Deleuze – Il lampo e il cielo buio

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L’indifferenza ha due aspetti: l’abisso indifferenziato, il nero niente, l’animale indeterminato in cui tutto è dissolto; e insieme il bianco niente, la superficie ridivenuta calma in cui fluttuano determinazioni slegate, come membra sparse, teste decollate, braccia prive di spalla, occhi senza fronte. L’indeterminato è del tutto indifferente, ma le determinazioni fluttuanti non lo sono meno le une rispetto alle altre.

Bisogna dunque chiedersi se la differenza funge da intermediaria tra codesti due estremi. Oppure se non sia essa invece, la differenza, il solo estremo, il solo momento della presenza della precisione.
La differenza è lo stato in cui si può parlare della determinazione.
La differenza «tra» due cose è soltanto empirica, mentre estrinseche sono le determinazioni corrispondenti.

Sennonché in luogo di una cosa che si distingue da un’altra, immaginiamo qualcosa che si distingue, e tuttavia tale che ciò da cui si distingue non si distingua da essa. Il lampo per esempio si distingue dal cielo nero, ma deve portarlo con sé, come se si distinguesse da ciò che non si distingue. Si direbbe che il fondo sale alla superficie, senza cessare di essere fondo.
C’è qualcosa di crudele, e anche di mostruoso, da una parte e dall’altra, in questa lotta Redon-apparizionecontro un avversario inafferrabile, in cui il distinto si oppone a qualcosa che non può da esso distinguersi, e che continua a coniugarsi con ciò che da esso si separa.

La differenza è lo stato della determinazione come distinzione unilaterale. Della differenza, si deve dunque dire che la si fa, o che essa stessa si fa, come nell’espressione «fare la differenza». [È la differenza che fa la differenza, tutta la differenza, dallo Stesso].
Questa differenza, ossia la determinazione, è dopotutto la crudeltà. I platonici dicevano che il non-Uno si distingue dall’Uno, ma non l’inverso, in quanto l’Uno non si sottrae a ciò che da esso si sottrae: e all’altro estremo, la forma si distingue dalla materia o dal fondo, ma non l’inverso, in quanto la distinzione stessa è una forma.

A dire il vero, tutte le forme si dissolvono quando si riflettono nel fondo che risale. Esso cessa di essere il puro indeterminato che resta sul fondo, ma le forme cessano di essere determinazioni coesistenti o complementari. Il fondo che risale non è più in fondo, ma acquista un’esistenza autonoma; la forma che si riflette sul fondo non è più una forma, ma una linea astratta che agisce direttamente sull’anima.
Quando il fondo sale alla superficie, il volto umano si scompone in questo specchio in cui l’indeterminato e con esso le determinazioni vengono a confondersi in una sola determinazione che «fa» la differenza.

Per produrre un mostro, è una formula insufficiente quella che si limita ad accumulare determinazioni eteroclite o a iper-determinare l’animale. Molto meglio far emergere il fondo dissolvendo la forma.
Goya procedeva con l’acquatinta e l’acquaforte, col tono opaco dell’una e col rigore dell’altra, e Odilon Redon ricorreva invece al chiaroscuro e alla linea astratta. Rinunciando al modellato, vale a dire al simbolo plastico della forma, la linea astratta acquista tutta la sua forza, e partecipa del fondo con tanta maggiore violenza quanto più se ne distingue senza che tale fondo si distingua da essa. I volti non possono essere deformati in uno specchio siffatto.

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E non è detto che sia soltanto il sonno della Ragione a generare mostri: esiste anche la veglia, l’insonnia del pensiero. Il pensiero è quel momento in cui la determinazione si fa una, a forza di sostenere un rapporto unilaterale e preciso con l’indeterminato.
Il pensiero «fa» la differenza, ma la differenza è il mostro. Non ci si deve stupire che la differenza appaia maledetta, colpa o peccato, figura del Male promessa all’espiazione. Non si dà altro peccato che quello di far salire il fondo e dissolvere la forma. Chi ricordi l’idea di Artaud, sa che la crudeltà è soltanto la determinazione, quel punto preciso in cui il determinato mantiene il suo rapporto essenziale con l’indeterminato, quella linea rigorosa astratta che trova alimento nel chiaroscuro.

