Che l’Altro Mondo comunichi col nostro mondo attraverso delle porte, è una credenza antichissima, che ritroviamo effigiata in innumerevoli monumenti figurativi e che viene descritta da tutte le tradizioni metafisiche.
La storia che meglio illustra questo mitologema è forse quella, notissima, degli Argonauti e delle Simplegadi, una storia che parecchi autori classici ci hanno narrato con dovizia di particolari ma che appare, anche nelle testimonianze più antiche, già corrosa, degradata, e come consunta dal tempo.
I fortissimi eroi imbarcati sulla magica nave Argo al seguito di Giasone, devono, come si sa, raggiungere la remota Colchide per impadronirsi del vello d’oro, magico pegno di regalità consacrato ad Ares e custodito da un drago feroce. Per raggiungere la loro meta, essi devono abbandonare le fide acque del Mediterraneo, entrando nelle sconosciute distese del Ponto.
All’ingresso di questo mare straniero – vera frontiera di un favoloso oltremondo –, stanno appunto le Simplegadi, due terribili rocce cozzanti fra le quali nessun essere vivente può passare, che gli Argonauti attraversano sulle tracce di un animale, appositamente liberato per fungere da guida.
Ancora una volta, e certo non per caso, all’inizio di tutto, troviamo un oracolo. Nel corso del loro viaggio, infatti, gli Argonauti giungono da Fineo, cieco e veggente, e lo liberano dalle arpie che da lungo tempo lo tormentano.
«Liberato dalle arpie Fineo rivelò agli Argonauti la rotta e li informò sulle rocce Simplegadi, che avrebbero incontrato in mare. Erano rocce enormi che cozzavano le une contro le altre sotto l’impeto dei venti, impedendo il passaggio. Una fitta nuvolaglia si levava al di sopra di esse, grande era il frastuono, nemmeno gli uccelli riuscivano ad attraversarle. Fineo disse loro di inviare tra le rocce una colomba: se si salvava, potevano passare tranquillamente, se moriva non forzassero il passaggio. Udito ciò, essi presero il mare e, quando furono vicini alle rocce, dalla prora della nave lasciarono andare una colomba; mentre essa passava a volo, le rocce cozzarono e le mozzarono la punta della coda. Allora gli Argonauti colsero il momento in cui le rocce si allontanavano e, a forza di remi, con l’aiuto di Era, riuscirono a passare: solo l’estremità dell’aplustre della nave fu troncato. Da allora le rocce Simplegadi rimasero ferme: era destino infatti che non si sarebbero mosse mai più se una nave fosse riuscita a passare» (Apollodoro, 1: 9.22).
La colomba liberata da Giasone e dai suoi è qualcosa di più di un semplice animale oracolare; si manifesta infatti come una sorta di doppio animale della nave: legate a un unico fato, tanto la colomba che la nave sono destinate insieme a passare o a perire, ed entrambe perdono nel cozzo delle rupi l’estremità posteriore.
Ma, proprio in quanto doppio animale della nave, la colomba è anche, e soprattutto, una guida, nel tempo e nello spazio, che definisce e traccia la strada da seguire e il momento da cogliere. Come mostra infatti la versione di Valerio Flacco, che sostituisce la colomba con una immateriale luce appositamente scagliata da Atena, gli Argonauti hanno assoluto bisogno di una simile guida, perché il cozzare delle rupi produce una sorta di caos primigenio entro il quale non esistono vie praticabili.
«Che cosa può fare la nave sbarrata / in mezzo alle rocce, che cosa può fare / la forte schiera dei giovani? Ma pende sopra di loro / il favore divino che è nato da quella splendida impresa. / Con l’egida corruscante, manda per prima il segnale / la vergine e scaglia una luce di folgore. / Appena le ripide rocce concedono un poco di spazio / essa – volando attraverso le mobili rupi – / corre, seguendo un’esile traccia; riprendono, gli uomini, / il coraggio e la forza, vedendo una via. / “Io ti seguo, chiunque tu sia degli dèi – Giasone dice – / anche se inganni”. Si avventa a precipizio / in mezzo a quei fragori, sparisce in un fumo di tenebra» (Valerio Flacco, Le Argonautiche, 4: 667 ss.).
Quello degli Argonauti è un mito che affonda le sue radici nel mondo delle fiabe, e che narra, in quanto tale, del viaggio che un eroe compie in un mondo lontano, misterioso e crudele, per impadronirsi dei tesori dell’altro mondo (il vello d’oro), uccidere un temibile drago e conquistare una principessa oltremondana dalla luminosa bellezza e dai terribili poteri (Medea).
