Borges – L’immortalità

In un libro ammirevole come tutti i suoi, Le varietà dell’esperienza religiosa, William James dedica una sola pagina al problema dell’immortalità individuale. Afferma che per lui è un problema secondario.
Sicuramente, non è questo un problema basilare della filosofia, come lo è il tempo, la conoscenza, il mondo esterno: James chiarisce che il problema dell’immortalità Borges-angeli-francobolloindividuale si confonde col problema religioso. Per quasi tutti, per la gente comune – dice James – «Dio è il produttore dell’immortalità intesa individualmente».

Senza accorgersi dell’ironia della frase, Miguel de Unamuno la ripete testualmente nel Senso tragico della vita: «Dio è il produttore dell’immortalità», ma ripete anche spesso che vuol continuare a essere Miguel de Unamuno. E qui io non lo capisco più; io non voglio continuare a essere Jorge Luis Borges, io voglio essere un’altra persona. Spero che la mia morte sia totale, spero di morire in corpo e anima.

Io non so se è ambiziosa o modesta, o del tutto giustificata, la mia pretesa di parlare dell’immortalità individuale, dell’anima che conserva una memoria di quando è stata sulla terra e che ormai nell’altro mondo se ne ricorda. Nei giorni scorsi mia sorella Norah è venuta a trovarmi e mi ha detto: «Dipingerò un quadro intitolato Nostalgie della terra, che avrà per soggetto quel che un beato sente in cielo pensando alla terra. Lo farò con elementi della Buenos Aires di quando ero piccola». Io ho una poesia, che mia sorella non conosce, con un tema analogo. Penso a Gesù, che ricorda la pioggia in Galilea, l’aroma della falegnameria e una cosa che non ha mai visto in cielo e di cui ha nostalgia: la volta stellata.

Questo tema della nostalgia della terra in cielo è presente in una poesia di Dante Gabriel Rossetti. Si tratta di una ragazza che è in cielo e si sente addolorata perché il suo amante non è con lei; nutre la speranza che un giorno arrivi, ma lui non arriverà mai perché ha peccato e lei continuerà ad aspettarlo per sempre.
William James dice che secondo lui si tratta di un problema secondario; che i grandi problemi della filosofia sono quelli del tempo, della realtà del mondo esterno, della conoscenza. L’immortalità occupa un posto secondario, un posto che è di pertinenza non tanto della filosofia quanto della poesia e, naturalmente, della teologia o di certe teologie, non tutte.

Esiste un’altra soluzione, quella della trasmigrazione delle anime, sicuramente poetica e più interessante dell’altra, secondo cui seguiteremmo a essere chi siamo e a ricordare trasmigrazione-Krsnacosa siamo stati; ma, a mio avviso, questo è un argomento povero.
Ricordo dieci o dodici immagini della mia infanzia e tento di dimenticarle. Quando penso alla mia adolescenza non mi rassegno a quella che ho avuto; avrei preferito essere diverso. Allo stesso tempo, tutto ciò può essere trasmutato dall’arte, essere tema di poesia.

Il testo più commovente di qualsiasi filosofia – senza esserselo proposto – è il Fedone platonico. Questo dialogo racconta l’ultimo pomeriggio di Socrate, quando i suoi amici sanno che è giunta la nave di Delo e Socrate berrà la cicuta quel giorno.
Socrate li riceve in carcere, sapendo che sta per essere giustiziato. Li riceve tutti meno uno. E qui troviamo la frase più commovente che Platone abbia mai scritto in vita sua, come ha indicato Max Brod. Il passo dice così: «Platone, credo, era ammalato». Fa notare Brod che è l’unica volta che Platone si nomina in tutti i suoi lunghi dialoghi. Se Platone scrive il dialogo, è stato senza dubbio presente – e se non lo è stato, è lo stesso – e si nomina in terza persona; insomma, si mostra a noi come insicuro di aver assistito a quel gran momento.

