Ovidio – Galatea, Aci e Polifemo

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Molti pretendenti spasimavano per Scilla, ma lei tutti li respingeva e, carissima alle ninfe del mare, soleva andare da loro a raccontare come eludeva le profferte dei suoi giovani innamorati.
Un giorno Galatea, mentre le offriva la chioma da pettinare, sospirando dal profondo del cuore, le fece questo discorso: «Tu almeno, fanciulla, sei desiderata da uomini civili e puoi negarti a loro, come fai, senza timore. Ma io, che pure sono figlia di Nereo, partorita dalla cerulea Doride, che ho alle spalle uno stuolo di sorelle, solo a prezzo di grandi sofferenze ho potuto sottrarmi alla passione del Ciclope».
E il pianto le impedì di continuare.

La fanciulla glielo deterse con le dita bianche come il marmo e, dopo averla consolata: «Racconta, carissima – le disse –, e non celarmi (di me puoi fidarti) la causa del tuo dolore».
Allora la Nereide così rispose alla figlia di Crateide:

Aci era figlio di Fauno e d’una ninfa del Simeto: delizia grande di suo padre e di sua madre, ma ancor più grande per me; solo a lui infatti mi ero legata.
Bello, aveva appena compiuto sedici anni e un’ombra di peluria appena gli ombreggiava le tenere guance. Io per lui spasimavo, e il Ciclope per me, a non finire, e se tu mi Aci-Galateachiedessi cosa prevaleva in me, l’odio per il Ciclope o l’amore per Aci, non saprei rispondere: erano pari.

Oh, quanto potente sei, alma Venere! Ecco: quell’essere crudele, ripugnante persino alle selve, che solo a rischio della propria vita può un estraneo avvicinare, che spregia il grande Olimpo e i suoi numi, comincia a provare cosa sia l’amore e, preso da violenta smania, arde, dimenticandosi delle sue greggi e delle sue caverne.
Ora, ti preoccupi del tuo aspetto, di farti bello, Polifemo, e col rastrello ti pettini i ruvidi capelli; ora, provi piacere a tagliarti l’ispida barba con un falcetto, e a specchiare nell’acqua il viso per studiare un’espressione meno truce. Ora che t’è passato il gusto della strage, la ferocia e la sete immensa di sangue, le navi vanno e vengono sicure.

Un giorno Tèlemo, sospinto fin sotto l’Etna in Sicilia, Tèlemo, figlio di Èurimo, che mai fallì un presagio, va dal terribile Polifemo e gli dice: «Quest’unico occhio che porti in mezzo alla fronte, te lo caverà Ulisse».
Lui se la ride: «O stupidissimo indovino, ti sbagli – risponde –, un’altra creatura mi ha già accecato».
E così disprezza chi invano lo avverte dicendogli la verità, e a passi enormi cammina su e giù per la spiaggia per fare ritorno, quando è stanco, nel suo antro buio.

C’è un colle che si protende nel mare come un lungo cuneo aguzzo; su entrambi i lati gli si frangono intorno le onde. Il feroce Ciclope vi sale e s’adagia sulla cima; pur lasciate a se stesse, lo seguono le greggi di pecore. Quando ai propri piedi ebbe posato il pino che gli serviva da bastone (un pino adatto a reggere pennoni), prese una zampogna composta da un centinaio di canne, e tutti i monti allora risuonarono di note pastorali, e ne risuonò persino il mare.
Io nascosta dietro una rupe, accoccolata in grembo al mio Aci, colsi di lontano
il suo canto, di cui ricordo ancora le parole:

«O Galatea, più candida di un candido petalo di ligustro, più in fiore di un prato, più slanciata dell’alto ontano, più splendente del cristallo, più gaia di un capretto appena nato, più liscia di conchiglie levigate dal flusso continuo del mare, più gradevole del sole in inverno, dell’ombra d’estate, più amabile dei frutti, più attraente del grande platano, più luminosa del ghiaccio, più dolce dell’uva matura, più morbida di una piuma di cigno Moreau-Galateae del latte cagliato, e, se tu non fuggissi, più bella di un orto irriguo; ma ancora, Galatea, più selvaggia di un indomito giovenco, più dura di una vecchia quercia, più infida dell’onda, più sgusciante dei virgulti del salice e della vitalba, più insensibile di questi scogli, più violenta di un fiume, più superba del pavone che si sente ammirato, più furiosa del fuoco, più aspra delle spine, più ringhiosa dell’orsa che allatta, più sorda dei marosi, più spietata di un serpente pestato, e, cosa che più d’ogni altra vorrei poterti togliere, più veloce, quando fuggi, non solo del cervo incalzato dall’urlo dei latrati, ma anche del vento e della brezza fuggente! Eppure, se mi conoscessi un po’ meglio, ti pentiresti d’esser fuggita e, cercando di trattenermi, ti danneresti per il tempo perduto.

«Possiedo delle grotte, in una parte del monte, con la volta di roccia viva, dove non si soffre il sole in piena estate né il gelo d’inverno. Ho alberi carichi di frutta e, sui lunghi tralci del vigneto, un’uva che sembra d’oro, e un’altra color porpora: per te le serbo entrambe. Tu stessa con le tue mani potrai cogliere tenere fragole nate all’ombra dei boschi, corniole in autunno e prugne, non solo quelle violacee dal succo scuro, ma anche quelle pregiate che sembrano di cera fresca. Se mi sposerai, non ti mancheranno le castagne, né i frutti del corbezzolo: ogni pianta sarà al tuo servizio.

