Le mille e una notte – Il quarto viaggio di Sindbad

Sappiate, fratelli, – incominciò Sindbad il Marinaio – che quando feci ritorno a Baghdad e mi riunii con i miei amici, la mia famiglia e le persone care, mi trovai nella più grande prosperità, contentezza e riposo; dimenticai grazie agli abbondanti guadagni quello che avevo passato, e mi sprofondai nei divertimenti, nel gaudio, e nelle riunioni con amici e Dulac-Sindbad-zatteraconoscenti, menando una vita deliziosa. Ma il mio istinto malefico mi spinse nuovamente a viaggiare per i paesi del mondo, e così mi venne desiderio di frequentare le diverse genti del mondo, di vendere e di guadagnare.
Deciso a farlo, comprai della merce preziosa adatta a un viaggio per mare, imballai molti più bagagli del solito e partii da Baghdad per Bassora, imbarcando il mio carico su una nave e facendo lega con una comitiva composta di grandi mercanti di Bassora.

Ci mettemmo in viaggio e la nave, con la benedizione di Dio altissimo, navigò per il mare tumultuoso e pieno di onde cozzanti. Per un certo numero di notti e di giorni il viaggio fu buono, e noi passammo di isola in isola, di mare in mare, fino a che un giorno un vento contrario si levò su di noi.
Il capitano gettò allora le ancore e fermò la nave in alto mare, per paura che naufragasse in mezzo alle acque infuriate, mentre noi, in queste condizioni, pregavamo e supplicavamo Iddio altissimo.
Si levò un vento violento e impetuoso che strappò le vele e le ridusse in pezzi, sicché la nave affondò. La gente e tutto il bagaglio con le mercanzie finì in acqua, e io con gli altri. Nuotai in mare per mezza giornata: mi ritenevo ormai spacciato, quando Iddio mi fece trovare un pezzo di tavola di quella nave, che inforcai con un gruppo di mercanti. Ci avvicinammo gli uni agli altri su quella tavola battendo i piedi nel mare quasi fossero remi. Le onde e il vento ci furono propizi e rimanemmo così in questo stato un giorno e una notte.

All’alba del giorno seguente si levò di nuovo un forte vento, il mare si agitò e, diventando le onde e il vento man mano più forti, i flutti ci gettarono su un’isola, quasi morti da tanta veglia, stanchezza, freddo, fame e sete.
Camminando per le coste di quell’isola, vi trovammo molte piante di cui mangiammo qualcosa tanto da darci fiato e nutrimento. Pernottammo sulla spiaggia e, quando fu giorno e si fece chiaro, ci alzammo e vagammo in qua e in là per l’isola.

Ci apparve allora da lontano un palazzo. Ci dirigemmo da quella parte, e camminammo fino alla sua porta. Eravamo lì fermi, quando da quella porta uscì incontro a noi una isola-in-mezzo-mareschiera di uomini nudi che, senza rivolgerci parola, ci presero e ci portarono dal loro re. Questi ci ordinò di sederci e noi sedemmo. Portarono del cibo sconosciuto di cui non avevamo mai visto niente di simile in vita nostra. Io non ebbi animo di accettarlo e non ne mangiai affatto, al contrario dei miei compagni. Se non lo mangiai, fu solo per una grazia di Dio altissimo e perciò sono ancora in vita, poiché quando i miei compagni ne ebbero mangiato persero la ragione e cominciarono ad abbuffarsi come pazzi, mutando il loro aspetto. Dopo di ciò, portarono del succo di noce di cocco che fecero bere loro, ungendoli poi con esso. Quando i miei amici ne ebbero bevuto, gli occhi si stravolsero loro nel viso, e cominciarono a mangiare di quel cibo in modo differente dal solito.

