Ripartiamo dal punto culminante del sogno esemplare dell’iniezione a Irma. La ricerca del sogno, proseguendo la ricerca della sera prima, arriva all’apertura, a quella bocca aperta al fondo della quale Freud vede l’immagine terrificante e composita che abbiamo paragonato alla rivelazione della testa di Medusa.
L’esempio di questo sogno non è l’unico. Coloro che hanno partecipato ai miei seminari l’anno prima che si tenessero qui, ricordano forse il carattere singolare dell’uomo dei lupi, di cui si potrebbe dire che, rispetto all’insieme dell’analisi del caso, ha una funzione di punto culminante analoga a quella che individuiamo nel sogno dell’iniezione a Irma. Esso interviene infatti dopo un lungo periodo di analisi di cui Freud stesso rivela il carattere estremamente intellettualizzato – il termine non è nel testo, ma corrisponde a ciò che Freud vuol dire –, una specie di gioco analitico, che costituisce sì un’autentica ricerca da parte del soggetto, ma che resta a lungo in superficie, e quasi inoperante. È un’analisi stagnante e che si annuncia interminabile, quando finalmente appare il sogno, rinnovato in un’occasione precisa della vita del soggetto, che acquista tutto il suo valore essendosi ripetuto più volte a partire da un certo periodo dell’infanzia.
Che cosa è questo sogno? È l’apparizione, al di là di una finestra bruscamente aperta, dello spettacolo di un grande albero, sui cui rami sono appollaiati dei lupi. Nel sogno e nel disegno che il soggetto ha lasciato, e che Freud ha riprodotto, essi sono abbastanza enigmatici perché possiamo legittimamente chiederci se si tratta proprio di lupi, forniti come sono di singolari code di volpe, su cui ci siamo già fermati a suo tempo.
Questo sogno, voi lo sapete, si rivela di un’estrema ricchezza, e le associazioni che mette in moto condurranno Freud e il suo soggetto nientemeno che alla scoperta puramente supposta, ricostruita, della scena primaria.
La scena primaria è ricostruita a partire dagli indizi che si operano nel corso dell’analisi, non è rivissuta. Nulla sorge nella memoria del soggetto – dovremo interrogarci sul termine memoria – che ci permetta di parlare di una risurrezione della scena, ma tutto induce alla convinzione che essa si sia svolta proprio così.
Si ha dunque, tra questa scena e ciò che il soggetto vede nel sogno, un’apertura ben più significativa della distanza normale tra contenuto latente e contenuto manifesto di un sogno. E tuttavia, in ambedue i casi, c’è una visione che affascina, che sorprende per un momento il soggetto in una presa in cui si perde.
La visione del sogno appare a Freud come il rovesciamento della fascinazione dello sguardo. Nello sguardo dei lupi, così angosciante nel racconto del sognatore, Freud vede l’equivalente dello sguardo incantato del bambino davanti alla scena che lo ha segnato profondamente nell’immaginario e ha deviato tutta la sua vita istintuale.
C’è qui una rivelazione unica e decisiva del soggetto, in cui si concentra un non so che di indicibile e in cui il soggetto è per un istante perduto, esploso. Come nel sogno dell’iniezione a Irma, il soggetto si decompone, svanisce, si dissocia nei suoi diversi io. […]
Nei due sogni in questione, ci troviamo di fronte a una sorta di vissuto ultimo, all’apprensione di un reale ultimo. Il più angosciante nella vita di Freud, i suoi rapporti con le donne, i suoi rapporti con la morte, si sovrappongono nella visione centrale del sogno, e potrebbero certamente esserne estratti attraverso un’analisi della associazioni.
Immagine enigmatica a proposito della quale Freud evoca l’ombelico del sogno, quella relazione abissale col sommamente ignoto, che è il marchio di un’esperienza privilegiata eccezionale e in cui un reale è colto al di là di ogni mediazione, immaginaria o simbolica.
