Cimidyuë era odiata dal marito, il quale decise di disfarsene nel corso di una spedizione di caccia. L’uomo la convinse che gli organi sessuali delle scimmie coatá erano fatti di un’ovatta bianca come quella che guarniva i dardi di cerbottana e che perciò bisognava aspettare che il veleno facesse il suo effetto per raccogliere gli animali quando fossero caduti morti. Egli sarebbe andato avanti e avrebbe ucciso altra selvaggina. Ma l’uomo si allontanò, e tornò al villaggio senza dare il segnale convenuto alla moglie.
Questa rimase a lungo ai piedi dell’albero e, siccome non conosceva la strada del ritorno, decise di seguire le scimmie e di nutrirsi dei frutti di sorva che quelle le gettavano. Di notte, le scimmie diventavano esseri umani e invitavano la loro protetta a dormire in una delle amache di cui era fornita la loro capanna; all’alba, la capanna e le amache scomparivano, e le scimmie riprendevano il loro aspetto animale.
Dopo aver a lungo errato con le scimmie, Cimidyuë arrivò dinanzi al loro capo, che aveva forma umana benché fosse della razza dei giaguari. Essa aiutò a preparare la birra di manioca dolce per una festa con libagioni. Il signore delle scimmie si addormentò e annunciò, russando, che avrebbe mangiato la nostra eroina. Questa, preoccupata, lo svegliò, rendendolo così furioso. L’uomo-scimmia si fece allora portare un grosso nocciolo del frutto, con cui si pestò il naso fino a farlo sanguinare.
A questo punto si riaddormentò, e ricominciò a proferire minacce russando. Cimidyuë lo svegliò ripetutamente: l’uomo scimmia continuò a pestarsi il naso e a raccoglierne il sangue in una coppa per berlo. Poi si fece portare la birra, e tutti si ubriacarono.
Il giorno dopo, il signore delle scimmie se ne andò a caccia, dopo aver attaccato alla gamba di Cimidyuë una lunga corda di cui teneva un capo. Ogni tanto tirava la corda per assicurarsi che la donna fosse sempre prigioniera.
Nella capanna si trovava una testuggine che era attaccata nello stesso modo. Essa spiegò che il signore delle scimmie era un giaguaro e aveva intenzione di mangiarle entrambe, e che avrebbero fatto bene a scappare.
Si liberarono così della corda, la legarono a un palo della capanna e si eclissarono attraversando il cortile di Venkiça, fratello del signore delle scimmie, che se ne stava seduto con le gambe incrociate davanti alla sua porta.
Consigliata dalla testuggine, Cimidyuë prese un randello e colpì con un colpo secco il ginocchio dell’uomo, proprio al di sopra della rotula. Il colpo gli fece così male che egli ritrasse bruscamente la gamba.
«Non ci tradire!», gridò la donna passando. Venkiça è visibile nella costellazione di Orione.
Ritornato dalla caccia, il signore delle scimmie si mise alla ricerca delle fuggitive. Chiese al fratello se aveva visto passare una «ragazza grande e grossa». Sempre pazzo dal dolore, l’altro lo pregò di lasciarlo in pace con la «ragazza grande e grossa»: il ginocchio gli faceva troppo male per rispondere.
Il signore delle scimmie abbandonò l’inseguimento.
Di nuovo perduta nella foresta, Cimidyuë fu vittima di altre disavventure. Un uccello della famiglia dei picidi la fece smarrire con la scusa di riportarla al villaggio. In seguito, essa prese un abbaglio a proposito di un uccello inhambù, della famiglia dei gallinacei, che gonfiava le penne per pulirsele e nel quale essa credette di riconoscere una vecchia che intrecciava una cesta all’interno di una capanna; la viaggiatrice chiese addirittura il permesso di passarvi la notte, ma l’uccello volò via e quella dovette dormire all’aria aperta. Quando, il giorno dopo, volle mettersi in cammino l’uccello le indicò una direzione sbagliata.
La notte seguente, Cimidyuë credette di potersi riparare dalla pioggia sotto un enorme termitaio appeso a un ramo. Ma quel termitaio era un giaguaro che cominciò a minacciarla. Essa si diede alla fuga e arrivò in una regione che riconobbe come la valle del Solimöes.
Quella notte dormì ai piedi di un albero del kapok, rannicchiata fra le anse delle radici. Gli animali che passarono – prima una grossa lucertola, poi un rospo – si fecero beffe di lei fingendo di darle da mangiare.