Sbalordii della cosa e, dispiacendomi per loro, fui intanto preso da grande paura e preoccupazione per me a causa di quegli esseri nudi. Guardandoli con attenzione, compresi che erano dei maghi e che il loro re era un orco. Chiunque giungesse al loro paese o fosse da essi visto o incontrato nella valle o per le strade, lo portavano dal loro re, gli davano da mangiare di quel cibo e lo ungevano con quel succo: il suo ventre allora si dilatava per permettergli di mangiar molto, egli perdeva la ragione, smarriva il senno e diventava come stupido. Essi lo facevano mangiare e bere ancora di più di quel cibo e di quel succo finché diventava grasso e grosso. Allora lo sgozzavano, lo cuocevano, e lo davano da mangiare al loro re. Gli amici del re invece, la carne umana, la mangiavano cruda, senza tutto questo procedimento.

Quando vidi che essi facevano così, mi desolai per me e per i miei amici, i quali però, avendo perso la ragione, neanche capivano quello che si faceva di loro. Gli uomini nudi li dettero in custodia a una persona che ogni giorno li prendeva e li menava a pascolare in quell’isola come le bestie.
In quanto a me, tanta fame e tanta paura avevo che ero divenuto debole e ammalato e la carne mi si era seccata sulle ossa, sicché quando essi mi videro in questo stato mi abbandonarono e mi dimenticarono, né alcuno si ricordò di me né venni più loro in mente; fino a che un giorno con uno stratagemma fuggii da quel luogo e camminai per l’isola, allontanandomi.

Sindbad-foresta

Vidi un pastore che sedeva su qualcosa che emergeva in mezzo al mare, lo guardai con attenzione e riconobbi in lui l’uomo a cui avevano consegnato i miei compagni perché li facesse pascolare; ne aveva molti come loro. Quando mi scorse, capì che ero in possesso delle mie facoltà mentali e che non mi era accaduto niente di simile ai miei compagni.
Mi fece cenno da lontano gridandomi: «Torna indietro, cammina per la strada alla tua destra, essa ti condurrà alla strada maestra».
Tornai indietro come quell’uomo mi aveva invitato a fare, e vidi alla mia destra una strada: mi ci avviai e camminai, un po’ correndo per la paura, e un po’ andando adagio per riposarmi, fino a che sparii dalla vista dell’uomo che mi aveva indicato la strada, tanto che io non vedevo più lui né lui vedeva me.

Il sole si era occultato ed erano subentrate le tenebre. Sedetti per riposarmi. Volevo dormire, ma quella notte tanta era la paura, la fame e la stanchezza che non mi prese sonno.
A metà della notte mi alzai e camminai per l’isola finché spuntò l’alba, venne il mattino e si fece chiaro, il sole si levò illuminando le cime delle colline e le valli. Ero spossato, avevo fame e sete, perciò presi a mangiare erbe e piante che raccattavo per strada, fino a saziarmi e a riprendere lena; poi mi alzai, ripresi a camminare nell’isola e così feci per tutto il giorno e la notte, e ogni qual volta mi veniva fame mangiavo di quelle piante.

Per sette giorni e sette notti continuai in queste condizioni. Al mattino dell’ottavo giorno alzando lo sguardo per caso vidi da lontano una forma confusa, verso la quale mi diressi, raggiungendola dopo il tramonto del sole. Acuii lo sguardo mentre ne ero ancora Sindbad-gentelontano, col cuore in ansia per quello che avevo per due volte sofferto.
Era della gente che raccoglieva i grani di pepe; quando mi appressai a loro e mi videro, si fecero subito incontro a me circondandomi da ogni lato e domandandomi: «Chi sei? e da dove sei venuto?».
Io risposi: «Sono, signori, un povero straniero», e narrai loro la mia storia e le peripezie e disgrazie toccatemi, e quello che avevo sofferto.
«Per Dio! questa è una cosa straordinaria! – esclamarono. – Però come hai fatto a salvarti dai negri e come è che sei capitato da loro in quest’isola? Essi son numerosi e mangiano gli uomini, e nessuno si è mai salvato da loro, né può passare senza danno».