In breve si potrebbe dire che tali esperienze privilegiate, e forse specialmente nel sogno, siano caratterizzate dal rapporto che vi si stabilisce con un altro assoluto, voglio dire con un altro al di là di ogni intersoggettività.
È in modo tutto particolare sul piano immaginario che questo aldilà del rapporto inter-soggettivo è raggiunto. Si tratta di un dissimile essenziale, che non è né il supplemento né il complemento del simile, e che è l’immagine stessa della dislocazione, della lacerazione essenziale del soggetto.
Il soggetto passa al di là del vetro in cui vede sempre, confusa, la propria immagine. È la cessazione di ogni interposizione tra il soggetto e il mondo. Si ha la sensazione che si passi in una sorta di a-logica, ed è proprio qui che inizia il problema, perché vediamo che non ci siamo affatto.
Eppure il logos non vi perde tutti i suoi diritti, poiché è qui che ha inizio la significazione essenziale del sogno, significazione liberatoria, poiché è da qui che Freud trova la via d’uscita alla sua colpevolezza latente.
Allo stesso modo, al di là dell’esperienza terrificante del sogno dell’uomo dei lupi il soggetto troverà la chiave dei suoi problemi.
È proprio la questione che abbiamo incontrato nella piccola riunione scientifica di ieri sera – in che misura il rapporto simbolico, il rapporto di linguaggio, resta valido al di là del soggetto, caratterizzato com’è di essere centrato in un ego, da un ego, per un alter-ego?
La conoscenza umana, e nello stesso tempo la sfera dei rapporti della coscienza, è fatta di un certo rapporto con quella struttura che chiamiamo l’ego, attorno alla quale si centra la relazione immaginaria. Questa ci ha insegnato che l’ego non è mai soltanto il soggetto, ma è essenzialmente rapporto con l’altro, con il suo punto di partenza e d’appoggio nell’altro. È da questo ego che tutti gli oggetti sono guardati.
Ma è invece dal soggetto, da un soggetto originariamente discordante, fondamentalmente frammentato da questo ego, che tutti gli oggetti sono desiderati. Il soggetto non può desiderare senza dissolversi, e senza vedere, proprio per questo, l’oggetto sfuggirgli in una serie di spostamenti infiniti – alludo a quel che chiamo, sinteticamente, il disordine fondamentale della vita istintuale dell’uomo.
La dialettica della coscienza ha qui il suo punto di partenza nella tensione tra il soggetto – che non potrebbe desiderare senza essere fondamentalmente separato dall’oggetto – e l’ego, da cui parte lo sguardo verso l’oggetto.
Ho cercato di forgiare per voi il mito di una coscienza senza ego, che potrebbe essere definita come il riflesso della montagna in un lago.
L’ego appare, nel mondo degli oggetti, come un oggetto, certo privilegiato. La coscienza nell’uomo è per essenza tensione polare tra un ego alienato al soggetto e una percezione che fondamentalmente gli sfugge, un puro percipi.
Il soggetto sarebbe strettamente identico a questa percezione, se non ci fosse questo ego che lo fa, per così dire, emergere dalla sua stessa percezione in un rapporto tensionale.
In certe condizioni questo rapporto immaginario raggiunge anche lui il proprio limite, e l’ego svanisce, si disfa, si disorganizza, si dissolve. Il soggetto è precipitato in un faccia a faccia con qualcosa che non può in alcun modo essere confuso con l’esperienza quotidiana della percezione, qualcosa che potremmo chiamare un id, e che chiameremo semplicemente, per non fare confusione, un quod, un che cos’è?
La questione che ci porremo oggi è quella del faccia a faccia del soggetto al di là dell’ego con questo quod. È forse sostenibile un’interrogazione su questo quod ultimo, che è quella dell’esperienza del soggetto inconscio in quanto tale, di cui non sappiamo più che cosa esso sia?
