Deleuze – Noi siamo contemplazioni

… la sensibilità dei sensi rinvia a quella sensibilità primaria che siamo noi.
Siamo acqua, terra, luce e aria contratte, lo siamo già, e non soltanto prima di riconoscerle o di rappresentarle, ma addirittura prima di sentirle. Ogni organismo, nei Ernst-figura-ambiguasuoi elementi ricettivi e percettivi, e anche nelle sue viscere, è una somma di contrazioni, di ritenzioni e di attese.
Al livello di tale sensibilità vitale primaria, il presente vissuto costituisce già nel tempo un passato e un futuro. Il futuro appare nel bisogno come forma organica dell’attesa, mentre il passato della ritenzione appare nell’eredità cellulare. E inoltre, le sintesi organiche, combinandosi con le sintesi percettive costruite su di esse, si dispiegano ulteriormente nelle sintesi attive di una memoria e di una intelligenza psico-organiche (istinto e apprendimento).

Non soltanto quindi occorre distinguere forme di ripetizione in rapporto alla sintesi passiva, ma anche livelli di sintesi passive, combinazioni di questi livelli tra loro, e il loro combinarsi con le sintesi attive. Tutto ciò forma un ricco campo di segni, che avvolgono ogni volta l’eterogeneo, e danno vita al comportamento. Difatti ogni contrazione, ogni sintesi passiva, è costitutiva di un segno, che si interpreta o si dispiega nelle sintesi attive.
I segni per cui l’animale «sente» la presenza dell’acqua non somigliano agli elementi di cui il suo organismo assetato ha bisogno. Il modo con cui la sensazione, la percezione, e insieme il bisogno e l’eredità, l’apprendimento e l’istinto, l’intelligenza e la memoria partecipano della ripetizione, si misura in ogni caso con la combinazione delle forme di ripetizione, con i livelli in cui tali combinazioni si elaborano, con la messa in relazione di tali livelli, con l’interferenza delle sintesi attive con le sintesi passive.

Come vada inteso tutto questo campo che si è dovuto estendere fino all’organico, è detto in modo preciso da Hume quando afferma che si tratta del problema dell’abitudine. Ma come spiegare che nei colpi di orologio di Bergson, non altrimenti che nelle sequenze casuali di Hume, ci si sente in effetti così vicini al mistero dell’abitudine, e tuttavia non si riconosce alcunché di quanto viene «abitualmente» chiamata un’abitudine?
La ragione va forse cercata nelle illusioni della psicologia, la quale dopo aver fatto dell’attività il proprio feticcio, è indotta dal timore quasi assurdo dell’introspezione a non osservare se non ciò che si muove, per domandarsi come si piglino delle abitudini agendo.

Klee-murale-tempio

Ma il tal modo tutto lo studio del learning rischia di essere falsato fintantoché non si ponga la domanda preliminare se si assumono delle abitudini agendo o, al contrario, contemplando. La psicologia considera come acquisito che l’io non possa esso stesso a sua volta contemplarsi. Ma non è questo il punto, il problema è di sapere se l’io non sia contemplazione, se non sia in sé contemplazione, e se si possa apprendere, formare un comportamento e formare se stessi in altro modo che contemplando. […]

Siamo contemplazioni, siamo immaginazioni, generalità, pretese e gratificazioni … noi non contempliamo noi stessi, ma non esistiamo se non contemplando, ossia contraendo di volta in volta ciò da cui proveniamo.
La questione di sapere se il piacere sia in sé una contrazione, una tensione, o se invece sia sempre legato a un processo di distensione, è mal posta, in quanto si possono trovare elementi di piacere nella successione attiva delle distensioni e delle contrazioni di eccitanti.
La questione è però ben diversa quando ci chiediamo perché il piacere non sia semplicemente un elemento o un caso nella nostra vita psichica, ma un principio sovrano che la regola in tutti i casi.

Il piacere è un principio, in quanto è l’emozione di una contemplazione gratificante, che contrae in sé i casi di distensione e di contrazione. C’è una beatitudine della sintesi passiva, e noi tutti siamo Narcisi per il piacere che proviamo contemplando (auto-Corot-Atteone-Dianasoddisfazione) benché contempliamo tutt’altro che noi stessi. Noi siamo sempre degli Atteoni per ciò che contempliamo, quantunque siamo poi Narcisi per il piacere che ne ricaviamo.
Contemplare è sottrarre. È sempre altra cosa, è l’acqua, Diana o il bosco che vanno anzitutto contemplati, per riempirsi di un’immagine di sé.