Raccontai allora quello che mi era successo con quei cannibali e come avessero preso i miei compagni e avessero loro dato da mangiare di quel cibo che io non avevo voluto gustare. Quelli si felicitarono per la mia salvezza, meravigliati di quanto mi era accaduto, poi mi fecero sedere con loro fino a che avessero terminato il lavoro, dandomi un po’ di buon cibo che, affamato com’ero, mangiai.
Mi riposai presso di loro per un po’ di tempo, dopo di che mi presero, mi fecero imbarcare su una nave e mi portarono alla loro isola e a casa loro, dove mi presentarono al loro re. Io lo salutai e questi rispose al mio saluto dandomi il benvenuto, mi trattò con onore e mi fece delle domande circa la mia persona. Io lo informai delle mie cose, di quel che mi era capitato e successo dal giorno della mia partenza da Baghdad fino al mio arrivo da lui. Allora il re e quelli che erano lì con lui rimasero assai stupefatti della mia storia e di quanto mi era successo; poi il re mi invitò a sedergli vicino e quando mi fui seduto comandò che fosse portato del cibo; portato che fu, ne mangiai fino a saziarmi. Mi lavai le mani e ringraziai la bontà di Dio altissimo, pronunziando lodi in suo onore.

Congedatomi dal loro re, mi aggirai per la città che era fiorente, popolosa e ricca, con molte derrate e numerosi mercati, merci, venditori e compratori.
Rallegrandomi di esservi giunto, il mio animo si calmò, e mi familiarizzai con gli abitanti. Così giunsi a godere sia presso il re che presso il popolo di rispetto e stima ancor maggiore di quella in cui erano tenuti gli stessi grandi personaggi della città e del regno.

Dalì-cavaliere

Notai inoltre che tanto le persone influenti che quelle di bassa levatura cavalcavano dei baldi e bei destrieri ma non sellati; preso da meraviglia per questo, chiesi al re: «Perché, signor mio, non cavalchi con la sella? Essa dà riposo e maggior forza al cavaliere».
«Com’è fatta una sella? – mi rispose. – Questa è cosa che non abbiamo mai vista né vi abbiamo mai cavalcato in vita nostra».
«Vuoi tu permettermi – soggiunsi – di costruirti una sella su cui cavalcare per vedere come è comoda?».
«Fa’ pure».
«Fammi portare un po’ di legno», gli dissi.

Il re comandò che mi fosse portato tutto quello che avevo chiesto. Allora chiesi di un falegname capace. Mi misi vicino a lui e gli insegnai come si faceva una sella, poi presi della lana, la cardai, ne feci un feltro e con della pelle che avevo fatto portare, rivestii la sella e la levigai; vi collocai le cinghie e fissai la correggia della staffa. Dopo, fatto venire il fabbro, gli spiegai come era fatta la staffa ed egli ne forgiò una grande che io limai e ricoprii con stagno, legandovi delle frange di seta.
Fatto tutto questo, presi uno dei migliori cavalli del re, gli posi addosso quella sella, vi appesi le staffe, gli misi le briglie e lo portai al re che ne fu compiaciuto e ammirato. Mi ringraziò, montò a cavallo, assai contento di quella sella, e mi compensò largamente del lavoro che avevo fatto per lui.

Quando il suo visir vide la sella che avevo fatto, me ne chiese una uguale e io gliela feci. I maggiorenti della città e i dignitari cominciarono a chiedermi delle selle che io sellafabbricavo per loro. Insegnai al falegname come si fanno le selle e al fabbro-ferraio come si costruiscono le staffe, e così fabbricavamo selle e staffe vendendole ai maggiorenti e ai signori.
Radunai così molto denaro e godetti di grande considerazione presso quella gente che prese ad amarmi molto; continuai ad avere un’alta posizione presso il re e i suoi cortigiani, i maggiorenti del paese e i dignitari dello Stato.

Un giorno mentre stavo seduto, assai contento e rispettato, presso il re, questi mi disse: «Tu sei onorato e rispettato da noi e sei ormai dei nostri, non possiamo ormai più dividerci da te né farti partire dalla nostra città. Voglio da te una cosa alla quale tu dovrai obbedire, senza respingere le mie parole».
«Che cosa vuoi da me, o re? – gli chiesi. – Io non respingerò quello che mi dirai poiché tu mi hai beneficato, trattato bene e onorato. E, sia lodato Iddio, io sono divenuto uno dei tuoi servi».
«Voglio – continuò il re – farti sposare con una bella donna, leggiadra, ricca e graziosa, in modo che tu dimorerai definitivamente da noi. Ti farò abitare da me nel mio palazzo. Non mi contrariare quindi e non respingere quello che ti ho offerto».