Infine, il signore dell’albero del kapok, che era una farfalla azzurra, si svegliò e annunziò sbadigliando che sarebbe andato a mangiare gli ananassi nel giardino di un indio, di cui fece il nome e che altri non era che il padre di Cimidyuë.
Quest’ultima seguì la farfalla fino al fiume. La capanna paterna si trovava dall’altro lato. Cimidyuë aveva dunque attraversato l’acqua senza saperlo!
La farfalla pronunziò una formula magica, che trasformò la donna in una libellula rossa. I due insetti volarono insieme verso l’altra riva, ma, tradita dalle sue forze, Cimidyuë non avrebbe potuto arrivarci senza l’aiuto della compagna. Per ringraziarla, schiacciò parecchi ananassi e la farfalla ne bevve il succo.
Il padre si stupì alla vista dei frutti schiacciati, si appostò insieme alla moglie, riconobbe [nella libellula] la propria figlia e invano cercò di trattenerla.
Gli abitanti del villaggio, chiamati in aiuto, si dispersero nei boschi. Per tre giorni aspettarono il ritorno degli insetti, e finalmente riuscirono a catturare Cimidyuë, mentre la farfalla fuggì.
Nonostante le sue proteste, la donna venne infine ricondotta a casa. Il padre le somministrò un emetico; essa vomitò abbondantemente e tornò in senno.
In seguito Cimidyuë incontrò il marito a una festa. Costui, che portava una maschera guarnita di paglia raffigurante una piccola lucertola lanuginosa, si mise a cantare parole di scherno all’indirizzo della sua vittima. Ma Cimidyuë diede fuoco a un pezzo di resina e la lanciò sulla maschera.
La paglia prese fuoco: l’uomo scappò senza riuscire a liberarsi del suo vestito di corteccia. Il calore gli fece esplodere il ventre e l’uccello /porénë/ si tinse le penne col suo sangue.
***
Questo mito ricorda per vari aspetti quello del cacciatore Monmaneki, che proviene anch’esso dai Tukuna.
Monmaneki è un marito avventuroso che colleziona le sue spose successive fra gli animali. Cimidyuë rappresenta il caso simmetrico di una sposa sventurata che il marito abbandona nelle mani di animali che non la trattano mai come una donna, ma vedono in lei più che altro un soggetto o un oggetto alimentare: le scimmie la nutrono, il signore delle scimmie e il giaguaro vogliono nutrirsi di lei, la lucertola e il rospo rifiutano di darle da mangiare, la farfalla si fa nutrire da lei.
Questa dialettica si colloca quindi sempre entro i limiti del senso proprio, mentre le spose animali di Monmaneki la situano all’intersezione del senso proprio e del senso figurato: le mogli-uccello nutrono il marito in senso proprio, le mogli-rana e verme si fanno nutrire da lui in senso figurato poiché scambiano delle posture di evacuazione (inverso della nutrizione intesa in senso proprio) per posture di fecondazione (inverso della nutrizione intesa in senso figurato).
La fine del mito di Monmaneki lascia uno di fronte all’altro un uomo, sua madre e sua moglie; la fine del mito di Cimidyuë, una donna, suo padre e suo marito.
Nel primo caso, la donna «tiene» il marito, che si libera di lei per mezzo dell’acqua. Nel secondo, il marito «abbandona» la moglie, che si vendica di lui per mezzo del fuoco. La donna-rampone si divide in due all’altezza della vita; il marito che ha abbandonato la moglie esplode a livello dell’addome.
Nel primo caso è la madre del cacciatore che provoca disastri, sottovalutando le virtù delle nuore animali; nel secondo caso, è il padre di una donna, sposata a un cacciatore, a mostrarsi pietoso verso la figlia che si è sbagliata sul conto degli animali che ha frequentato.
Si ricorderà infine che il mito di Monmaneki evoca esplicitamente l’origine dell’arcobaleno, implicitamente quello della Chioma di Berenice di cui inverte la funzione.
Orbene, il mito di Cimidyuë evoca esplicitamente l’origine della costellazione di Orione, di cui indebolisce il tema anatomico (ginocchio paralizzato in flessione anziché gamba tagliata), ed evoca implicitamente l’origine dell’eclissi lunare, attribuita dai Tukuna al demone Venkiça, il quale riveste la funzione di Orione.