Vale a dire che, mutatis mutandis, il mito ci narra la stessa vicenda che ci raccontano fiabe come quella dell’Uccello d’oro e tante altre […].
Proprio nel mezzo del viaggio fantastico di Giasone e dei suoi compagni alla volta della Colchide, allorché Argo, la loro nave magica e profetica, abbandona il cosmo mediterraneo della civiltà greca per penetrare nelle sconosciute ed esotiche lontananze del Ponto, troviamo appunto le Simplegadi, dette anche «rupi cianee», «scogli azzurri», che fungono evidentemente da porta di una dimensione preclusa agli uomini comuni, un luogo interdetto in cui solo l’eroe può penetrare, e in cui, comunque, penetra a rischio della vita e soltanto con l’aiuto divino.
L’immagine delle porte cozzanti che chiudono l’accesso a un mondo proibito non appartiene esclusivamente al mito greco, ma, al pari di alcuni grandi temi, quali il diluvio, il furto del fuoco o l’invenzione della morte, affiora con una straordinaria stabilità di tratti nelle tradizioni di moltissimi popoli diversi, rivelandosi con ciò parte del più antico patrimonio mitico dell’umanità.
La forma e l’aspetto di queste porte perigliose mutano incessantemente. Possono apparire come rocce che si scontrano, come fauci, come tagliole, come foglie o canne affilate, e assumere ancora altre forme strane e bizzarre, ma comunque mantengono inalterata sia la loro fondamentale funzione di porte dell’altro mondo, sia la meccanica del loro funzionamento: comunque, avvicinandosi di scatto l’una all’altra, schiacciano o tagliano in due chi tenta di superarle.
Non insisterò sui significati – oceanici davvero in tutti i sensi – del mitologema delle Simplegadi: l’hanno già fatto, come meglio non si potrebbe, Ananda Coomaraswamy in uno dei suoi saggi più profondi e vertiginosi e, prima di lui, Arthur Bernand Cook in una delle molte appendici alla sua immensa ricerca su Zeus.
Ai nostri fini basterà tener presente che spessissimo, come avviene nel mito degli Argonauti, queste «porte attive» possono essere superate appunto grazie all’intervento di un animale guida, e che sovente, al pari della colomba di Apollonio Rodio, questo animale finisce per perderci la coda. Così accade, per esempio, in un’altra splendida fiaba dei Tahur della Manciuria, Il cacciatore Ku Chu Ni.
[La sorella del cacciatore viene rapita. Postosi sulle sue tracce, Ku Chu Ni si imbatte in una vecchia dagli enormi seni, che gli insegna come procurarsi l’aiuto di un destriero fatato e, facendogli bere un po’ del suo latte, lo dota di una forza sovrumana. Seguendo le indicazioni della vecchia, il giovane riesce a far scendere dal cielo un cavallo dal manto rosso come il fuoco].
Il cacciatore Ku Chu Ni gli montò in sella e veloce come il vento galoppò verso occidente. Corse per un lungo tratto, all’improvviso si fermò e parlò così: «Padrone, Padrone mio! Davanti a noi ci sono delle forbici soprannaturali».
Il cacciatore Ku Chu Ni alzò la testa per guardare e vide sulla via un enorme paio di forbici; brillavano di luce fredda, erano come una grossa bocca che si apriva e si chiudeva con un rumore secco, “ka-za, ka-za”. […]
Il cavallo tornò indietro per dieci miglia e si voltò per ritornare, il cacciatore Ku Chu Ni gli diede tre colpi di frusta; il cavallo dal manto rosso fuoco si lanciò al galoppo veloce più del vento; quando le forbici erano aperte passò oltre in un batter di ciglia e si trovò dall’altra parte.
Si sentì solo un “ka-za” e parve che qualcosa dietro fosse stato tagliato: la coda del cavallo era stata tagliata per una lunghezza di tre palmi. Anche la lunga veste del cacciatore Ku Chu Ni era stata tagliata per un pezzo largo tre dita.
In modi più oscuri e malcerti, si potrebbero seguire le tracce di questa storia molto più addietro: ma come accade nel mito degli Argonauti, le testimonianze più antiche sono spesso mal conservate, e richiederebbero un attento lavoro di restauro.
Così nei Satapatha Brâhmana (3: 6. 2, 8-9) si celebra l’aquila Gâyatrî, che tenta di portare giù dal cielo Soma, l’ambrosia sacrificale, che era stato posto al sicuro «fra due foglie d’oro, taglienti come due rasoi, che a ogni batter d’occhio di scatto si chiudono».