Si è congetturato che Platone abbia messo questa frase per essere più libero, come se volesse dirci: «Io non so che cosa abbia detto Socrate nell’ultimo pomeriggio della sua vita, ma mi piacerebbe che avesse detto queste cose». Oppure: «Io posso immaginarmelo mentre dice queste cose».
Credo che Platone abbia sentito l’insuperabile bellezza letteraria di dire: «Platone, credo, era ammalato».

Poi segue un passo ammirevole, forse la cosa più ammirevole di tutto il dialogo. Gli amici entrano, Socrate è seduto sul letto e gli hanno già tolto i ceppi; sfregandosi le ginocchia e sentendo il piacere di non sentire il peso delle catene, dice: «Che strano! Le catene mi pesavano, era una sorta di dolore. Ora sento sollievo perché me le hanno tolte. Il piacere e il dolore vanno insieme, sono gemelli».
È ammirevole che in quel momento, l’ultimo giorno della sua vita, non dica che sta per morire, ma che rifletta che il piacere e il dolore sono inseparabili. È uno dei passi più commoventi che si trovino nell’opera di Platone. Ci mostra un uomo coraggioso, un uomo che sta per morire e non parla della propria morte imminente.

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Poi si racconta che quel giorno deve prendere il veleno e quindi segue la discussione da noi fraintesa perché vi si parla di due esseri: di due sostanze, dell’anima e del corpo. Socrate dice che la sostanza psichica (l’anima) può vivere meglio senza il corpo; che il corpo è un ostacolo. Ricorda quella dottrina – diffusa nell’antichità – secondo cui siamo incarcerati nel nostro corpo.

Volevo qui ricordare brevi versi del grande poeta inglese Brooke, che dice – con ammirevole poesia, ma forse con cattiva filosofia –: «E, lì, dopo morti, toccheremo, giacché non possediamo mani; e vedremo, non più accecati dai nostri occhi».
Questa è bella poesia, ma non so fino a che punto sia buona filosofia. Gustav Spiller, nel suo ammirevole trattato di psicologia, dice che se pensiamo ad altre sventure del corpo, come una mutilazione o un colpo di testa, queste non procurano alcun beneficio all’anima. Non c’è allora motivo di supporre che una sciagura del corpo sia benefica per l’anima. Tuttavia, Socrate, che crede in queste due realtà, l’anima e il corpo, afferma che l’anima, sbarazzatasi del corpo, potrà dedicarsi al pensiero.

Questo ci ricorda quel mito di Democrito. Dicono che si strappò gli occhi in un giardino per pensare, affinché il mondo esterno non lo distraesse. Naturalmente è falso, ma molto bello. Una persona vede il mondo visivo – quel mondo dai sette colori che io ho perso – Martinez-del-mazo-Democritocome un ostacolo per il pensiero puro e si strappa gli occhi per continuare a pensare senza intralci.

Per noi, adesso, questi concetti dell’anima e del corpo sono vaghi. Ricordiamoci brevemente la storia della filosofia. Locke disse che l’unica cosa esistente sono percezioni e sensazioni, e ricordi e percezioni di queste sensazioni; che la materia esiste e i cinque sensi ci comunicano la materia.
Poi, Berkeley sostiene che la materia è una serie di percezioni e che queste percezioni sono inconcepibili senza una coscienza che le percepisca. Che cos’è il rosso? Il rosso dipende dai nostri occhi, e anche i nostri occhi sono un sistema di percezioni.

Poi viene Hume, che confuta entrambe le ipotesi, distrugge l’anima e il corpo. Che cos’è l’anima, se non qualcosa che percepisce, e che cos’è la materia, se non qualcosa di percepito? Se nel mondo si sopprimessero i sostantivi, rimarrebbe ridotto ai verbi. Come dice Hume, non dovremmo dire: «io penso», perché io è un soggetto; si dovrebbe dire «si pensa», allo stesso modo in cui diciamo «piove». In entrambi i verbi c’è un’azione senza soggetto.
Quando Cartesio disse: «Penso, quindi esisto», avrebbe voluto dire: «Qualcosa pensa», o «si pensa», perché l’io suppone un’entità e non abbiamo il diritto di supporla. Dovremmo dire: «Si pensa, quindi qualcosa esiste».