Indizi concordi ci spingono dunque a porre i due miti nello stesso gruppo. Non possiamo però trascurare il fatto che questi miti appaiono molto diversi quando vengono considerati secondo l’aspetto sintagmatico. Entrambi assumono la forma di un racconto a episodi, ma in quello di Monmaneki questa somiglianza è ingannevole, in quanto abbiamo potuto mettere a nudo dietro la forma seriale una costruzione i cui elementi, osservati secondo prospettive diverse, sono sempre concatenati con precisione.
Niente di simile potremmo ottenere nel caso delle avventure di Cimidyuë perché, eccettuato qualche riferimento sparso, difficile da articolare, il numero degli episodi, l’ordine con cui sono disposti, i tipi da cui dipendono, sembrano risultare da una invenzione più libera, già pronta ad affrancarsi dalle costrizioni del pensiero mitico se addirittura non l’ha già fatto.
In altri termini, possiamo chiederci se la storia di Cimidyuë non illustri un passaggio significativo dal genere mitico al genere romanzesco, la cui parabola è meno rigida o comunque non obbedisce alle stesse determinazioni.
Tutti coloro che hanno raccolto o studiato la letteratura orale degli Indios sudamericani hanno avvertito questo contrasto. […]
Con il mito di Cimidyuë, si effettua un passaggio discreto dal codice stellare al codice lunare. La costellazione di Orione, citata espressamente, non ha una funzione stagionale, e la sua personificazione attraverso il demone Venkiça evoca esplicitamente una carenza di luna.
Ora, sia questo mito sia parecchi altri dello stesso gruppo rendono palese tale passaggio in un altro modo, che conferma l’emergere di forme brevissime di periodicità.
Quando leggiamo questi racconti, possiamo constatare che essi pongono una estrema cura nel far coincidere lo svolgimento degli episodi con l’alternanza del giorno e della notte, iscrivendo ogni avventura dell’eroe o dell’eroina nel lasso di un periodo di dodici o ventiquattro ore. La storia di Cimidyuë abbonda di formule di transizione come: il giorno seguente, sul far della notte, quella notte, il giorno dopo, per tre giorni, ecc. […]
Siamo partiti dai miti sull’origine di certe costellazioni. Da queste siamo passati ad altre costellazioni, poi a simboli logici di costellazioni senza una esistenza reale, e infine al sole e alla luna.
Nei miti, a questa progressione se ne accompagna un’altra che si produce nello stesso ordine, a partire dalla nozione di una periodicità lunga – annuale o stagionale –, fino a quella di una periodicità breve – mensile o quotidiana –; periodicità che si oppongono fra loro come le costellazioni si oppongono alla luna, formando quei poli fra i quali il sole occupa un posto intermedio ed esercita una funzione ambigua.
Ebbene, accade ora qualcosa di irreversibile, mentre una stessa sostanza narrativa subisce questa serie di operazioni: come la biancheria strizzata ripetutamente da una lavandaia fa uscire goccia a goccia tutta l’acqua che contiene, così la materia mitica si lascia progressivamente sfuggire i suoi princìpi interni di organizzazione. Il suo contenuto strutturale si dissolve. Invece delle vigorose trasformazioni iniziali, alla fine non si osservano altro che trasformazioni prive di forza.
Questo passaggio ci è già apparso nel passaggio dal reale al simbolico e poi all’immaginario, e ora si manifesta in altri due modi: il codice sociologico, quello astronomico e quello anatomico, che avevamo visto funzionare in piena luce, passano ormai allo stato latente; e la struttura si degrada in serialità.
Questa degradazione comincia quando certe strutture di opposizione fanno posto a certe strutture di reduplicazione: episodi successivi, ma tutti fusi nello stesso stampo; e termina nel momento in cui la reduplicazione stessa fa le veci della struttura. Forma di una forma, essa raccoglie l’ultima voce della struttura morente. Non avendo più niente da dire o quasi, il mito dura solo a condizione di ripetersi.
Ma al tempo stesso esso si dilata, e questo avviene per due ragioni.
In primo luogo, nulla vieta che episodi non concatenati da alcuna logica interna accolgano nelle loro file altri episodi dello stesso tipo, in numero teoricamente illimitato. Il mito si aggrega così elementi provenienti da altri miti, e che se ne distaccano tanto più facilmente in quanto anch’essi facevano parte di insiemi paradigmatici ricchissimi la cui complessità mascherava spesso la coerenza.
In secondo luogo, e soprattutto, il bisogno di riempire periodi sempre più brevi costringe ad allungare, se così possiamo dire, il mito dall’interno. Ogni periodo richiede solo per sé una piccola storia, il cui contrasto, sia pure attenuato, con altre storie dello stesso tipo genera comunque uno scarto differenziale che permette di significarla.