(Deleuze, Differenza e ripetizione)

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… l’indifferenza, alla lettera: la non differenza, l’assenza di differenza: ma cos’è se non il concetto stesso di Stesso?
Di due figure diciamo che sono le stesse, perché non presentano differenze. Le riconosciamo come identiche, perché rispondono al nostro concetto di Stesso.

Ora però, mentre lo Stesso è indifferente, non si può dire lo stesso del suo concetto. Il concetto di Stesso differisce da quello di differente, è Altro da quello di altro. Il che comporta che ogni differenza che cogliamo tra lo Stesso e il Differente, tra il Medesimo e Goya-sabbal’Altro, non è che una rappresentazione concettuale, e che, a dispetto delle nostre presunzioni, lo Stesso rimane lo stesso indifferente a ogni differenza concettuale in cui l’inscriviamo.

Lo Stesso, ossia l’Indeterminato, è dunque indifferente (assoluto). Ma, dice Deleuze, ci sono determinazioni fluttuanti, concetti vaganti, nomi equivoci, termini ambigui (omonimi e sinonimi), nonché ritagli fonetici e geroglifici che sono tra loro altrettanto indifferenti (relativi): non si vede più, per es., dov’è la differenza tra urlo e grido. Rinviano entrambi allo stesso concetto, e tuttavia continuano a fluttuare nel nostro «dire», potendosi indifferentemente usare l’uno al pari dell’altro.

Lo stesso, l’identico è estraneo a ogni differenza, non conosce distinzioni – non si lascia distinguere, definire o determinare, se non a partire dal differente: è il Differente che fa la differenza tra sé e lo Stesso.
Lo fa, come dice Deleuze, in modo unilaterale. Lo Stesso continua a sfuggire a ogni differenza – salvo che a questa: è differente da tutto ciò che è differente. Lo Stesso è, perciò, solo il prodotto concettuale di una ripetizione della differenza: non di una ripetizione concettuale di una certa quel differenza, ma di una ripetizione senza concetto che la differenza fa di se stessa su se stessa, pensando se stessa, fino a conquistarsi il suo proprio concetto.

Il non-Uno, il differente dall’Uno, si distingue da esso, e di questa distinzione può farsi pure un concetto. È l’Uno invece che non si distingue, non si divide, non si razionalizza, non si concettualizza mai.
Il discreto è differente dal Continuo: una definizione del Continuo non è possibile se non tradendo e snaturando la sua indifferenza, la sua irriducibile riluttanza a una qualunque differenza. Il concetto di continuo è un discreto e, come tale, non è il continuo che dice di essere. Il continuo rimane indiscernibile.

E tuttavia rimane anche che, come il lampo dal cielo buio e tempestoso, così ogni discreto «balena» nella Notte dell’Indeterminato, e così da sé fa la differenza nel Buio indifferente – ma non subito la differenza concettuale. Fa semmai uno strappo, apre uno squarcio Redon-sacro-cuorenon concettuale, pone la sua differenza ancora senza concetto, e senza concetto la ripete chissà quante volte prima di approdare a un qualunque «significato» di sé … e dell’Altro.
Perciò Deleuze parla di una doppia differenza. Di una differenza ripetuta chissà quante volte, e ogni volta concettualmente vuota, prima di sbarcare nel Reame dei Concetti.

È su questa «assenza di concetto» della ripetizione che Deleuze insiste. Su questa ripetizione immediata – senza nessuna mediazione di segni parole numeri o concetti, e perciò più arcaica della coscienza e della memoria. Su questa ripetizione che da sé spinge la differenza che ripete a rimettere il suo destino alla «crudeltà» del concetto. Di rimettere alla Parola il destino della sua oscura ripetizione analfabeta.

È questa la «crudeltà» che, a detta di Deleuze, Artaud tentò di mettere in scena. È questo il «chiaroscuro» che Goya si accanì a dipingere. Questo punto di sutura tra le due ripetizioni (l’una intrinseca al movimento che l’alimenta nel suo fondo oscuro, e l’altra estrinseca al pensiero che la formalizza in simboli e concetti consci, ovvero in altrettanti lampi di genio), quest’incrocio dell’una nell’altra, è il solo «posto» in cui parole e concetti, linee e forme, non solo non si nascondono più all’abisso della loro matrice indifferente, ma ne rivivono lo strazio del distacco, pur di attingere un altro sorso alla loro fonte.