In quanto all’immortalità individuale, vediamo quali argomenti ci sono a suo favore. Ne citerò due. Fechner dice che la nostra coscienza, l’uomo, è provvista di una serie di aneliti, desideri, speranze, timori, che non corrispondono alla durata della sua vita.
Quando Dante dice: «Nel mezzo del cammin di nostra vita», fa ricordare che le scritture ci consigliavano settant’anni di vita. Così, quand’ebbe compiuto i trentacinque anni, ebbe questa visione. Noi, nel corso dei nostri settant’anni di vita (disgraziatamente, io ho già superato questo limite; ne ho settantotto), sentiamo cose che non hanno senso in questa vita.

Fechner pensa all’embrione, al corpo prima di uscire dal ventre della madre. In questo corpo ci sono gambe che non servono a nulla, braccia, mani, nulla di tutto questo ha Bajou-embrionesenso; può avere senso solo in una vita ulteriore.
Vien da pensare che lo stesso succeda a noi, che siamo pieni di speranze, di timori, di congetture, e non abbiamo bisogno di tutto ciò per una vita puramente mortale. Abbiamo bisogno di quel che hanno gli animali, che prescindono da tutto questo, che può essere usato in seguito, in un’altra vita più piena. È un argomento a favore dell’immortalità.

Citeremo il sommo maestro san Tommaso d’Aquino, che ci ha lasciato questa sentenza: «Intellectus naturaliter desiderat esse semper (La mente desidera spontaneamente di essere eterna, di essere per sempre)». Al che potremmo rispondere che desidera anche altre cose, perché spesso desidera di interrompersi.
Ci sono i casi di suicidi, o il nostro caso quotidiano di persone che hanno bisogno di dormire, il che è anche una forma di morte.

Citerò qualche testo poetico basato sull’idea della morte come sensazione. Per esempio, questi versi popolari spagnoli: «Vieni, morte, così nascosta / che io non ti senta giungere / perché il piacere di morire / non mi restituisca la vita»; o quest’anonimo sivigliano: «Se tu conosci un poco la fiducia / totale mia / oh morte, vieni silenziosa come del canto sulla saetta / non sulla macchina tonante di folgore / ché non è la mia casa / di distesi metalli fabbricata».
C’è poi una strofa del poeta francese Leconte de Lisle: «Liberatelo dal tempo, dal numero e dallo spazio e restituitegli il riposo che gli era stato tolto».

Nutriamo molti desideri, fra cui quello della vita, quello di esistere per sempre, ma anche quello di interromperci, oltre al timore e al suo contrario: la speranza. Tutte queste cose possono avvenire senza immortalità individuale, non ne abbiamo bisogno. Io, personalmente, non la desidero e non la temo; per me sarebbe spaventoso sapere che continuerò, sarebbe spaventoso pensare che continuerò a essere Borges. Sono stufo di me stesso, del mio nome e della mia fama e voglio liberarmi di tutto ciò.

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C’è una specie di costante che trovo in Tacito e che è stata ripresa da Goethe. Tacito, nella sua Vita di Agrippa, dice: «Non con il corpo muoiono le grandi anime». Tacito credeva che l’immortalità personale fosse un dono riservato solo a taluni: che non appartenesse al volgo, ma che certe anime meritassero d’essere immortali; che dopo il Lete di cui parla Socrate, meritassero di ricordare chi erano state. Goethe riprende questo pensiero e scrive, nella morte del suo amico Wieland: «È orribile supporre che Wieland sia inesorabilmente morto». Non può pensare che Wieland non sopravviva in qualche altro luogo; crede nell’immortalità individuale di Wieland, non in quella di chiunque. È la stessa idea di Tacito: «Non cum corpore pereunt magnae animae». L’idea è che l’immortalità sia privilegio di pochi, dei grandi. Ma ognuno si reputa grande, ognuno è portato a pensare che la sua immortalità è necessaria.
Io non ci credo.