Udite le parole del re, mi vergognai di lui e tacqui senza rispondere, tanta era la mia vergogna. Perciò egli mi chiese: «Perché, figlio mio, non mi rispondi?».
«Signor mio, – dissi – tu sei padrone di fare quello che vuoi, o re del nostro tempo!».
Egli allora mandò subito a chiamare il qadi e i testimoni, e mi ammogliò, seduta stante, con una donna di nobile rango e di alta schiatta, molto danarosa e assai facoltosa, di meravigliosa bellezza, e proprietaria di terreni, poderi e immobili. Poi mi assegnò una bella e grande casa indipendente, mi diede servitù e seguito, mi fissò un appannaggio e uno stipendio, sicché mi trovai molto felice, tranquillo e contento, e dimenticai le fatiche, le pene e gli affanni passati. «Se partirò per il mio paese, – pensavo – prenderò con me mia moglie».

Però il destino di ogni uomo è inevitabile, né alcuno può sapere quello che gli deve accadere. Amavo molto mia moglie e ne ero riamato: andavamo molto d’accordo e per un po’ di tempo vivemmo deliziosamente e con ogni agio. Quand’ecco che Iddio altissimo fece morire al mio vicino di casa la moglie.
Questi era mio amico, perciò andai da lui per fargli le mie condoglianze, ma lo trovai in pessime condizioni, pensieroso, depresso e abbattuto; gli porsi le mie condoglianze e per Sindbad-moglieconsolarlo gli dissi: «Non ti rattristare per tua moglie! Iddio te ne darà in cambio un’altra migliore e tu vivrai a lungo, volendo Iddio altissimo!».
Egli allora si mise a piangere dirottamente e mi disse: «Amico mio, come mi sposerò con un’altra donna e come Iddio me ne darà un’altra migliore, quando mi è rimasto un sol giorno di vita?».
«Fratello, – esclamai – torna in te e non preannunziare la tua morte, poiché tu stai benissimo, in ottima salute!».
«Amico mio, – continuò – ti giuro sulla mia vita che domani mi perderai, né mai più mi rivedrai in vita tua».
«Come sarebbe?», gli chiesi.
«Oggi seppelliranno mia moglie, e con lei seppelliranno anche me nella tomba: si usa nel nostro paese che, quando muore la donna, seppelliscono con lei vivo suo marito; se poi a morire è lui, seppelliscono con lui viva sua moglie e ciò perché nessuno dei due possa godere della vita, dopo la morte del suo compagno».
«Per Dio! – esclamai. – Questo è un uso assai brutto che nessuno potrebbe sopportare».

Mentre stavamo così parlando, giunse la maggior parte degli abitanti della città e incominciarono a condolersi con il mio amico per sua moglie e per lui. Cominciarono a preparare la morta per la tomba secondo i loro costumi, poi fecero venire una bara in cui trasportarono la donna, e con lei si accompagnò quell’uomo. Uscirono tutti fuori della città, giungendo a un luogo ai piedi di un monte in riva al mare. Si avvicinarono a quel luogo, sollevarono una grande pietra sotto cui apparve l’imboccatura di pietra simile a quella dei pozzi (era appunto una grande fossa sotto al monte) e vi gettarono la donna. Poi presero l’uomo, lo legarono sotto le ascelle con una corda di fibra e lo calarono in quella fossa, calandovi anche un grande recipiente di acqua dolce e sette pagnotte per viatico.
L’uomo, quando giunse al fondo, si sciolse dalla corda, che gli uomini tirarono via ricoprendo la bocca del pozzo con quella grande pietra come era prima, e se ne andarono, lasciando il mio amico presso sua moglie morta nella fossa.