Nessuno più di Samuel Butler ha mostrato che non si dà altra continuità che non sia quella dell’abitudine, e non si hanno altre continuità che non siano quelle delle mille abitudini che ci compongono, formando in noi altrettanti io superstiziosi e contemplativi, altrettanti pretendenti più o meno soddisfatti: «Lo stesso grano dei campi fonda la sua crescita su una base superstiziosa per quanto concerne la sua esistenza, e non trasforma la terra e l’umidità in frumento se non grazie alla presuntuosa fiducia nella propria attitudine a farlo, fiducia o fede in se stesso senza di cui sarebbe impotente» (La vita e l’abitudine).

Solo l’empirista può arrischiare con fortuna formule siffatte.
V’è una contrazione della terra e dell’umidità chiamata frumento, e questa contrazione è una contemplazione e l’auto-soddisfazione di questa contemplazione. Per il solo fatto di esistere il giglio dei campi canta la gloria dei cieli, delle dee e degli dèi, ossia degli elementi che contempla contraendosi.
Quale organismo non è composto di elementi e di casi di ripetizione, di acqua, di azoto, di carbone, di cloruri, di solfati contemplati e contratti, intrecciando così tutte le abitudini di cui si compone?

Gli organismi si risvegliano sotto le parole sublimi della terza Enneade: “tutto è contemplazione”! e forse suona «ironia» affermare che tutto è contemplazione, anche le rocce e i boschi, gli animali e gli uomini, persino Atteone e il cervo, Narciso e il fiore, finanche le nostre azioni e i nostri bisogni.
Ma l’ironia a sua volta è ancora una contemplazione, null’altro che contemplazione … Plotino scrive che non si determina la propria immagine, e non la si possiede, se non rivolgendosi, per contemplarla, verso ciò da cui si proviene.

Van Gogh-grano-luna

È facile moltiplicare le ragioni che rendono l’abitudine indipendente dalla ripetizione: agire non è mai ripetere, né nell’azione che si compie [al presente, qui e ora], né nell’azione già compiuta.
Se è vero che [siamo generalità e che] la generalità è cosa affatto diversa dalla ripetizione, tuttavia questa nostra generalità rimanda alla ripetizione come alla base nascosta su cui si costruisce. [La nostra generalità si struttura a partire da una lunga serie di ripetizioni … tic …. tic … tic … finché non le contraiamo in un tic-tac].

L’azione [la πράσσις] non si costituisce, nell’ordine di generalità e nel campo di variabili che le corrispondono, se non attraverso la contrazione [la ποίησις] di elementi di ripetizione.
Solo che tale contrazione non si fa in sé, ma in un io che contempla e duplica l’agente. E per integrare un insieme di azioni in un’azione più complessa, occorre che le azioni primarie a loro volta svolgano in un «caso» la funzione di elementi di ripetizione, ma sempre in rapporto a un’anima contemplativa sotto il soggetto dell’azione composta. Sotto l’io che agisce, ci sono piccoli io che contemplano, rendendo possibile sia l’azione che il soggetto attivo. Noi diciamo «io» soltanto attraverso i mille testimoni che contemplano in noi, ma è sempre un terzo a dire io. E finanche nel topo del labirinto, e in ogni suo muscolo, vanno poste tali anime contemplative.

Ora, poiché la contemplazione non sorge in alcun momento dell’azione, poiché è sempre in disparte, poiché non «fa» nulla (benché qualcosa, e qualcosa di affatto nuovo si faccia Ernst-Eluardin essa), è facile dimenticarla, e interpretare il processo completo dell’eccitazione e della reazione senza alcun riferimento alla ripetizione, in quanto tale riferimento appare soltanto nel rapporto delle reazioni e delle eccitazioni con le anime contemplative.

Sottrarre alla ripetizione qualcosa di nuovo, sottrarle la differenza, costituisce la funzione dell’immaginazione o dello spirito che contempla nei suoi stati multipli e frazionati. Difatti la ripetizione nella sua essenza è immaginaria, poiché soltanto l’immaginazione forma qui il «momento» della vis repetitiva dal punto di vista della costituzione, facendo esistere ciò che contrae come elementi o casi di ripetizione.
La ripetizione immaginaria non è una falsa ripetizione, che verrebbe a supplire alla mancanza di quella vera, ma la vera ripetizione appartiene all’immaginazione. Tra una ripetizione che non cessa di dileguare, e una ripetizione che si dispiega e si conserva per noi nello spazio della rappresentazione, c’è stata la differenza, che è il per-sé della ripetizione, l’immaginario.