Vi sono poi altre immortalità che, mi pare, sono quelle importanti. Si tratterebbe, in primo luogo, della teoria della trasmigrazione. La si trova in Pitagora, in Platone. Platone vedeva la trasmigrazione come una possibilità. La trasmigrazione serve per spiegare venture e sventure. Se siamo felici o infelici in questa vita lo si deve a una vita precedente; stiamo ricevendo castighi o ricompense.
C’è una cosa che può essere difficile: se la nostra vita individuale, come credono l’induismo e il buddhismo, dipende da una nostra vita precedente, questa vita trasmigrazione-induismoprecedente a sua volta dipende da un’altra vita precedente, e così avanti nel passato, all’infinito.

Si è detto che il tempo è infinito, il numero infinito di vite nel passato è una contraddizione. Se il numero è infinito, come può una cosa infinita giungere fino a ora? Se un tempo è infinito, io credo, questo tempo infinito deve comprendere tutti i tempi presenti e, in tutti i tempi presenti, perché non questo presente, a Belgrano, nell’università di Belgrano, voi con me, insieme? Perché non anche questo tempo? Se il tempo è infinito, in qualunque istante ci troviamo nel centro del tempo.

Pascal pensava che se l’universo è infinito, l’universo è una sfera la cui circonferenza è ovunque e il centro in nessun luogo. Perché non dire che questo momento ha dietro di sé un passato infinito, e perché non pensare che questo passato trascorre anch’esso in questo presente? In qualunque momento ci troviamo nel centro di una linea infinita, in qualunque luogo del centro infinito ci troviamo nel centro dello spazio, giacché lo spazio e il tempo sono infiniti.
I buddhisti credono che abbiamo vissuto un numero infinito di vite, infinito nel senso di numero illimitato, nel senso stretto della parola, un numero senza inizio né fine, un po’ come un numero transfinito delle matematiche moderne di Cantor. Ci troviamo ora in un centro – tutti i momenti sono centri – di questo tempo infinito. Ora stiamo conversando fra noi, voi pensate a ciò che io dico, lo approvate o lo rifiutate.

La trasmigrazione ci darebbe la possibilità per cui un’anima potrebbe trasmigrare da un corpo all’altro, da un corpo umano a un corpo vegetale.
C’è quella poesia di Pietro d’Agrigento dove narra d’aver riconosciuto uno scudo che era stato suo durante la guerra di Troia. C’è la poesia The Progress of the Soul (Il progresso dell’anima) di John Donne, di poco posteriore a Shakespeare.
Donne comincia dicendo: «Canto al progresso dell’anima infinita», e quest’anima va passando da un corpo all’altro. Afferma che sta per scrivere un libro, il quale, più delle sacre scritture, sarà superiore a ogni libro. Il suo progetto era ambizioso, e seppure non realizzatosi, comprende versi molto belli.

Comincia con un’anima che ha per abitazione una mela, un frutto o, per meglio dire, il frutto di Adamo, del peccato. Poi è nel ventre di Eva e genera Caino e poi va passando da Ernst-immortalitàun corpo all’altro in ogni strofa (uno di questi corpi sarà quello di Isabella d’Inghilterra) e lascia il poema incompiuto, giacché Donne crede che l’anima passi immortalmente da un corpo all’altro.
In uno dei suoi prologhi, Donne invoca le origini illustri e fa il nome delle dottrine di Pitagora e di Platone, a proposito della trasmigrazione delle anime. Fa il nome di due fonti, quella di Pitagora e quella della trasmigrazione delle anime, cui ricorre Socrate come ultimo argomento.