«Per Dio! – pensai. – Questa morte è più terribile della prima morte!». Poi mi recai dal re e così gli parlai: «Signore, come potete seppellire nel vostro paese il vivo con il morto?».
«Sappi – mi rispose – che questo è il costume del nostro paese: se muore un uomo seppelliamo con lui la moglie e se muore la donna seppelliamo vivo suo marito perché non siano separati l’uno dall’altra né in vita né in morte. Questo è l’uso che era osservato dai nostri antenati!».
«O re, – presi a dire – anche lo straniero come me, se venisse a morire sua moglie, voi lo trattereste come avete fatto con costui?».
«Sì, – mi rispose – lo seppelliremmo con lei e faremmo come hai visto».

Wiertz-sepoltura

Quando udii quelle parole dal re, mi si spezzò il cuore per la tristezza e il dispiacere su me stesso, e quasi persi la ragione, cominciando a temere che mia moglie morisse prima di me e che quindi seppellissero me vivo con lei. Ma mi consolai al pensiero che forse sarei morto io prima di lei, poiché nessuno può sapere chi è che precede l’altro o lo segue nella tomba, e mi distrassi in varie occupazioni.

Ma passò poco tempo e mia moglie si ammalò, e dopo pochi giorni morì. Buona parte della popolazione si riunì a casa mia per condolersi con me e con la famiglia di mia moglie per la sua morte, e il re stesso, secondo la sua abitudine, venne da me a farmi le condoglianze. Poi fecero venire una di quelle donne che lavano i morti, lavarono mia moglie, la vestirono dei suoi più sontuosi abiti, gioielli, collane e pietre preziose; dopo averla vestita e averla messa nella bara, la portarono via per trasportarla a quel tal monte; lì, sollevata la pietra dalla bocca del pozzo, ve la gettarono dentro.

Tutti i miei amici e i familiari di mia moglie vennero poi a dare a me l’ultimo saluto: io mi misi a gridare che ero uno straniero e che non potevo essere soggetto alla loro usanza, ma essi non diedero retta alle mie parole né prestarono ascolto a quanto andavo dicendo. Mi afferrarono e, secondo la loro abitudine, mi legarono per forza assieme a sette pani e a un recipiente di acqua dolce e mi calarono in quel pozzo, che era una grande caverna sotto il monte.
«Sciogliti le corde!», mi dissero. Ma non accettando io di scioglierle, me le buttarono Sindbad-calato-tombaaddosso, coprirono la bocca del pozzo con quella grande pietra che vi era sopra, e se ne andarono.

In quella caverna vidi molti cadaveri da cui veniva un fetore puzzolente e sgradevole. Allora mi rimproverai per quello che avevo fatto, pensando: «Per Dio, merito tutto quello che mi succede e mi capita ora!».
Non distinguevo più la notte dal giorno: mi cibavo di poco, e non mangiavo fino a che la fame non mi lacerasse, né bevevo se non sentivo molta sete, per timore che finissero presto l’acqua e le provvigioni che avevo.
«Non vi è forza né potenza se non in Dio altissimo e potente, – dicevo fra me. – Che cosa mi ha fatto pensare a sposarmi in questa città? Ogni volta che dico a me stesso di essere scampato da una disgrazia, ecco che cado in una ancor più grande. Per Allâh, questa mia morte è davvero orribile! Fossi annegato in mare, o fossi morto sui monti! Sarebbe stato meglio per me che morire di questa brutta morte!».

Continuavo a rimproverarmi dormendo sulle ossa dei cadaveri e chiedendo l’aiuto di Dio altissimo, e tanto stavo malconcio che mi auguravo la morte senza però essere esaudito. La fame mi lacerava e la sete mi ardeva: perciò sedetti, trovai a tastoni il pane, ne mangiai un po’, e bevvi poi qualche sorso d’acqua. Poi mi alzai in piedi con tutte le mie forze e camminai ai lati di quella caverna: mi accorsi che era larga e vuota ma sul pavimento giacevano molti cadaveri e ossa putrefatte da molto tempo. Mi acconciai lontano dai morti recenti, in un canto di quella caverna, e lì dormii.
Il mio viatico cominciò a scarseggiare tanto che mi era rimasta poca cosa ogni giorno, benché, per paura che finissero l’acqua e il cibo prima della mia morte, mangiassi ogni giorno, a maggiore distanza di tempo, un sol boccone e bevessi una sola sorsata d’acqua.

