Heidegger – La via verso noi stessi

Il semplice, nella sua semplicità, non ci dice quasi più nulla, dacché il consueto modo scientifico di pensare ha rovinato la capacità di stupirsi dinanzi a ciò che si presume ovvio, e proprio perché è ovvio [lo lascia perdere].
E tuttavia, se questo stupirsi non si fosse mai destato e se non fosse stato mantenuto presso i pensatori greci, non ci sarebbe alcuna scienza europea e alcuna tecnica Harvey-clownmoderna, intorno a cui ora, perfino nei cosiddetti mass-media, viene organizzata un’idolatria, a paragone della quale la presunta superstizione dei popoli primitivi si presenta come un gioco da bambini.

Chi perciò oggi, nell’odierno carnevale di questa idolatria (vedi il baccano per l’impresa cosmonautica), voglia preservare ancora una quale riflessività, chi addirittura si dedichi oggi alla professione di assistere l’uomo psichicamente malato, questi deve sapere che cosa sta succedendo; deve sapere dove egli sia storicamente; deve giorno per giorno rendersi chiaro che qui è ovunque all’opera un destino, che viene da lungi, dell’uomo europeo; egli deve pensare storicamente e desistere dalla incondizionata assolutizzazione del progresso, nel cui risucchio l’esser uomo dell’uomo occidentale minaccia di tramontare.
La potenza della civilizzazione mondiale è diventata già tanto irresistibile, che le cornacchie della decomposizione dell’esserci umano usano il termine «uomo occidentale» solo ancora in senso sarcastico, mentre i festival del cinema vengono decantati quali prestazioni di punta della cultura. […]

L’«essere qui» in quanto uomo esistente è sempre, insieme e in sé, già un essere lì assieme a Loro: per es., presso la candela che arde lì sul tavolo, laddove ha parte anche l’«esser corpo» in quanto vedere con gli occhi.
Se Loro fossero un puro spirito senza corpo, non potrebbero vedere la candela in quanto lume rilucente di luce giallognola. L’«esser corpo» ha parte anche nel percepire il contenuto di significato di una lampada, anche se me la presentifico soltanto [me la rendo presente mentalmente] senza vederla in carne e ossa davanti a me, in quanto alla lampada in quanto lampada appartiene il suo rilucere.

Con quale metodo si è a Loro dischiusa, nella misura in cui ciò in generale sia casomai già accaduto, la funzione dell’«esser corpo» in questo esempio?
Per quale via si sono avveduti del fenomeno trattato dell’«esser qui» in quanto essere presso?
Si sono accorti che in questa maniera Loro erano già sempre presso ciò che si fa incontro [e potevano incontrare (nella conoscenza) solo ciò a cui erano già presenti]. Loro hanno dovuto liberarsi delle abituali rappresentazioni di un mero essere rappresentate delle cose all’interno della Loro testa, e hanno dovuto introdursi nel modo dell’esistere [umano], in cui Loro [in quanto uomini] già sono.

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Si trattava, col nostro esempio della candela, solo di eseguire espressamente questo introdursi nel modo d’essere in cui Loro già sempre sono.
Tuttavia, questo eseguire espressamente, questo introdursi non sono affatto sinonimi di un comprendere questo modo d’essere, fintantoché Loro per «comprendere» intendono un «pensare qualcosa», poterlo capire, un mero comprendere qualcosa in quanto qualcosa.
Si può perfino comprendere l’«essere presso»… in modo tale che ci si rifletta sopra, senza con ciò che ci si sia affatto introdotti ancora espressamente in esso, né lo si sia esperito in quanto rapportarsi fondamentale dell’uomo a ciò che si fa incontro.

Ora, però, come perviene Cartesio, un uomo così acuto e razionale, a una teoria così singolare, per cui l’uomo esisterebbe innanzitutto soltanto per sé solo senza il rapporto con le cose?
Anche Husserl, il mio venerato maestro, condivideva ampiamente questa teoria, e tuttavia già presagiva qualcosa oltre di essa. Altrimenti, le sue Meditazioni cartesiane non sarebbero il suo libro fondamentale.

In Cartesio, l’ingenium dell’uomo costituisce la sua dote naturale, ciò di cui l’uomo è capace di per se stesso. Egli deve fare affidamento solo su ciò, solo su ciò che egli può Cartesiocomprovare in quanto evidente.
Qual è il motivo di questa posizione?
La posizione di Cartesio scaturisce dalla necessità dell’uomo, che ormai ha rinunciato a ricevere la definizione del suo esserci dalla fede, dall’autorità della Bibbia e dal magistero ecclesiastico, che si è piuttosto poggiato su se stesso, e che perciò cerca di riacquistare fiducia e sicurezza con qualcosa d’altro: che, dunque, ha bisogno di un altro fundamentum absolutum inconcussum.

Nella ricerca di un altro «che» di indubitabile, in soccorso di Cartesio giunge proprio al momento opportuno la completamente differente possibilità di considerare la «natura» che Galilei eseguiva coi suoi esperimenti, cioè il diventare visibile della possibilità della certezza e dell’evidenza matematiche.
In tal modo, Cartesio perviene alla certezza del cogito sum: io in quanto pensante sono.
Questa proposizione non è da intendere come una deduzione: non, dunque, cogito ergo sum, bensì come una «intuizione» immediata; intuizione, tuttavia, intesa non nel senso dell’usuale significato di questo termine nella psicologia, bensì nel senso di Cartesio stesso.

