Marco di Dio e sua moglie Diamante ebbero la ventura d’essere (se ben ricordo) le prime mie vittime. Voglio dire, le prime designate all’esperimento della distruzione d’un Moscarda.
Ma con qual diritto ne parlo? con qual diritto do qui aspetto e voce ad altri fuori di me? Che ne so io? Come posso parlarne? Li vedo da fuori, e naturalmente quali sono per me cioè in una forma nella quale certo essi non si riconoscerebbero. E non faccio dunque agli altri lo stesso torto di cui tanto mi lamento io?
Sì, certo; ma con la piccola differenza delle fissazioni, di cui ho già parlato in principio; di quel certo modo in cui ciascuno si vuole, costruendosi così o così, secondo come si vede e sinceramente crede di essere, non solo per sé, ma anche per gli altri. Presunzione, comunque, di cui bisogna pagar la pena.
Ma voi, lo so, non vi volete ancora arrendere ed esclamate:
E i fatti? Oh, perdio, e non ci sono i dati di fatto?
– Sì, che ci sono.
Nascere è un fatto. Nascere in un tempo anziché in un altro, ve l’ho già detto; e da questo o da quel padre, e in questa o quella condizione; nascere maschio o femmina; in Lapponia o nel centro dell’Africa; e bello o brutto; con la gobba o senza gobba: fatti. E anche se perdete un occhio, è un fatto e potete anche perderli tutti e due, e se siete pittore è il peggior fatto che vi possa capitare.
Tempo, spazio: necessità. Sorte, fortuna, casi: trappole tutte della vita. Volete essere? C’è questo. In astratto non si è. Bisogna che s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, così o così. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter più essere altrimenti. Quello sbiobbo là, pare una burla, uno scherzo compatibile sì e no per un minuto solo e poi basta; poi dritto, su, svelto, agile, alto…. ma che! sempre così, per tutta la vita che è una sola; e bisogna che si rassegni a passarla tutta tutta così.
E come le forme, gli atti.
Quando un atto è compiuto, è quello; non si cangia più. Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che poi si senta e si ritrovi negli atti compiuti, ciò che ha fatto, resta: come una prigione per lui. Se avete preso moglie, o anche materialmente, se avete rubato e siete stato scoperto; se avete ucciso, come spire e tentacoli vi avviluppano le conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra, attorno, come un’aria densa, irrespirabile, la responsabilità che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non previste, vi siete assunta. E come potete più liberarvi?
Già. Ma che intendete dire con questo? Che gli atti come le forme determinano la realtà mia o la vostra? E come? perché? Che siano una prigione, nessuno può negare. Ma se volete affermar questo soltanto, state in guardia che non affermate nulla contro di me, perché io dico appunto e sostengo anzi questo, che sono una prigione e la più ingiusta che si possa immaginare.
Mi pareva, santo Dio, d’avervelo dimostrato! Conosco Tizio. Secondo la conoscenza che ne ho, gli do una realtà: per me. Ma Tizio lo conoscete anche voi, e certo quello che conoscete voi non è quello stesso che conosco io perché ciascuno di noi lo conosce a suo modo e gli dà a suo modo una realtà. Ora anche per se stesso Tizio ha tante realtà per quanti di noi conosce, perché in un modo si conosce con me e in un altro con voi e con un terzo, con un quarto e via dicendo. Il che vuol dire che Tizio è realmente uno con me, uno con voi, un altro con un terzo, un altro con un quarto e via dicendo, pur avendo l’illusione anche lui, anzi lui specialmente, d’esser uno per tutti.
Il guaio è questo; o lo scherzo, se vi piace meglio chiamarlo così. Compiamo un atto. Crediamo in buona fede d’esser tutti in quell’atto. Ci accorgiamo purtroppo che non è così, e che l’atto è invece sempre e solamente dell’uno dei tanti che siamo o che possiamo essere, quando, per un caso sciaguratissimo, all’improvviso vi restiamo come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi a esso, alla gogna, per un’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell’atto solo.
– Ma io sono anche questo, e quest’altro, e poi quest’altro! – ci mettiamo a gridare.
Tanti, eh già; tanti ch’erano fuori dell’atto di quell’uno, e che non avevano nulla o ben poco da vedere con esso. Non solo; ma quell’uno stesso, cioè quella realtà che in un momento ci siamo data e che in quel momento ha compiuto l’atto, spesso poco dopo è sparito del tutto; tanto vero che il ricordo dell’atto resta in noi, se pure resta, come un sogno angoscioso, inesplicabile. Un altro, dieci altri, tutti quegli altri che noi siamo o possiamo essere, sorgono a uno a uno in noi a domandarci come abbiamo potuto far questo; e non ce lo sappiamo più spiegare.
Realtà passate.
Se i fatti non son tanto gravi, queste realtà passate le chiamiamo inganni. Sì, va bene; perché veramente ogni realtà è un inganno. Proprio quell’inganno per cui ora dico a voi che n’avete un altro davanti.
– Voi sbagliate!
Siamo molto superficiali, io e voi. Non andiamo ben addentro allo scherzo, che è più profondo e radicale, cari miei. E consiste in questo: che l’essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze ch’esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l’essere in quella forma e in quell’atto ci appare.
E ci deve sembrare per forza che gli altri hanno sbagliato; che una data forma, un dato atto non è questo e non è così. Ma inevitabilmente, poco dopo, se ci spostiamo d’un punto, ci accorgiamo che abbiamo sbagliato anche noi, e che non è questo e non è così; sicché alla fine siamo costretti a riconoscere che non sarà mai né questo né così in nessun modo stabile e sicuro; ma ora in un modo ora in un altro, che tutti a un certo punto ci parranno sbagliati, o tutti veri, che è lo stesso; perché una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile.
La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprire l’illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita.
(Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 3: 7)