L’evoluzione stessa dell’analisi ci mette qui in un singolare imbarazzo, in quanto essa considera come dato irriducibile queste tendenze del soggetto, che d’altro canto ci mostra permeabili, attraversate e strutturate come significanti, che giocano al di là del reale, nel registro del senso, sull’equivalenza tra significato e significante nel suo aspetto più materiale, quali giochi di parole, calembour, motti di spirito – il che conduce in fin dei conti all’abolizione delle scienze umane, in quanto il termine ultimo del motto di spirito è di dimostrare la supremazia del soggetto rispetto al significato stesso, poiché l’usa come vuole e se ne fa gioco essenzialmente per annientarlo.
(Lacan, Il Seminario: 2)
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Il «punto culminante» dei due sogni in questione è segnato dall’apparizione dell’Immagine Terrifica, da quella visione angosciata della Medusa che «pietrifica» lo sguardo che è stato così audace da gettarsi, di nuovo!, in un folle faccia a faccia col Mostro.
Lacan dice che questo «mostro» abita alla frontiera col Reale Ultimo, che questo Drago monta la guardia sul confine al di là del quale non c’è che il Reale Immediato, il Reale nudo e crudo, il Reale spoglio di ogni specie di mediazione, non solo simbolica, ma perfino immaginaria. Il Reale che ammutolisce tutte le parole, e abroga tutti i segni, e nel Terrore della sua deformità (che per Lacan sarebbe il caos del nostro mondo istintuale) acceca tutte le immagini.
Quando questa Medusa riemerge dalla gola profonda di Irma, o dall’albero sui cui rami stanno in agguato i Lupi – siamo dunque «al culmine» del sogno: a quel punto non c’è più nulla da dire o da vedere; anzi, di solito non c’è più nulla neanche da sognare, tant’è che i più a quel punto si svegliano.
No, non è più un sogno, è un incubo, e c’è una Porta terribile da attraversare: solo Giasone e gli Argonauti, stando a quel che dice il Racconto, solo loro passano le Simplegadi – le Rocce Cozzanti dei due linguaggi (simbolico e immaginario) – e proseguono il sogno alla volta del … vello d’oro.
In quella Terribile, ma insieme Fascinosa, Apparizione in fondo alla bocca aperta di Irma o tra le fauci dei Lupi – si rivela, dice Lacan, qualcosa di unico, lo Scoglio contro cui il sognatore va a sbattere e si frantuma nei mille pezzi e nei molteplici colori dello spettro dei suoi diversi io.
Non c’è più il Sognatore che sta sognando, non più uno ma una miriade di differenti sognatori hanno preso il suo posto, ognuno dei quali è una scheggia di Orfeo lacerato e fatto a pezzi – ognuno una Folla di «poeti», a cui manca però la Parola dell’iperbole che, sola, potrebbe tenerli tutti assieme.
Quando quell’Apparizione, «bella e terrifica», ci appare – quando il Mostro ci si mostra – siamo, dice Freud, all’Ombelico dei nostri sogni. Siamo là dove si ripete il Sogno Antico, e non c’è nessun «padrone» del Sogno: siamo in tanti, insieme, a sognarlo. Siamo tutti gli ego che siamo stati, tutte le maschere che abbiamo indossato, tutti i ruoli che abbiamo recitato – ma nessuno in particolare. Siamo tanta gente, siamo addirittura la Gente – siamo il SI che si ripete sempre sognando il suo Rimosso, ma ogni volta in modo differente.
Siamo lo scarto differenziale tra un colore e l’altro dei suoi sogni, siamo l’unghia dell’alluce di un Sognatore sconosciuto – che sognò una volta il vello d’oro e partì alla sua ricerca.
Il Mostro è l’Apparizione, è ciò che di sé mostra la Ripetizione Sconosciuta. È l’Immagine estrema, ai confini del nostro mondo immaginale. È la Scena primaria che a ogni ripetizione rinnova la stessa Paura, e suscita la stessa angoscia.