La differenza vive nella ripetizione.
Da una parte, come in lunghezza, la differenza ci fa passare da un ordine all’altro della ripetizione: dalla ripetizione istantanea che dilegua, alla ripetizione attivamente rappresentata, per il tramite della sintesi passiva. Dall’altra, nel profondo, la differenza ci fa passare da un ordine di ripetizione a un altro, e da una generalità a un’altra, nelle stesse sintesi passive.
Lo sbattere di capo del pollo accompagna le pulsazioni cardiache in una sintesi organica, prima che tale movimento serva a beccare del grano nella sintesi percettiva.

E già originariamente, la generalità formata dalla contrazione dei «tic» si ridistribuisce in particolarità nella ripetizione più complessa dei «tic-tac» a loro volta contratti, nella serie delle sintesi passive.
Comunque, la ripetizione materiale e nuda, la ripetizione detta dello Stesso, è l’involucro esterno, come una pelle che si squama, per un nucleo di differenza e di ripetizioni Carrington-donna-fantasmainterne più complicate. La differenza sta tra due ripetizioni, ma questo porta a chiedersi anche se poi la ripetizione sia tra due differenze, facendoci passare da un ordine di differenza a un altro. Per Gabriel Tarde lo sviluppo dialettico sta nella ripetizione come passaggio da uno stato di differenze generali alla differenza singolare, da differenze esterne alla differenza interna, in una parola nella ripetizione come il differenziante della differenza.

La sintesi del tempo costituisce il presente nel tempo, e anche se il presente non è una dimensione del tempo: solo il presente esiste. La sintesi che costituisce quindi il tempo come presente vivente, e il passato e il futuro come dimensioni di tale presente, è tuttavia intratemporale, il che significa che il presente passa.
Certo si può concepire un presente perpetuo, un presente coestensivo al tempo, solo che si faccia convergere la contemplazione sull’infinito della successione di istanti. Ma un tale presente non ha possibilità fisica, in quanto la contrazione nella contemplazione opera sempre la qualificazione di un ordine di ripetizione secondo elementi o casi, formando di necessità un presente di una certa durata, un presente che si esaurisce e passa, variabile secondo le specie, gli individui, gli organismi e le parti di organismo considerate.

Due presenti successivi possono essere contemporanei anche di un terzo, più esteso per il numero di istanti che contrae. Un organismo dispone di una durata di presente, di diverse durate di presente, secondo la portata naturale di contrazione delle sue anime contemplative.
Ciò significa che la fatica appartiene realmente alla contemplazione, per cui si dice giustamente che colui che non fa nulla si stanca, e che la fatica segna il momento in cui l’anima non può più contrarre ciò che contempla, in cui contemplazione e contrazione vengono meno.

Noi siamo un composto tanto di fatica quanto di contemplazione. Questo chiarisce perché un fenomeno come il bisogno possa essere compreso sotto la specie della «mancanza» dal punto di vista dell’azione e delle sintesi attive che determina, ma per contro come un’estrema «sazietà», come una «fatica» dal punto di vista della sintesi passiva che lo condiziona.
Infatti il bisogno segna appunto i limiti del presente variabile, che si estende tra due insorgenze di bisogno, confondendosi col tempo che dura una contemplazione.

Matta-macchinazione

La ripetizione del bisogno, e di tutto ciò che ne deriva, esprime il tempo proprio della sintesi del tempo, il carattere intratemporale di questa sintesi. La ripetizione è iscritta essenzialmente nel bisogno, poiché il bisogno si fonda su un’istanza che riguarda essenzialmente la ripetizione, forma il per-sé della ripetizione, un per-sé di una certa durata.
È partendo dalle nostre contemplazioni che si definiscono tutti i nostri ritmi, le nostre riserve, i nostri tempi di reazioni, i mille intrecci, i presenti e le fatiche che ci compongono. La regola è che non si può andare più in fretta del proprio presente, o meglio dei propri presenti.

(Deleuze, Differenza e ripetizione)

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Siamo già fatti di acqua di terra d’aria e di luce, prima non solo di giungere a farci un concetto e a dare un nome a ciascuna di essa, ma addirittura ancor prima di sentirle, di percepirle.
La percezione dei nostri sensi non scrive dunque su un foglio bianco, né il primo sguardo dei nostri occhi si apre su un mondo che essi non hanno già contemplato, e chissà quanti milioni di volte. E tutte le volte è l’Immaginazione che ha ripetuto e Leonor-Fini-storia-Ocontinua a ripetere il suo stupore nei nostri occhi: che essi si aprano, incuriositi, al mondo è già una prova della sua ripetizione nei nostri «geni».

