolo, l’inquisitore domenicano Etienne de Bourbon, d’altro canto, confonde la famiglia di Hellequin (Harlequin, o Arlecchino) e quella di Artù.
«I demoni si divertono talvolta a trasformarsi e a prendere l’aspetto esteriore di cavalieri che si recano alla battaglia brandendo delle torce. Sono quelli che la gente chiama comunemente Arzei, vale a dire gli Ardenti, gli Infiammati. Allo stesso modo, a volte, prendono le sembianze di cavalieri in partenza per la caccia o che si divertono con varie occupazioni. Di essi si dice normalmente che costituiscono la famiglia di Allequin o di Artù. Ho sentito dire che un contadino, che portava una fascina al chiaro di luna nei dintorni del Mont du Chat, vide un’immensa muta di cani che sembravano latrare sulle tracce della loro preda. Una folla di fanti e cavalieri li seguiva. Quando chiese a uno di loro chi fossero, quegli rispose: “Cavalieri di re Artù”» (Lecouteaux-Marcq, Gli spiriti e i morti).
Ci si potrebbe chiedere se il testo non giochi qui sulla parola Arzei, il cui significato celtico si è perduto nel corso del tempo. Arz rappresenta lo stesso re Artù, e Arzei i compagni di questo mitico «orso».
Il chierico che racconta in latino questa tradizione ne ignora il significato celtico e si serve dell’immagine della torcia infiammata per reinterpretare un termine antico il cui senso gli sfugge.
La figura del mosaico di Otranto (datato 1163-1165, che presenta l’esplicita designazione di REX ARTURUS) non sarebbe quindi che una rappresentazione, tra le altre, di quella infernale cavalcata di stregoni e streghe che ritroviamo a più riprese in tutto il folklore europeo.
Artù vi figurerebbe in quanto condottiero di questa cavalcata furiosa, detta Mesnie Hellequin o, a volte, anche Chasse Arthur, soprattutto nell’ovest della Francia (Normandia, Bretagna, Aquitania). Egli si presenterebbe come un re dell’Oltretomba, padrone dell’universo selvaggio e degli spettri.
Non si tratta, come pure si potrebbe pensare, di una semplice sostituzione di re Artù a un altro personaggio che apparterrebbe a un mito costituitosi in modo indipendente dallo stesso Artù. Questi è indissolubilmente legato in numerosi, troppi, testi alle cacce mitiche e fiabesche (da Culhwuch e Olwen a Erec et Enide), le quali tutte costituiscono altrettante varianti del motivo della Caccia Selvaggia che è, prima di ogni altra cosa, mitica.
Secondo una leggenda guascone, «mentre assisteva alla Messa il giorno di Pasqua, re Artù udì al momento della Consacrazione i latrati della sua muta di cani che aveva stanato un cinghiale; uscì dalla chiesa ma, appena fuori, il vento lo trascinò fin sopra le nuvole insieme ai suoi cani, ai cavalli e ai valletti che suonavano il corno: egli caccerà fino al Giorno del Giudizio, e fa grande fatica a catturare qualcosa ogni sette anni».
In Bretagna si dice che il frastuono della Chasse Arthur sia prodotto dagli stormi degli uccelli migratori o di volatili notturni.
«Nei dintorni di Rennes, Artù era un re del tempo antico, punito per aver fatto correre i suoi cani nel giorno di Pasqua. Chi ode la muta arturiana può farla ridiscendere sulla terra facendosi il segno della croce alla rovescia; per farla risalire, è sufficiente segnarsi nel modo normale» (Lascaux, Conti e leggende di Bretagna).
Se il folklore ha fatto di Artù un’anima errante e dannata, ciò non è certamente senza ragione. Le radici di questa tradizione risalgono perlomeno al Medioevo, com’è confermato da un testo del XIII secolo. Si tratta di una tradizione leggendaria raccolta da Gervais de Tilbury in Sicilia. Essa evoca Artù dopo la sua morte e conferma il legame del mito arturiano col tema della Caccia Selvaggia. È un estratto degli Otia imperalia, che presenta il re in un regno dell’Oltretomba al quale si accede attraverso l’Etna. Vi si trova il ben noto motivo dell’animale psicopompo che conduce un mortale verso una dimora sacra o in un luogo che deve essere consacrato. Nel caso specifico si tratta di un cavallo che, come animale ctonio, può anch’esso condurre gli esseri umani sui sentieri occulti dell’Altro Mondo. Questo ruolo nei lai fiabeschi bretoni è in genere affidato a un cervo bianco o a una cerva.