È interessante segnalare che Socrate, quel pomeriggio, mentre discuteva coi suoi amici, non intendeva congedarsi pateticamente. Respinse la moglie e i figli, voleva respingere un amico che stava piangendo, voleva conversare serenamente; semplicemente, continuare a conversare, continuare a pensare. Il fatto della propria morte non lo coinvolgeva. Il suo compito, la sua consuetudine era un’altra: discutere, discutere in forma diversa.
Perché avrebbe bevuto la cicuta? Non c’era alcun motivo.

Dice cose curiose: Orfeo dovette trasformarsi in usignolo; Agamennone, pastore degli uomini, in un’aquila; Ulisse, stranamente, nel più umile e ignorato degli uomini. Socrate sta conversando, la morte lo interrompe. La morte azzurra gli va salendo dai piedi. Ha già bevuto la cicuta. Dice a un amico che ricordi il voto fatto a Esculapio, l’offerta di un gallo. Significa che Esculapio, dio della medicina, lo ha guarito dal male essenziale, la vita.
«Debbo un gallo a Esculapio, mi ha guarito dalla vita, sto per morire». Non crede quindi in quanto ha detto prima: pensa di morire individualmente.

C’è un altro testo classico, De rerum natura di Lucrezio, dove si nega l’immortalità individuale. Il più memorabile degli argomenti addotti da Lucrezio è questo: una persona si lamenta perché sta per morire. Pensa che tutto l’avvenire le sarà negato. Come ha detto Victor Hugo: «Andrò solo in mezzo alla festa / nulla mancherà nel mondo raggiante e felice».

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Nel suo grande poema, ambizioso quanto quello di Donne – De rerum natura o De rerum dedala natura (Dell’intricata natura delle cose) – Lucrezio ricorre al seguente argomento: «Voi vi dolete perché vi mancherà tutto l’avvenire; pensate, tuttavia, che prima di voi c’è un tempo infinito. Che quando nascesti – dice al lettore – era già trascorso il momento in cui Cartagine e Troia guerreggiavano per l’impero del mondo. Tuttavia, non te ne importa più. Allora, come può importarti ciò che verrà? Hai perso l’infinito passato; che t’importa di perdere l’infinito futuro?».

È quanto dice il poema di Lucrezio; peccato che io non conosca abbastanza il latino per ricordare i suoi bei versi, che ho letto in questi giorni con l’aiuto di un dizionario.
Schopenhauer risponderebbe – e credo che Schopenhauer sia l’autorità massima – che la dottrina della trasmigrazione non è altro che la forma popolare di una dottrina diversa, che sarebbe poi stata quella di Shaw e di Bergson, la dottrina di una volontà di vivere. C’è qualcosa che vuole vivere, qualcosa che si fa strada attraverso la materia o nonostante la materia, questo qualcosa è ciò che Schopenhauer chiama Wille (la volontà), che concepisce il mondo come volontà di risurrezione.

Poi verrà Shaw che parla di the life force (la forza vitale) e infine Bergson, che parlerà dell’élan vital (l’impeto vitale), che si manifesta in tutte le cose, quello che crea l’universo, che è in ognuno di noi. È come morto nei metalli, come addormentato nei vegetali, come ballerina-nuitun sogno negli animali; ma in noi è consapevole di se stesso.
E qui troviamo la spiegazione della frase di san Tommaso «Intellectus naturaliter desiderat esse semper» già citata: l’intelligenza desidera naturalmente di essere eterna. Ma in quale modo lo desidera? Non lo desidera in un modo personale, non desidera nel senso di Unamuno, che vuol continuare a essere Unamuno; lo desidera in un modo generale.