I Satapatha Brâhmana ci dicono che l’aquila divina riuscì nell’impresa, passando indenne, ma il Rig Veda ci fa sapere che in quell’occasione «volò frammezzo (il cielo e la terra) una penna alata di essa, dell’uccello».
Con ogni probabilità, come la colomba degli Argonauti e il cavallo di Ku Chu Ni neppure il divino rapace di Agni era stato in grado di passare senza pagare un qualche tributo alle terribili porte dell’altro mondo. Si tratta d’altronde di una regola ferrea, che non sembra conoscere eccezioni: le porte oltremondane esigono sempre, per così dire, il «sacrificio dell’ultima parte».
Lo si vede ancora in una bellissima testimonianza medievale, un racconto di eccezionale densità mitica, la Mule sans frein, composto agli inizi del ‘200 da un misterioso autore che si firma Païen de Maisières, in cui le Simplegadi, adattate secondo la moda del tempo, e trasformate in magico castello rotante, vengono superate con l’aiuto di un animale guida, che tuttavia, come tutti i suoi compagni, non riesce ad attraversarle del tutto indenne.
Un giorno di Pentecoste, alla corte di Artù si presenta una bellissima damigella a cavallo di una mula; costei chiede al re che egli invii uno dei suoi cavalieri a riprenderle una briglia che sua sorella le ha sottratto: in cambio promette addirittura se stessa. Il castello può essere raggiunto solo grazie alla mula della damigella, che conosce la strada ed è in grado di superarne i molti pericoli, a patto che chi la cavalca non tenti di guidarla e la lasci andare dove vuole. L’impresa viene dapprima tentata da Keu, che viene condotto innanzitutto attraverso una foresta piena di fiere di ogni tipo, le quali però «conoscendo / la dama e volendo onorare / la mula che vedono / piegano a terra le ginocchia: / così, in onore della dama, si inginocchiano». Quindi bisogna superare una valle perigliosa, piena di serpenti e di scorpioni: «… nel mondo non c’è uomo tanto forte / da non temere la morte / nel passare di là».
Alla valle succede un fiume largo e rapinoso, attraversato solo da una strettissima trave di ferro. Al solo vederlo Keu si perde d’animo e torna indietro. Il suo posto è preso da Galvano, che supera indenne non solo la foresta e la valle perigliosa, ma anche il «fiume del diavolo»: «È passato oltre con pena / ma una cosa è certa: / se la mula non avesse saputo / la strada sarebbe caduto giù».
Oltre il fiume, ecco il castello, splendido e possente, ma circondato da una palizzata terrificante: su ogni palo, ad esclusione dell’ultimo, è infatti confitta la testa di un cavaliere.
Non è l’unica particolarità del castello. Esso infatti «girava così forte / come una mola mentre macina / o come una trottola / di quelle che si fan muovere con la corda»: è quindi quasi impossibile riuscire a passare dal ponte levatoio alla porta.
Determinato a entrare a ogni costo al castello, Galvano sprona la mula, che con un gran salto riesce a centrare l’apertura ma, esattamente come accade alla colomba che conduce la nave degli Argonauti o al cavallo di Ku Chu Ni, nel passare attraverso le «Simplegadi», ci rimette l’estremità della coda.
Il motivo delle Simplegadi ricorre anche in altri romanzi medievali, ma non ha mai la stupefacente densità che assume nella Mule, e proprio grazie a questa densità siamo ancora in grado di comprenderlo nel suo significato più pieno.
Sebbene il contesto sia relativamente razionalizzato rispetto a quello del mito classico o della fiaba tahur, e un castello prenda il posto della favolosa Colchide o dell’occidente non meno favoloso verso cui si dirige il cacciatore Ku Chu Ni, è chiaro che il racconto medievale conserva una schietta ambientazione oltremondana: non per nulla il castello è un castello girevole, e quindi una dimora uranica, un castello cosmico (non occorre, credo, insistere sul fatto che ciò che gira regolarmente, nei racconti di taglio mitico, è sempre essenzialmente connesso con la volta rotante dei cieli); è circondato dalle solite barriere terrifiche e la palizzata di teste, ed è preceduto da un pons subtilis, quel «ponte delle anime» che, dagli antichi miti persiani ai Dialoghi di Gregorio Magno e al Lancelot di Chrétien de Troyes, è rimasto una delle più riconoscibili costanti del viaggio oltremondano.
(Donà, Per le vie dell’altro mondo)