«In Sicilia vi è il monte Etna, il cui cratere vomita fiamme solforose; esso è vicino alla città di Catania, dove è in mostra il tesoro del gloriosissimo corpo di sant’Agata, vergine e martire, patrona della città che ella difende dalle fiamme del vulcano; il popolo chiama la montagna mons Gigel (Mongibello).
Gli abitanti della regione narrano che il grande Artù è apparso di recente in questo deserto. Un giorno, infatti, un palafreniere del vescovo di Catania lasciò fuggire, mentre lo strigliava, il cavallo che gli era stato affidato; quest’ultimo, mettendosi bruscamente a saltare dopo aver ben mangiato, fuggì riacquistando la sua libertà. Il domestico partì alla sua ricerca tra scarpate e dirupi, senza trovarlo; sempre più preoccupato, si spinse verso le buie caverne della montagna.
«Che dire di più? Un sentiero strettissimo ma pianeggiante gli si presentò alla vista; il ragazzo giunse in un’ampia spianata, dolce e piena di delizie, e qui, in un palazzo di squisita fattura, trovò Artù disteso in un letto assai fastoso.
Quest’ultimo chiese al visitatore sconosciuto il motivo della sua visita; dopo averlo saputo, fece condurre il palafreno del vescovo e raccomandò al valletto di riconsegnarlo al prelato; inoltre, gli narrò come un tempo fosse stato ferito nel corso di una battaglia contro suo nipote Mordred e Childerico, duca dei Sassoni, e disse che si trovava là da molto tempo, poiché le sue ferite si rinnovavano ogni anno. In più, come mi hanno narrato gli abitanti del posto, egli inviò al prelato dei doni che furono visti da numerose persone, sbalordite da questa favolosa novità.
«E si racconta che fatti analoghi siano avvenuti nelle foreste della Grande o Piccola Bretagna: le guardie dei boschi (che il popolo chiama forestali, vale a dire i custodi delle reti dei cacciatori, delle riserve di caccia o dei boschi reali) narrano che in certi giorni, verso mezzogiorno e nelle prime ore della notte, quando brilla la luna piena, molto spesso vedono una compagnia di cavalieri che cacciano, con grande frastuono di cani e di corni. A chi fa loro domande, essi rispondono di appartenere al seguito e alla casa di Artù» (Gervais de Tilbury, Il libro delle meraviglie).
Dunque, secondo tali testimonianze Artù dimora proprio nell’Oltretomba. L’isola di Avalon in cui si presume risieda, ha una collocazione incerta: al di là del mare o all’interno di un vulcano.
Non bisogna dimenticare che, nei romanzi arturiani, il termine «isola» non designa obbligatoriamente una terra circondata dal mare (in questo caso, i testi preferiscono parlare di «isole del mare»), ma può anche indicare qualunque sito isolato in una distesa deserta.
Nel testo di Gervais, Artù è ferito, e ricorda sotto ogni aspetto il re méhaigné (infermo) dei romanzi del Graal, e in particolare il Re Pescatore di cui parla Chrétien de Troyes. Perceval, come il palafreniere dell’Etna, avrà l’occasione di penetrare, senza saperlo, nell’Oltretomba e di scoprirne le ricchezze nascoste (il Graal è precisamente un oggetto magico e mitico che esiste solo nell’Altro Mondo e che non è dato a tutti contemplare).
Nel Perceval, il re méhaigné non viene confuso con Artù, ma si suggeriscono segrete somiglianze tra lui e il Re Pescatore (la loro comune attitudine malinconica è un tratto che li ricollega a una stessa apparenza «saturnina»).
Il tema del re ferito che soggiorna nell’Oltretomba è certamente alla base di un importante complesso mitico, ben messo in evidenza da François Delpech. Si tratta di racconti (o talvolta di veri e propri cicli leggendari) nei quali il Primo Re (che ha svolto il ruolo di sovrano pacificatore e civilizzatore) è chiamato a diventare un re dell’Aldilà dopo il suo percorso terreno.
È precisamente il caso di Artù, il quale, dopo aver combattuto una serie di mostri o flagelli dell’isola di Bretagna, si trova rinviato nell’Oltretomba, nella misteriosa isola di Avalon.
(Philippe Walter, Artù e l’orso)