Forse, da Sofocle in poi, noi siamo tutti dei selvaggi tatuati. Ma l’arte è qualcosa di più dell’esattezza delle linee e della levigatezza delle superfici. La plastica dello stile non è estesa quanto l’idea …
Noi abbiamo troppe cose e non abbastanza forme.
(Flaubert, Prefazione alla vita di scrittore)
Se l’invasione strutturalista dovesse un giorno ritirarsi, abbandonando sulle rive della nostra civiltà le sue opere e i suoi segni, essa diventerebbe un problema per lo storico delle idee. Forse perfino un oggetto.
Ma lo storico si sbaglierebbe se arrivasse a questa conclusione: nel momento in cui la considerasse come un oggetto, ne smarrirebbe il senso – cioè il fatto che si tratta, innanzitutto, di un’avventura dello sguardo, di una conversione nel modo di porre l’interrogazione nei confronti di ogni oggetto. Nei confronti degli oggetti storici – i suoi – in particolare. E tra essi, particolarmente insolita, la cosa letteraria.
Analogamente: che oggi, la riflessione universale, in tutti i campi, attraverso tutti i suoi procedimenti e malgrado tutte le differenze, subisca il formidabile contraccolpo di una inquietudine sul linguaggio – che non può essere che una inquietudine del linguaggio e prodotta nel linguaggio –, è una strana congiuntura che per la sua stessa natura non può dispiegarsi in tutta la sua ampiezza allo sguardo dello storico, nel caso che egli cerchi di riconoscervi il segno di un’epoca, la moda di una stagione o il sintomo di una crisi.
Per quanto scarne siano le nostre conoscenze a questo proposito, è certo tuttavia che l’interrogarsi sul segno è di per sé più o meno, in ogni caso, tutt’altra cosa che un segno del tempo.
Il sogno di ridurla a questo, è un sogno di violenza. Soprattutto quando questa interrogazione, storica in senso insolito, si avvicina al punto in cui la natura semplicemente segnica del linguaggio sembra tanto incerta, parziale o inessenziale.
Si concederà facilmente che l’analogia tra l’ossessione strutturalista e l’inquietudine del linguaggio non è casuale. Non sarà dunque mai possibile, attraverso una riflessione seconda o terza, sottoporre lo strutturalismo del XX secolo (quello della critica letteraria in particolare, che partecipa allegramente al concerto) allo stesso tipo di analisi che un critico strutturalista si è proposto per il XIX secolo: contribuire a una «storia futura dell’immaginazione e della sensibilità» (J. P. Richard).
D’altra parte non sarà neppure possibile ridurre il potere di seduzione che ha assunto la nozione di struttura a un fenomeno di moda a meno di non reinterpretare, prendendolo sul serio – operazione indubbiamente tra le più urgenti – il senso dell’immaginazione, della sensibilità e della moda.
In ogni caso, se anche lo strutturalismo deve qualcosa all’immaginazione, alla sensibilità e alla moda, nel senso usuale di queste parole, non sarà mai in esso la cosa essenziale. L’atteggiamento strutturalista e il nostro modo attuale di porci di fronte e dentro al linguaggio, non sono solamente momenti della storia.
Stupore, piuttosto, che ci viene dal linguaggio come origine della storia. E dalla storicità stessa. È anche, di fronte alla possibilità della parola e già da sempre in essa, la ripetizione finalmente avvertita, e portata finalmente alle dimensioni della cultura mondiale, di una sorpresa di proporzioni diverse da ogni altra da cui prese le mosse quello che viene chiamato il pensiero occidentale; questo pensiero il cui destino consiste tutto nell’estendere il suo regno, a mano a mano che l’Occidente riduce il suo.
Nella sua intima intenzione e come ogni interrogazione sul linguaggio, lo strutturalismo sfugge dunque a quella storia classica delle idee che ne presuppone già la possibilità, che appartiene in modo ingenuo alla sfera dell’interrogato ed è proferita in essa.
Tuttavia, per tutta una zona che in esso è irriducibile di irriflessione e di spontaneità, per l’ombra essenziale del non manifesto, il fenomeno strutturalista dovrà essere preso in esame dallo storico delle idee. Bene o male. Sarà necessario prendere in esame tutto quello che in questo fenomeno non è trasparenza di per sé dell’interrogazione, tutto quello che, nell’efficacia di un metodo, implica quel genere di infallibilità che si suppone nei sonnambuli e che in passato si attribuiva all’istinto, asserendo che era tanto più sicuro quanto più cieco.
La dignità di quella scienza umana che è chiamata la storia sta, fra l’altro, nel privilegio che le compete di interessarsi, negli atti e nelle istituzioni dell’uomo, dell’immensa regione del sonnambulismo, di quel quasi-tutto che non è il puro stato di veglia, l’acidità sterile e silenziosa dell’interrogazione stessa, il quasi-niente.
Poiché viviamo nella fecondità strutturalista, è troppo presto per eccitare il nostro sogno. Dobbiamo immaginare in esso quello che potrebbe significare. Forse domani lo si potrà interpretare come un rilassamento, se non un lapsus, nell’attenzione alla forza – che è tensione della forza stessa.
La forma affascina quando non si ha più la forza di comprendere la forza nel suo interno. Cioè di creare. Ecco perché la critica letteraria è strutturalista in ogni epoca, per essenza e destino.
Essa non lo sapeva; incomincia a capirlo ora, e pensa se stessa in quanto concetto, in quanto sistema e in questo metodo. Sa ormai di essere separata dalla forza e si vendica, talvolta, dimostrando con profondità e serietà che la separazione è la condizione dell’opera e non soltanto del discorso sull’opera.