Un giorno mentre, in queste condizioni, stavo seduto pensando a come avrei fatto se il cibo e l’acqua mi fossero finiti, la pietra fu tolta dal posto e la luce ne discese fino a me. «Che cosa succede?» mi chiesi, ed ecco che della gente stava in cima al pozzo e calava un uomo morto e con lui una donna viva che piangeva e gridava; calarono anche molto cibo e acqua.
Guardai la donna che non mi aveva visto, mentre quelle persone ricoprirono la bocca del pozzo con la pietra e se ne andarono. Io mi drizzai in piedi, presi in mano il femore di un morto e, avvicinatomi alla donna, la colpii in mezzo alla testa. Quella cadde a terra priva di sensi e io la colpii una seconda e una terza volta finché morì. Presi allora il suo pane e quello che aveva indosso, e vidi su di essa molti monili e ornamenti, collane, gioielli, e pietre preziose. Impadronitomi dell’acqua e del cibo che aveva la donna, mi sedetti nel posto che mi ero acconciato in un canto della caverna per dormire. Mangiavo poco di quel cibo, tanto da potermi sostentare, perché non finisse presto e dovessi morire di fame e di sete.

Sindbad-calato-caverna

In quella caverna rimasi per un bel po’ di tempo: ogniqualvolta seppellivano qualcuno, io uccidevo la persona viva che veniva sepolta con lui, mi impossessavo del suo viatico e della sua acqua, e me ne nutrivo.
Un giorno mentre stavo dormendo, mi svegliai di soprassalto e udii che in un canto della caverna qualche cosa rotolava.
«Che cosa sarà mai?», mi chiesi. Mi alzai e vi andai incontro, brandendo il femore di un morto. Quando quell’essere che aveva prodotto il rumore si accorse di me, scappò via fuggendo: era un animale selvatico, e io lo seguii fino all’imboccatura della caverna ove mi apparve da un piccolo foro della luce che baluginava come una stella. Mi portai verso quel foro e quanto più mi avvicinavo, mi appariva una luce che andava allargandosi: mi convinsi che si trattava di un foro che da quella caverna sfociava all’aperto e pensai: «Senza dubbio questo luogo deve avere uno sbocco: o è un altro ingresso come quello da cui mi hanno calato, oppure deve trattarsi di una breccia fatta in quel punto».

Mi misi a riflettere un po’ e mi diressi verso il punto da cui veniva la luce. Lì vi era sul dorso di quel monte una breccia che le bestie avevano praticato e da cui entravano nella grotta e mangiavano i cadaveri fino a esserne sazie, per poi riuscire attraverso la stessa breccia.
Quando la vidi, il mio animo si calmò, mi tranquillizzai, e il mio cuore si riposò, convinto di essere tornato alla vita dopo la morte: era come un sogno. Tanto feci che uscii da quella breccia e mi trovai in riva al mare, sopra un grande monte che divideva i due mari, e l’isola dalla città, sì che nessuno poteva arrivarci. Lodai Iddio altissimo e lo ringraziai assai, felice e con l’animo riposato. Per quella breccia, ritornai nella caverna, luce-cavernatrasportai fuori tutto il cibo e l’acqua che avevo risparmiato, presi degli abiti dai cadaveri, di cui mi vestii togliendomi quelli che avevo indosso. Presi anche molti vezzi, gioielli, collane, perle e ornamenti di argento e di oro incrostati di gioie, e altri oggetti preziosi che erano indosso ai cadaveri, li legai nelle loro vesti, e uscii dalla breccia sul monte fermandomi vicino al mare.