Il nostro io è la cosa meno importante per noi. Che cosa significa sentirci «io»? In che cosa può differire il fatto che io mi senta Borges e che voi vi sentiate A, B o C? In nulla, assolutamente in nulla. Questo io è ciò che spartiamo, che è presente, in un modo o nell’altro, in tutte le creature.
Allora potremmo dire che l’immortalità è necessaria, non quella individuale, ma, sì, quell’altra immortalità. Per esempio, ogni volta che qualcuno ama un nemico, appare l’immortalità di Cristo. Costui, in quel momento, è Cristo. Ogni volta che ripetiamo un verso di Dante o di Shakespeare, siamo, in qualche modo, quell’istante in cui Shakespeare o Dante crearono quel verso.
In breve, l’immortalità è nella memoria degli altri e nell’opera che lasciamo. Cosa può importare se quest’opera viene dimenticata?

Io ho dedicato questi ultimi vent’anni alla poesia anglosassone, conosco molte poesie anglosassoni a memoria. L’unica cosa che non conosco è il nome dei poeti. Ma cosa importa? Cosa importa se io, ripetendo poesie del secolo IX, sto sentendo qualcosa che qualcuno ha sentito in quel secolo? Costui sta vivendo in me in quel momento, io sono quel morto. Ognuno di noi è, in qualche modo, tutti gli uomini che sono morti prima. Non soltanto quelli del nostro sangue.

Naturalmente, ereditiamo cose dal nostro sangue. Io so – me l’ha detto mia madre – che ogni volta che ripeto versi inglesi, li ripeto con la voce di mio padre. (Mio padre è morto nel 1938, quando si è ucciso Lugones). Quando io ripeto versi di Schiller, mio padre sta vivendo in me. Le altre persone che hanno udito me, vivranno nella mia voce, che è un riflesso della sua voce che è stato, forse, un riflesso della voce dei suoi avi. Cosa possiamo sapere noi? Possiamo credere nell’immortalità.

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Ognuno di noi collabora, in un modo o nell’altro, in questo mondo. Ognuno di noi desidera che questo mondo sia migliore, e se il mondo realmente migliora, eternizza speranza; se la patria si salva (perché la patria non dovrebbe salvarsi?) noi saremo immortali in quella salvezza, non importa che si sappia o meno il nostro nome. Questa è una cosa minima. L’importante è l’immortalità.
Quest’immortalità si raggiunge con le opere, con la memoria che uno lascia negli altri. Questa memoria può essere minima, può essere una frase qualsiasi. Per esempio: «Tizio, è meglio perderlo che trovarlo». Io non so chi abbia inventato questa frase, ma ogni volta che la ripeto io sono quell’uomo. Cosa importa che quel modesto individuo sia morto, se vive in me e in ognuno che ripeta questa frase?

Si può dire lo stesso della musica e del linguaggio. Il linguaggio è una creazione, quasi una sorta d’immortalità. Io sto usando la lingua spagnola. Quanti morti spagnoli stanno vivendo in me?
Non importa il mio parere, né il mio giudizio; non importano i nomi del passato se stiamo continuamente aiutando l’avvenire del mondo, l’immortalità, la nostra anima-mistica-paintimmortalità. Questa immortalità non ha motivo d’essere individuale, può prescindere dall’accidente di nomi e cognomi, può prescindere dalla nostra memoria.

Perché supporre che proseguiremo in un’altra vita con la nostra memoria, come se io continuassi a pensare tutta la mia vita nella mia infanzia, a Palermo, a Adrogué o a Montevideo? Perché tornare sempre su queste cose?
È un espediente letterario; io posso dimenticare tutto questo e continuerò ad esistere, e tutto questo vivrà in me anche se io non lo nomino. Forse la cosa più importante è quel che non ricordiamo in modo preciso, forse le cose più importanti le ricordiamo in modo inconsapevole.

Per concludere, dirò che credo nell’immortalità: non nell’immortalità individuale, ma sì in quella cosmica. Seguiteremo a essere immortali; al di là della nostra morte corporale rimane la nostra memoria, e al di là della nostra memoria rimangono i nostri atti, i nostri gesti, i nostri atteggiamenti, tutta quella meravigliosa parte della storia universale, anche se non lo sappiamo ed è meglio che non lo sappiamo.

(Borges, Oral)