Si spiega in tal modo la nota profonda, il pathos malinconico che è possibile cogliere attraverso le grida di trionfo dell’ingegnosità tecnica o della sottigliezza matematica che talvolta accompagnano certe analisi cosiddette «strutturali».
Come la malinconia per Gide, tali analisi non sono possibili che in seguito a una certa sconfitta della forza e nel movimento del fervore che si è spento.
In questo senso, la coscienza strutturalista è semplicemente la coscienza come pensiero del passato, voglio dire del fatto in generale.
Riflessione del compiuto, del costituito, del costruito.
Storica, escatica e crepuscolare per situazione.
(Derrida, Forza e significazione, in La scrittura e la differenza)
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Circa quarant’anni fa, lo posso testimoniare di persona, i nostri manuali scolastici furono «invasi», e suppongo che lo sono tuttora, dall’allora nouvelle vague strutturalista, ovviamente nella sua forma più volgare, più popolare, alla portata di tutti.
Buttate via le vecchie antologie! Da oggi passeremo a studiare la griglia, il referente, la funzione fatica!
Malgrado tutto, però, anche quando sarà passato di moda (quanto manca, chi lo può dire?), anche allora – dice Derrida – sarebbe un errore scambiare lo strutturalismo per un «oggetto». Sarebbe il colpo di coda dello strutturalismo – del suo vizio a interrogare sempre e soltanto «oggetti», della sua ossessione per le «cose»… e, in particolare, per quelle già «fatte», già «finite», già «evacuate»: a interrogare, dunque, l’Avvenuto, il Passato come «cosa morta», e mai a sentirsi preso, coinvolto nella sua «forza».
Lo strutturalismo è, o è stato – ma forse anche sarà –, un’«avventura dello sguardo» che, in tanto si è rivolto al linguaggio, in quanto il linguaggio stesso è diventato così «avventuroso» da mettere sotto osservazione se stesso e la propria inquietudine.
È questa svolta del linguaggio, nel linguaggio, sul linguaggio stesso – l’avvenimento ancora vivo, e di cui, probabilmente, lo strutturalismo non è stato che il prologo. È nelle pieghe di questa svolta che anche noi – a nostra insaputa – siamo presi.
Siamo presi nell’inquietudine del linguaggio. Siamo inquieti, instabili, in perpetua agitazione «linguistica». Questo ballo di san Vito, non è – non fu e magari neanche sarà – lo strutturalismo a infettarcelo. Questa tarantola viene da lontano.
Come dice Flaubert: da Sofocle in poi, è stato tutto un tatuarsi, e una volta così mascherati, tutto un correre in piazza la sera del dì di festa. A impazzare questo carnevale.
Ma, a centocinquanta anni di distanza, lo possiamo correggere: lo scandalo è più antico, assai più remoto. E la sua forza, a quanto si vede, ancora non si è sedata!
La forza di una ripetizione. La forza, dice Derrida, di uno stupore che non si è esaurito una volta per tutte, ma che si è già ripetuto talmente tante volte, che ora è giunto ad articolare una prima coscienza, e una lingua ancora sillabata, di se stesso, del suo Meravigliarsi – come atto primo del Teatro Umano, della Storia.
Forse, questo è lo strutturalismo: nient’altro che la presa di coscienza di una ripetizione che viene da lontano, che ci tarantola, e ci allucina, evocando miraggi di «forme», laddove tutti gli altri «animali» sono alle prese soltanto con «oggetti». Nient’altro che l’effetto temporaneo di questa ripetizione a «formalizzarci», talvolta, persino con una precisione matematica, salvo poi ricadere in una più o meno magica «formula d’incantesimo».
Lo strutturalismo non è dunque solo una moda dei tempi, né solo il sintomo di una crisi. È anche questo, ma ciò che conta è il fermento linguistico di cui esso è, sia pure spesso inconsapevole, portavoce.
È a questa inquietudine che fermenta nel nostro linguaggio, che dobbiamo ora, dopo lo strutturalismo, rivolgere lo sguardo. Dobbiamo imparare, ora, a districarci tra le linee di fuga, da qui al futuro, costellate di «corpi» e di «tatuaggi» che rischiano di morire se li riduciamo a «forme», di cui però non sentiamo più la «forza».
Dobbiamo, dice Derrida, in quest’epoca di strutturalismo, provare a immaginare cosa potrà significare domani – quale piega la forza prenderà fino a invadere le nostre abitudini linguistiche. Provare a immaginare cosa sarà stato dello strutturalismo – una volta terminata l’«avventura del suo sguardo».
Forse si dirà che è stata una parentesi, una distrazione, una peregrinazione un po’ fuori mano. Si dirà, forse, che non ha avuto la forza di comprendere la forza che l’alimentava, di comprenderla dall’interno – facendosene investire, coinvolgere, prendere.
Si dirà forse che è stato timido, che si è spaventato dinanzi ai turbamenti «linguistici» dell’epoca, che si è dato una corazza, che si è rifugiato in un metodo, in un concetto, in un sistema di se stesso, nel nostalgico tentativo di padroneggiare con l’infallibilità della scienza il suo sonnambulismo.
Non importa. Questioni che lasciano il tempo che trovano. Importa semmai il destino della forza che l’ha ispirato – della forza che l’ha spinto ad azzardare un primo alfabeto, approssimativo quanto si vuole, delle ripetizioni della Forza stessa.