Ogni giorno scendevo nella caverna e ne riuscivo. A ogni persona che seppellivano io prendevo l’acqua e il cibo, uccidendola, sia che fosse maschio o femmina; poi uscivo da quella breccia e mi sedevo vicino al mare per aspettare la salvezza da Dio altissimo, per mezzo di una nave che passasse di lì. Trasportai da quella caverna tutto ciò che vi trovai di oggetti di oro e di argento che legai nei vestiti dei cadaveri. Così rimasi per un certo tempo.
Un giorno, mentre ero seduto sulla riva pensando alla mia situazione, una nave passò in mezzo al mare procelloso, e io, preso in mano un vestito bianco di quelli dei cadaveri, lo legai a un bastone e corsi con esso sulla riva facendo dei segnali. Essi, guardando per caso verso di me, finirono con lo scorgermi in cima al monte, mi si avvicinarono e udita la mia voce mandarono verso di me una loro scialuppa con delle persone della nave.

Quando questi mi si fecero vicino, mi chiesero: «Chi sei? Come è che stai in questo luogo? Come hai fatto a giungere a questo monte, su cui in vita nostra non abbiamo visto arrivare nessuno?».
«Sono un mercante – risposi – e ho fatto naufragio su una nave in cui mi trovavo; sono salito allora su una tavola con le mie robe e Iddio mi ha aiutato facendomi giungere, dopo grande fatica, in questo luogo con tutte le mie cose, grazie anche ai miei sforzi e alla mia destrezza».
Essi mi presero con loro sulla scialuppa trasportandovi tutto quello che avevo preso dalla caverna e che era legato nei vestiti e nei drappi funebri.
Quando mi portarono con tutte le mie cose sulla nave al cospetto del capitano, questi mi chiese: «Come sei giunto in questo luogo? Esso è un grande monte dietro a cui sta una grande città: in vita mia ho viaggiato tante volte in questo mare e sono passato spesso da questo monte, ma non ho mai visto altro che bestie feroci e uccelli».
«Sono un mercante – gli spiegai – e mi trovavo su una grande nave che si è schiantata. Tutte le mie cose, tra stoffe e vestiti come questi che tu vedi, sono andati in acqua: allora li ho messi su una grande tavola di quelle della nave e la potenza divina e la mia fortuna mi hanno aiutato e mi hanno portato a questo monte, ove aspettavo qualcuno che passasse e mi prendesse con sé».

Sindbad-boat

Non gli raccontai quello che mi era accaduto nella città e nella caverna, per paura che con loro sulla nave vi fosse qualcuno di quella città. Diedi al capitano parecchie cose di quelle che avevo, e gli dissi: «Signore, tu sei causa della mia salvezza da quel monte: accetta da me questo in compenso del bene che mi hai fatto».
Egli non l’accettò e così mi parlò: «Noi non prendiamo niente da nessuno. Quando troviamo un naufrago sul mare o in un’isola, lo portiamo con noi, gli diamo da mangiare e da bere; se è nudo lo vestiamo e quando giungiamo al porto della salvezza, gli diamo in regalo qualcosa di nostro, lo benefichiamo e lo favoriamo in nome di Dio altissimo».
Allora pregai per lui perché avesse lunga vita.

Seguitammo a navigare di isola in isola, di mare in mare, mentre io speravo di essermi salvato, ed ero contento di esser scampato; ogni volta che pensavo a quando mi trovavo nella caverna con mia moglie quasi ne impazzivo.
Giungemmo salvi con l’aiuto di Dio a Bassora, ove sbarcai rimanendovi alcuni giorni. Indi venni a Baghdad, mi recai al mio quartiere entrando a casa mia, ove mi incontrai con la mia famiglia e i miei amici e chiesi loro notizie. Essi si rallegrarono della mia salvezza e mi felicitarono. Riposte nei forzieri tutte le cose che avevo, feci elemosine e regali, vestii gli orfani e le vedove, e fui molto contento e felice, riprendendo a frequentare e ad accompagnarmi con gli amici, a divertirmi e a godere.

Questo è quel che di più meraviglioso mi è capitato nel quarto viaggio. Però, fratello, cena da me e domani secondo la tua abitudine vieni qui e io ti racconterò quanto mi è accaduto nel quinto, che è ancor più straordinario e meraviglioso dei precedenti.

(Le mille e una notte)