«Tutto questo bestiame è mio; molto altro vaga per le valli, molto si nasconde nel bosco e molto ancora è chiuso nelle grotte. Se tu me lo chiedessi, non saprei dirtene il numero. Solo i poveri contano le bestie. Sulla loro qualità non pretendo che tu mi creda: vieni sul posto e vedrai da te come a stento stringano tra le zampe poppe così gonfie. E aggiungi i piccoli appena nati, agnelli in tiepidi ovili, capretti della stessa età in altri ovili. Da me non manca mai il niveo latte: parte è destinato al bere, parte si fa rapprendere sciogliendovi il caglio. E i regali che riceverai non saranno le solite bestiole, troppo facili, come cerbiatti, lepri o capretti, una coppia di colombi o un nido tolto dalla cima di un albero. In vetta alla montagna, perché possano con te giocare, ho scovato due cuccioli d’orsa villosa, così simili fra loro, che a stento sarai in grado di distinguerli; li ho scovati e ho detto: “Questi li terrò per la mia donna”.

Galatea-Polifemo-mosaico

«Avanti, solleva il tuo bel capo dal mare azzurro! Avanti, vieni, Galatea, e non disprezzare i miei regali. Io mi conosco, sai, poco fa in uno specchio d’acqua mi son visto riflesso e ciò che ho visto del mio aspetto mi è piaciuto. Guarda quanto son grande: neppure Giove in cielo ha un corpo più grande del mio (voi infatti parlate sempre di non so quale Giove sarebbe il vostro re). Una chioma foltissima mi spiove sul volto truce e mi vela d’ombra le spalle, come un bosco. E non credere brutto il mio corpo perché è irto di fittissime e dure setole; brutto è l’albero senza fronde, brutto è il cavallo senza criniera che gli ammanti il biondo collo; piume ricoprono gli uccelli, la lana è la bellezza delle pecore: agli uomini si addicono la barba e il pelo ispido sul corpo.

«Ho un occhio solo in mezzo alla fronte, ma assomiglia a un grande scudo. E poi? Dall’alto del cielo il Sole non vede forse tutto l’universo? Eppure anche lui ha un occhio solo. Aggiungi che mio padre regna sul vostro mare: io te l’offro come suocero. Abbi solo un po’ di pietà e ascolta, ti supplico, le mie preghiere: a te sola infatti mi sono prosternato. Io che disprezzo Giove, il cielo e il fulmine che tutto penetra, temo solo te, Nereide: peggiore del fulmine è l’ira tua.

«Ma persino il tuo disprezzo potrei sopportare, se tu rifiutassi tutti. Perché invece respingi il Ciclope e ami Aci? Perché ai miei amplessi preferisci i suoi? Lui si compiaccia pure di se stesso e, cosa che non vorrei, piaccia anche a te, Galatea; ma se mi capita tra le mani, sentirà che la mia forza corrisponde a questo corpo immenso. Lo squarterò vivo e Galatea-Polifemo-affrescoper i campi, sopra le acque in cui vivi, a brandelli scaglierò le sue membra: e s’unisca a te se gli riesce! Brucio, sì, brucio, e la mia passione offesa divampa ancora più furiosa, mi sento come se con tutta la sua potenza l’Etna mi sia entrato in petto: ma tu, Galatea, non ti scomponi!».

Dopo questi vani lamenti (infatti vedevo tutto) si alzò e, come toro furibondo per la compagna che gli hanno sottratto non può star fermo, si mise a vagare per boschi e forre a lui ben noti.
Così quell’essere feroce, senza che ce l’aspettassimo, ci sorprese ignari, me ed Aci, e urlò: «Vi ho colto, e questo, state certi, sarà l’ultimo vostro convegno d’amore!».
E la sua voce fu così assordante, come è giusto che l’avesse un Ciclope infuriato: un urlo che terrorizzò persino l’Etna.

Io sgomenta mi tuffo sott’acqua, nel mare lì vicino; il nipote del Simeto, voltate le spalle, fuggiva gridando: «Aiutami, Galatea, ti prego; aiutatemi, aiutatemi, genitori miei, ma se mancassi, accoglietemi nel vostro regno!».
Il Ciclope l’insegue e, staccato un pezzo di monte, glielo scaglia contro, e benché soltanto lo spigolo esterno del masso lo colpisca, Aci ne viene del tutto travolto. Noi, unica cosa che permetteva il destino, facemmo in modo che in Aci riaffiorasse la natura avita.

Dal masso colava un sangue rosso cupo: non passa molto tempo che il rosso comincia a impallidire, prima assume il colore di un fiume reso torbido dalla pioggia, poi lentamente si depura. E infine il macigno si fende e dalle fessure spuntano canne fresche ed alte, mentre la bocca apertasi nel masso risuona d’acqua a zampilli.
È un prodigio: all’improvviso ne uscì sino alla vita un giovane con due corna nuovissime inghirlandate di canne, che, se non fosse stato così grande e col volto ceruleo, Aci sarebbe stato. Ma anche così era davvero Aci, mutato in fiume, un fiume che ha conservato il suo antico nome.

(Ovidio, Metamorfosi, 13: 735-897)