Deleuze – La crudeltà dell’eterno ritorno

Nessuno meno di Nietzsche può passare per un’anima bella. Se la sua anima è estremamente bella, non lo è nel senso di un’anima bella; nessuno ha sentito di più il senso della crudeltà, il gusto della distruzione.

Il mondo moderno è il mondo dei simulacri. In esso l’uomo non sopravvive a Dio, l’identità del soggetto non sopravvive a quella della sostanza. Tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un «effetto» ottico, attraverso un gioco più profondo che è bambina-dipinta-dipingequello della differenza e della ripetizione. Noi vogliamo pensare la differenza in sé, e il rapporto del differente col differente indipendentemente dalle forme della rappresentazione che li riconducono allo Stesso e li fanno passare per il negativo.

La nostra vita moderna è tale che, trovandoci davanti alle ripetizioni più meccaniche, più stereotipate, dentro di noi e fuori di noi, non cessiamo di estrarne piccole differenze, varianti, modificazioni. Viceversa, ripetizioni segrete, simulate e nascoste, mosse dallo spostamento continuo di una differenza, restituiscono in noi e fuori di noi nude ripetizioni, meccaniche, cristallizzate.
Nel simulacro, la ripetizione verte già su delle ripetizioni, e la differenza su delle differenze. Sono le ripetizioni che si ripetono, e il differenziante che si differenzia. Compito della vita è di far coesistere tutte le ripetizioni in uno spazio in cui si distribuisce la differenza. […]

Non siamo noi ad essere univoci in un Essere che non lo è; siamo noi, è la nostra individualità che resta equivoca in un Essere, per un Essere univoco.
Ma, per giungere a comprenderlo, occorre un rovesciamento categorico più generale, tale che l’essere si dica del divenire, e l’identità, del differente, e l’uno, del multiplo, e così via.
Il fatto che l’identità non sia prima, ed esista come principio, ma come principio secondo, principio divenuto, che essa giri attorno al Differente, indica una rivoluzione copernicana che apre alla differenza la possibilità del suo concetto proprio, invece di mantenerla sotto il dominio di un concetto in generale posto già come identico.

Nietzsche non voleva dire altro con l’eterno ritorno. L’eterno ritorno non può significare il ritorno dell’identico, poiché presuppone al contrario un mondo (quello della volontà di potenza) in cui tutte le identità precedenti sono abolite e dissolte.
Ritornare è l’essere, ma [l’essere che sempre ritorna è] soltanto l’essere del divenire. L’eterno ritorno non fa tornare «lo stesso», è vero invece che il tornare costituisce il solo Stesso di ciò che diviene.

Ritornare è il divenire-identico del divenire stesso. Ritornare è dunque la sola identità, ma l’identità come potenza seconda, l’identità della differenza, l’identico che si dice del differente che gravita attorno al differente.
Una siffatta identità, prodotta dalla differenza, si determina come «ripetizione».
Allo stesso modo la ripetizione nell’eterno ritorno consiste nel pensare lo Stesso a partire simulacridal Differente. Ma tale pensiero non è più assolutamente una rappresentazione teorica, in quanto opera in pratica una selezione delle differenze secondo la loro capacità di produrre, vale a dire di tornare o di sopportare la prova dell’eterno ritorno.

Nel pensiero di Nietzsche emerge chiaramente il carattere selettivo dell’eterno ritorno: ciò che torna non è il Tutto, lo Stesso o l’identità presupposta in generale. Non è neppure il piccolo o il grande come parti del tutto o come elementi dello stesso.
Solo ritornano le forme estreme – quelle che, piccole o grandi, si dispiegano nel limite e vanno fino al fondo della potenza, trasformandosi e trapassando le une nelle altre. Ritorna solo ciò che è estremo, eccessivo, ciò che passa nell’altro e diviene identico.

Ecco perché l’eterno ritorno si dice soltanto del mondo teatrale delle metamorfosi e delle maschere della Volontà di potenza, delle intensità pure di tale Volontà, come fattori mobili individuanti che non si lasciano più trattenere nei limiti fittizi di questo o quell’individuo, di questo o di quell’io.
L’eterno ritorno, il tornare, esprime l’essere comune di tutte le metamorfosi, la misura e l’essere comune di tutto ciò che è estremo, di tutti i gradi di potenza in quanto realizzati. È l’essere-uguale di tutto ciò che è ineguale, e che ha saputo realizzare pienamente la propria diversità. Tutto ciò che è estremo divenendo lo stesso comunica in un Essere uguale e comune che ne determina il ritorno.

