Dal mito al romanzo… e oltre?

Dal mito al romanzo, è il titolo che lo stesso Lévi-Strauss ha dato a questo capitolo delle Mitologica dedicato alla storia di Cimidyuë – un anticipo, un primo saggio di quello che scriverà alla fine del quarto volume.
Proviamo dunque a seguirlo in questo tragitto che, stando a come lui ce lo descrive, va dal mitologico al seriale – dal codice stellare strutturato su una periodicità lunga, annuale gitana-arlecchinoe stagionale, al codice lunare che è chiamato invece a scandire il tempo assai più breve, al massimo di un mese, ma più sovente di una sola notte (dal momento che da notte a notte la luna muta d’aspetto: dal plenilunio al novilunio, gradatamente, dalla luce piena all’«eclissi» mensile).

Un mito, Lévi-Strauss lo distingue dal romanzo innanzitutto da questo: il mito tratta un solo evento, perlopiù l’origine di una costellazione, e quindi di fatto la sua struttura non fatica a «richiudersi» nel limite che s’è dato. Una volta che, come suggerisce Afanasjev, «la fiaba è giunta al traguardo», una volta che non ha più niente da dire, il mito si tace. Ha esaurito la sua funzione.

Il romanzo invece, quello d’appendice, «a puntate», o se vuoi «a capitoli», ha più di un caput – e oggi lo puoi, non solo leggere, ma perfino vedere: è l’Idra, il mostro dalle mille teste che s’affaccia tutti i giorni da tutti, o quasi, i canali della nostra tivù. Ogni giorno ne mostra una: la sua materia non si riduce a un singolo evento (svolto dal «nodo drammatico» iniziale al suo scioglimento finale), ma si arricchisce, e così si disperde, nei rivoli di tanti altri «fatti» collaterali – frammenti mitici che ancora galleggiano nel Racconto, membra disjecta di un remoto Orfeo. E così il suo testo non si esaurisce ma si prolunga in tutti gli affini e contigui che, partecipando alla sua stessa frenesia «seriale», legittimano e sostengono la sua «inconcludenza».

Ma sì, il nostro caro «romanticismo», un po’ lo sospettavo, ma non avevo le parole per dirlo – ora, grazie a Lévi-Strauss, lo posso dire: il romanzo non si chiude mai, non giunge mai a un traguardo, è nato interminabile, è nato già stanco di chissà quale lungo viaggio nell’infinito. Il romanzo è nato cresciuto e pasciuto all’insegna della sua natia «infinitudine» serial.
Solo che mi domando: stiamo parlando solo del «romanzo», o non piuttosto di ogni nostro «prodotto» (intellettuale e non)?

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In altre parole: quel che è successo al Mito ha riguardato solo un mutamento di genere e di gusto «letterario», o è tutta quanta la nostra Storia (una volta che abbiamo deciso di rimettere alla Storia l’ultima parola sul nostro destino), tutta nel suo insieme ad aver trascinato la Parola, anche quella del Mito, lungo la discesa a precipizio dalle «stelle» (ognuna a fare la stella di Betlemme di una sola vita) alla «stalla» (dove istante per istante, in una partizione sempre più corta, sempre più frenetica, s’alternano i nostri «umori» e ci scompongono in una «serie» senza fine di ego)?

Non facciamoci illusioni. La caduta, se di caduta si tratta – la trasformazione, in ogni caso, del mito e della fiaba in romanzo – è irreversibile. La nostra stessa degradazione dalla mitologia (e dal prestigio che essa ci conferiva da bambini allorché «ideavamo» noi stessi) al romanzo criminale a cui per sbarcare il lunario (e non solo) ci siamo rassegnati ad arruolarci da grandi – c’è poco da illudersi – è pur essa irreversibile.
Di più: noi siamo gli epigoni, gli ultimi rantoli del romanticismo. E non perché abbiamo, chissà dove e come, ritrovato a Occidente, al di là della sua estinzione, i «tempi lunghi» o addirittura l’Eterno di una volta, ma perché abbiamo frammentato e insistiamo a frammentare fino all’unghia quel che già era stato oggetto di millenaria frammentazione e dispersione.