Gli occhi non vedono soltanto. Gli occhi immaginano. Le loro percezioni non sono primariamente al servizio del nostro intelletto, ma rispondono alla domanda antica di stupore … alla pretesa di miraggio – che Lei avanza, l’Immaginatrice, la Senziente, dai nostri sensi immaginali.
Perciò, quando si dice che la physis dei Greci non è riducibile alla nostra «fisica», quando si dice che la loro Natura era «vivente» a differenza delle nostre «nature morte» – questo si può intendere: che Lei è Persona, e che ha un corpo e un’anima, e che ha nell’Uomo il corpo di un essere su cui Lei può, finalmente, scrivere le sue memorie.

Gli occhi dunque ricordano, fin dal primo sguardo, ma la loro non è memoria di un io già costituito. È la Ripetente che nei loro miraggi si rammemora degli scarti e delle differenze che non cessano di sorprenderla e stupirla.
Gli occhi non vedono, e basta. Non sono gli occhi di una tabula rasa, come pretendeva la buonanima di Aristotele, non scrivono su una pagina vergine. Portano, si dice, con sé il fardello di un «peccato» antico quanto l’avvento della nostra specie.
Gli occhi si aprono, fin dalla prima volta, su un mondo già mille e mille volte visionato. E già abituati a scrivere lo stupore delle loro visioni sulla propria eredità cellulare. A scriverlo, ovviamente, nel linguaggio che la Physis, Lei, in essi parla da tempo immemorabile.

Il presente di questi occhi, il loro «veduto», è dunque da subito nel tempo: ha già un passato e un futuro. Il passato è il loro «corpo», il «corpo», il dna che ereditano dalla Specie. Il futuro è la loro «fame», la loro attesa o pretesa di soddisfare il loro «bisogno».
Sono occhi affamati sin dal primo sguardo. Sono occhi che commemorano l’abitudine allo Stupore che acqua e fuoco, aria e terra hanno contratto con e nelle loro cellule. Alleanza di natura – patto esistenziale a cui i Greci non si sottraevano quando dicevano physis. Non dicevano materia oculare, bulbo, iride o quant’altro – se non come il «corpo», l’«organo» che l’immaginazione si dà in ciascuno di noi. Dicevano l’«anima» dei nostri sguardi. Dicevano l’abitudine e il desiderio che essi hanno di contemplare. E di Dalì-contemplazionecontemplare l’Altro, anche quando – come nel caso di Narciso è evidente – essi stanno di fronte alla propria immagine riflessa.

Anche là essi «immaginano» l’Altro. Nel presente «veduto» essi ripetono il dejà vu più che millenario, e anelano al mai visto che soddisferà fino in fondo la loro curiosità.
Ma sì, la Natura è curiosa di se stessa, e perciò si guarda e s’interroga in tutte le contemplazioni delle «anime viventi», perfino di quelle che «vivono» addormentate nelle pietre.

I nostri occhi percepiscono e immaginano, vedono e sono ereditariamente attrezzati a sintetizzare il «veduto». Quelle che i nostri occhi «registrano» in principio, quando cioè non hanno ancora passato le Rupi Cozzanti del linguaggio simbolico, sono quelle che qui Deleuze chiama «sintesi passive»: i nostri occhi le scrivono sui nostri organi, cioè sulle «sintesi organiche» del nostro dna. E chiama invece «sintesi attive» (in quanto atti, azioni di un io) la memoria e l’intelligenza.
La memoria non è la rammemorazione – come l’io non è il Soggetto della contemplazione negli occhi di un neonato. L’io non è che il resto di una ripetizione … abortita molti giorni e molte notti dopo.

C’è un campo, dice Deleuze, di ripetizioni molteplici caotiche indifferenziate che si estende dall’«organico» fino all’apparizione di un «io» memore di una perdita di stupore nei suoi sguardi. Un vasto campo, nell’attraversare il quale (nei nostri primissimi tempi) prendiamo delle «abitudini».
Domanda: le prendiamo agendo o contemplando? Le prende il nostro «io» nei suoi spostamenti, o il nostro «io» è, esso, un’abitudine che la Natura ha preso nella nostra Specie? Insomma: le prende il nostro «corpo» in movimento, o la nostra «anima» paralizzata sotto il dominio dell’Immaginatrice?