La hybris, questa parola pericolosa, è la pietra di paragone di ogni eracliteo (Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci)

Per questo il superuomo è definito dalla forma superiore di tutto ciò che «è» (cfr. Così parlò Zarathustra, § 6). Ma bisogna intuire che Nietzsche chiama nobile, con una forma mutuata dalla fisica dinamica, l’energia capace di trasformarsi.
Quando egli afferma che la hybris è il vero problema di ogni eracliteo, o che la gerarchia è il problema degli spiriti liberi («il nostro problema, di noi spiriti liberi», cfr. Umano, troppo umano, II, Prefazione, § 6-7), egli vuole dire unicamente che nella hybris ognuno trova l’essere che lo fa ritornare, e anche quella sorta di anarchia incoronata, quella gerarchia rovesciata che, per assicurare la selezione della differenza, comincia col subordinare l’identico al differente.

Sotto tutti questi aspetti, l’eterno ritorno è l’univocità dell’essere, la realizzazione effettiva di tale univocità. Nell’eterno ritorno, l’essere univoco non è soltanto pensato e anche affermato, ma realizzato effettivamente. L’Essere si dice in un solo e stesso senso, ma questo è il senso dell’eterno ritorno come ritorno e ripetizione di ciò di cui viene detto.
La ruota nell’eterno ritorno è nello stesso tempo produzione della ripetizione a partire dalla differenza, e selezione della differenza a partire dalla ripetizione.

(Deleuze, Differenza e ripetizione)

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Siamo dunque a casa di Eraclito. E il Padrone di casa, con due sole parole, ci ha come stregati – ed eccoci immersi nel fiume del suo «tutto scorre», a domandarci se davvero, ovunque siamo, siamo ancora gli Stessi in un «qui e ora» che si sposta continuamente, o se viceversa siamo soltanto là dove ci differenziamo, prendiamo le distanze e siamo infedeli a una nostra illusoria «identità».

Vorremmo sapere, vorremmo capire (ah, se il Padrone di casa aggiungesse altre due o tre paroline!, e invece): vorremmo capire, ma è probabile che non capiremo mai se l’«identità» che ci diamo permane nello scorrere del fiume, se a essere coinvolti nei flussi d’onda siano soltanto i nostri attributi locali e temporali, i nostri vestiti, i nostri ornamenti stagionali, o se invece Eraclito non voglia dire proprio quello che temiamo che dica. La sentenza terribile, oracolare – e cioè che sono i nostri corpi «nudi», che è il nostro stesso Essere ad avere questo strano modo di essere: di essere cioè soltanto nel divenire, solo divenendo altro, trasformandosi, differenziandosi, abolendo e cancellando ogni «identità» precedente, ogni altra «località» già abitata, per migrare altrove.

O, come dice Deleuze, su istigazione di Nietzsche a delinquere dalla logica hegeliana, a essere non siamo noi – i sempre fluenti nel fiume – ma il solo che «è» è questo Divenire istigazioneche sempre ritorna a dimenticarsi di se stesso.
Dice che non c’è altro «essere» (di cui possa dirsi che «è», che si possa fingere cioè per «identico») che il «tornare» a differire rispetto a un’altra o a una molteplicità di altre differenze.
Di «eterno» non c’è, dunque, che il Ritorno.

Eraclito, appartato in un angolo (si è quasi nascosto, quasi temesse di farsi vedere a casa sua), in silenzio ascolta i novelli filosofi che dicono di «ispirarsi» alle due parole del suo aforisma.
Non è – dice Nietzsche – nient’altro «è» nel senso esistenziale del verbo, niente più e niente meno che il Differente. Dice che il Fiume non è un continuo Essere lo Stesso, ma un continuo Differire, Mutare, Trasformarsi del Differente. Un’instancabile produzione di sempre nuove differenze.
E che lo scorrere non è mai «identico». Se mai acquista una qualche «identità» (come, del resto, nello stesso «detto» di Eraclito), è solo in un secondo tempo – nel Tempo della Rappresentazione: ovvero, una volta tradotto in un «dire». Dalla Realtà (sempre differente) alla Finzione (di un «identico»), le parole ribaltano la gerarchia: il concetto impone il suo primato sul reale. Se lo acconcia alla sua logica. Lo realizza snaturandolo.

Hai voglia ad acconciarlo – dice il Padrone di casa. Dice che non c’è concetto che non debba la sua stessa genesi a una differenziazione da tutto ciò che esso non contempla. Che qualunque concetto è l’«effetto ottico» di un miraggio che ha selezionato una differenza nello scorrere ripetuto e continuo, e che da questo (Paradiso) ha colto un «fiore proibito», l’Identico. Ha strappato una «differenza» al Reame delle Differenze, e solo perché essa si ripete, cade nel miraggio di una sua «identità».