Abbiamo raccolto il testimone di una «infinitudine» talmente parcellizzata nei mille intrecci in cui è intricata, talmente scannerizzata istante per istante, che – quasi giunti al confine dell’Effimero, e come totalmente disarmati a sostenerne l’Insensatezza – siamo la Mayer-bocca-mieleprova vivente non del fallimento del solo Romanzo, o del nostro più o meno volgare Romanticismo, ma del Fallimento tout court di tutto quanto abbiamo affidato alla Parola che ci scambiamo.
Del Fallimento non della nostra Mitologia, e nemmeno della nostra Struttura mentale, della nostra vocazione «trascendentale», ma della Serialità che già era all’opera nel Mito, ma che il Mito, una volta «degradato» a Romanzo, non ha potuto più, non è stato più sufficiente a nasconderci.

Suppongo che non sono stato abbastanza chiaro.
La Serialità – la Ripetizione – che Lévi-Strauss, se non leggo male, indica come l’«escremento» (vedi tu se in senso proprio o figurato) del Mito, come l’Ano che il Romanzo si ostina a scambiare per la Vagina della Parola – la Ripetizione che per lui è il degrado terminale del Mito, proprio ai giorni nostri che si è ormai da se stessa sterminata in mille puntate serial mille al giorno acca-ventiquattro, proprio qui e ora può mostrarci l’altra sua faccia: la sua Faccia Creativa perché stupida. Perché facile a lasciarsi andare allo Stupore.

Voglio dire che il tragitto dal mito al romanzo è solo un’ipotesi – che la trafila della Parola dal Prestigio degli antichi aedi agli odierni sceneggiatori serial, è solo una curva, un angolo della via per cui, mutatis mutandis, la Parola è già passata chissà quante volte. Voglio dire che in quell’angolo, in quella curva di Ananke, nella polarità del suo essere giunta a un estremo, a un’abbuffata, a un’insostenibilità della sua stessa ferrea «legge», la Parola chissà quante volte si è presa gioco di se stessa. Perché, forse, essa non obbedisce primariamente a una Struttura (a un che di «logico»), ma piuttosto a una Ripetizione (vitale) delle sue erranze. Dei suoi vagabondaggi. Delle sue maldestre peripezie a bordo della Metafora.

Voglio dire che gli ultimi poeti ormai parlano (nel migliore dei casi) sapendo di parlare al vento. Sapendo di non aver mai avuto nulla da dire. O meglio: di sentirsi chiamati a dire un «bel» niente. A contrabbandare il bello per niente. Il dono con un furto. E continuamente, viceversa. E tutto ciò nel segno e nella corrente vitale della Ripetizione e Pinto-ballerinadella sua (ludica) altalena, perché no?, da un sentimento all’altro – pur di vivere, essa, la sola depositaria del divino segreto dell’Insensatezza – del Nada-nada, del Vuoto quale profondo numinoso recesso della nostra Realtà. Freud, capisci?, lo chiama Istinto di morte. Là, dice, in quell’istinto – la vita si custodisce al riparo di ogni illusione «strutturale».

L’ho fatta lunga. Volevo dire che la Vita non si duole all’infinito. Che essa sa alternare alla nostalgia dell’avvenuto remoto la più smemorata, e perciò fertile, creatività del venturo. Che l’oblio è più radicale in noi d’ogni memoria, più intimo, più istinto di morte, più vitale.
E voglio dire soprattutto che è l’Oblio a ripetersi finché non s’inceppa in un «questo» o in un «quello». In un principio di memoria. In un’organizzazione strutturale.
E se anche il Mito fosse stato, ma non ci credo, la prima parola balbettata da questo principio, in ogni caso sarebbe comunque, esso, il «degrado» di una ripetizione inconscia, «senza parole». Di una ripetizione che, quando la trama del Mito si disfa o si romanza, viene – come carne cruda – allo scoperto.
Come la Medusa: se la guardi in faccia, ti pietrifica.
Se le chiedi: scusa, ma perché ti ripeti?
Così per niente, ti risponde in tutte le lingue del mondo, ormai.