Oltre, al di là non c’è che il «dissimile essenziale», il Differente che non può essere identificato e fissato una volta per tutte in una sua forma stabile e duratura, il Differente che sconfigge tutti i nostri sforzi per addomesticarlo a un’equazione, la Differenza irriducibile a tutti i nostri linguaggi.
Oltre, siamo al di là dell’Immagine – ma anche, ci tiene a sottolineare Lacan, al di là del Logos, al di là della Parola e della sua «logica».
E tuttavia, dice subito dopo, il Logos – in questo Reame sconosciuto – non perde, malgrado la sua «estraneità», tutti i suoi diritti. È l’immaginazione, essa sola, a dover «chiudere un occhio», a dover accecare Polifemo. E tuttavia, anche accecato, Polifemo ancora parla.
Il SI della folla, il SI della Gente in cui si è dissolto il sognatore individuale, in cui è tornato a sciogliersi come in principio, quel SI è ancora là – è la Nave che di là dalle Simplegadi – e parla, chiacchiera, fa miti e racconti, e fa perfino le stelle del nostro cielo, ma soprattutto fa giochi di parole, poesie e motti di spirito. È così che ama pazziare il SI: si diverte a distruggere tutto, ogni senso, ogni mediazione, ogni scusa, ogni possibilità d’entrare con la scoppola in una sorta di rappresentazione cosciente della sua artistica insensatezza.
Nessuno lo padroneggia.
La questione allora è: se i due Scogli cozzanti, le due Imposte della Finestra o della Porta, sono i due linguaggi – immaginario e simbolico – e se dunque il Mondo Simbolico non può che essere al di qua del Reale Ultimo, del Reale Immediato (il simbolo è, per definizione, medium), è legittimo poi supporre che la Parola, il Logos, sia ancora all’opera al di là delle Simplegadi?
Una volta «accecata» l’Immagine dalla sua insostenibile crudezza, non dovrebbe rassegnarsi a tacere anche la Parola? non dovrebbe ammutolirsi dinanzi alla potenza indicibile del Mostro?
È una questione decisiva: si tratta di comprendere di che «legno» è fatta la nave Argo, da quale foresta proviene quel «legno», da quale scure è stato abbattuto il suo Albero, e a quale prezzo tutto questo è avvenuto. Si tratta di capire se abbiamo diritto a parlare, noi di qua dalle Rupi Cozzanti, di coloro che le passano e che … raramente ritornano. E se ritornano, è come Orfeo che ritornano: a mani vuote, lacerati e fatti a pezzi.
Ebbene, questi «pezzi» che parlano e fanno canto e poesia – questi «resti», sono le code amputate alla colomba o bruciate alla volpe, sono l’estremità della poppa della nave Argo, sono gli echi di una Parola troncata durante il passaggio delle Simplegadi, al tempo a cui nascemmo a un ego.
E a volte ritornano di là, sono frammenti galleggianti di una Parola più antica di ogni ego, sono echi della Parola della Gente, della Coscienza senza ego – dice Lacan: di quel Soggetto (SI) che desidera tutti gli oggetti (per ricomporre forse il corpo del Poeta), che s’invaghisce di tutte le forme di apparizione della sua «Euridice», che insegue tutte le promesse e crede a tutti i giuramenti della sua Sposa, e che a tutto questo anela come al solo Vello d’oro. All’Uno, nientemeno!
Lacan lo chiama quod – un certo non so che, che si accinge a decifrare.
E sia: la Ripetizione è così che ama pazziare, ama cambiare le carte in tavola, storpiare le parole, dare a ciascuno di noi l’illusione di una scoperta originale, pur di ripetersi a nostra insaputa.
Che lo chiami quod o vello d’oro, non fa che uno stesso «tornare» (a galla) del Differente: è sempre lo stesso ritornello in cui il Differente si pareggia e si pareggia nel discorso dell’ego – in questo modo tenendolo in tensione verso gli oggetti del suo desiderio.