Si capisce allora perché questi racconti esotici ricordino con tanta insistenza un genere altrettanto popolare, ma legato ai potenti mezzi tecnici e ai bisogni volgari della società industriale, ossia il romanzo d’appendice.
Infatti, anche in questo caso, si tratta di un genere letterario che ricava la sua materia degradata da certi modelli e che vede aumentare la sua povertà man mano che si allontana dalle opere originali. In entrambi i casi, la creazione procede da imitazioni che snaturano progressivamente la loro fonte.
Ma c’è di più: la costruzione analoga del mito «a cassetti» e del romanzo d’appendice risulta dal loro rispettivo asservimento a forme di periodicità brevissime. La differenza sta in questo: nel primo caso, la periodicità breve proviene dalla natura del significante, nel secondo si impone dal di fuori, come esigenza pratica del significante: la luna visibile, col suo movimento apparente, e la stampa, con la sua tiratura, obbediscono a una periodicità quotidiana; e le stesse costruzioni formali si applicano, per un racconto qualsiasi, al bisogno di significare l’una o di farsi significare dall’altra.
Non si dovrebbe però dimenticare che, anche se si incontrano, il «mito a cassetti» e il romanzo d’appendice compiono il loro tragitto in senso inverso. Il romanzo d’appendice, quale ultimo stadio della degradazione romanzesca, si confonde con le forme più basse del mito, che a loro volta sono un abbozzo di creazione romanzesca nella sua prima e originale freschezza.
Nella sua ricerca del «lieto fine», il romanzo d’appendice trova nella ricompensa dei buoni e nella punizione dei malvagi un vago equivalente della struttura chiusa del mito, trasferita sul piano caricaturale di un ordine morale con il quale una società che si affida alla storia crede di poter sostituire l’ordine logico-naturale che ha abbandonato, a meno che non ne sia stata essa stessa abbandonata.
I racconti che abbiamo preso in considerazione ultimamente si allontanano però dal paradigma mitico per il fatto che non hanno una vera e propria fine: la storia che narrano non è chiusa.
Essa comincia con un caso drammatico, prosegue fra avventure avvilenti e senza prospettive, e termina senza porre rimedio alla carenza iniziale, poiché il ritorno dell’eroe [nel nostro caso: dell’eroina] non approda a nulla: segnato per sempre dal suo drammatico passaggio attraverso la foresta, egli diventa l’assassino del proprio coniuge o di creature familiari, ed è votato a sua volta a una morte incomprensibile o a una condizione miserevole.
Tutto accade dunque come se il messaggio del mito riflettesse il processo dialettico da cui è scaturito e che consiste in una degradazione irreversibile dalla struttura alla ripetizione. Il destino angusto dell’eroe traduce, in termini di contenuto, le modalità di una forma.
E il romanzo, non è forse sempre questo? Il passato, la vita, il sogno trasportano immagini e forme sconnesse che assillano lo scrittore quando il caso o qualche altra necessità, smentendo l’esigenza che in passato poté generarle e disporle in un vero e proprio ordine, conservano o ritrovano in esse i contorni del mito.
Il romanziere, tuttavia, avanza alla deriva fra quei corpi galleggianti che il calore della storia, nel disgelo che viene producendo, distacca dalla loro banchisa. Egli raccoglie quei materiali sparsi e li riadopera così come si presentano, non senza avvertire confusamente che provengono da un altro edificio e che si faranno sempre più rari nella misura in cui verranno trascinati da una corrente diversa da quella che li teneva uniti.
La caduta dell’intreccio romanzesco, interna allo svolgimento dell’intreccio stesso fin dall’origine e diventata recentemente esterna – poiché oggi assistiamo alla caduta dell‘intreccio dopo la caduta nell‘intreccio –, conferma che, per la sua posizione storica nell’evoluzione dei generi letterari, era inevitabile che il romanzo narrasse una storia che finisca male e che il romanzo stesso, come genere letterario, andasse a finir male.
In entrambi i casi l’eroe del romanzo è il romanzo stesso. Esso narra la propria storia; rivela non soltanto di essere nato dall’estenuazione del mito, ma di essersi ridotto a un inseguimento estenuante della struttura, al di qua di un divenire che esso spia dal punto più vicino possibile senza poter ritrovare, al di dentro o al di fuori, il segreto di un’antica freschezza, salvo forse in qualche recesso in cui la creazione mitica rimane ancora vigorosa ma, contrariamente al romanzo, a sua insaputa.
(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)