Cartesio, infatti, guadagna la sua posizione, quella di voler apprestare qualcosa di assolutamente sicuro e certo [su cui fondare il suo nuovo metodo], non dunque a partire da un fondamentale rapportarsi immediato a ciò che è, né a partire dalla questione dell’essere.
Al contrario, che qualcosa sia e possa legittimamente essere, viene viceversa determinato secondo il criterio dell’evidenza matematica. [Cartesio viene dalla matematica a «definire» l’essere, e non viceversa].

A illustrazione, si faccia ancora una volta riferimento alla Seconda Meditazione di Cartesio: «De natura mentis humanae: quod ipsa sit notior quam corpus» [Della natura della mente umana: che essa sia più conosciuta del corpo]. Nell’esempio, qui addotto, della candela di cera, tutte le qualità di questa non sono ciò che permane assolutamente e che perciò è indubitabile, bensì indubitabilmente permanente è solo l’esser estesa della candela [solo la sua res extensa, la sua estensione]. (Più tardi, Leibniz dimostrò come da surreal-candela-naveCartesio la forza non venisse ancora considerata quale denominazione necessaria di un processo naturale).

Questa posizione di Cartesio sta nella più netta contrapposizione con la concezione greca. Il corrispondente tratto fondamentale del metodo greco è il preservare e «salvare» i fenomeni, lasciati inviolati, illesi, che si mostrano, il puro lasciar essere della presenza di ciò che si mostra.
Cartesio è sicuramente determinato anche dalle meditazioni di Agostino e del suo rientrare in se stessi, tuttavia l’intuizione dell’auto-riflessione è in entrambi differente.

Ora, però, tutte le nostre trattazioni non devono affatto essere percepite come ostili alla scienza. La scienza in quanto tale non viene in alcun modo rifiutata. Viene soltanto respinta, in quanto presunzione, la sua pretesa assolutistica di essere il criterio di ogni proposizione vera.
Di contro a questa inammissibile pretesa, come caratterizzazione del nostro metodo, completamente diverso, mi sembra necessario il nome che gli do: «introdursi espressamente nel nostro rapportarci a ciò che si fa incontro», in cui noi già sempre soggiorniamo.

In un certo senso, alla fenomenologia appartiene l’atto di volontà di non opporre resistenza a questo «introdursi».
L’«introdursi» non significa neanche alla lontana un mero rendersi conscio il «mio» modo d’essere. Di un render conscio posso parlare solo se voglio tentare di determinare come questo nostro originario essere presso … sia connesso con altre determinazioni dell’esserci.
L’«introdursi» è una via del tutto diversa, un metodo del tutto diverso dal metodo scientifico, qualora noi sappiamo far uso della parola «metodo» nel suo senso originario autentico: μετά οδός, la via verso …
In ciò Loro, dal concetto di metodo, devono tenere lontano il significato, ad esso solitamente dato, di mera tecnica di indagine.

Dobbiamo percorrere, dunque, la via verso noi stessi. Questa, però, non è più la via verso un io isolato, dato innanzitutto da solo.

(Heidegger, Seminari di Zollikon)

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Adolf Wölfli - spartito

Insomma, Heidegger ci consiglia di scrivere – anzi di riscrivere – nient’altro che una «introduzione» a noi stessi.
Dice (non è il primo e non sarà neanche l’ultimo): questa è la via, e chi mi vuol bene appresso mi viene. Dice: qui nessuno è solo, neanche il più solo dei solitari è isolato, astratto dal rapporto con un «mondo». Questa è la via, e chi comprende i segnali che manda il Viandante Impersonale, non avrà difficoltà a riconoscervi le tracce della sua venuta all’«io» – purché si lasci «introdurre» nella Fucina del Fabbro del Re Eccelso.
Il Re? Sì: proprio Lui, il Soggetto (inconscio) della nostra Coscienza, l’Es parlante dalla bocca di tutti i grilli, il Soggetto il cui linguaggio si ripete di lingua in lingua, producendo parole, senza però mai divenire esso pure Parola.

Sta qui la svolta, il salto, l’addio all’«io» cartesiano che pareva, ahinoi!, così rassicurante, capace nientemeno di prendere impunemente il posto lasciato vacante da dio, e poi invece … eccolo, a sgretolarsi nelle mani di Heidegger, nonché – come intende dimostrare Lacan – di Freud.
Cogitare è essere. Nessuno lo discute.
Ciò che è messo in discussione è che il Soggetto di questo cogitare sia identificato in un «io isolato», in un «io» pensato al di fuori del mondo, senza mondo, in un «io» costretto Latour-bimbo-candelasolo in un secondo tempo a «incontrare» e fare i conti col mondo, con l’Altro: insomma un «io» assoluto, separato, puro spirito.

La via a noi stessi non è quella del ritorno all’«io» originario di ciascuno di noi, ma la via della riscoperta del Lui che è Noi – del Lui che è il nostro Sé – la nostra Legge (di specie), Sua Maestà il Re del Reame Eccelso.
Specialmente la nostra via, Heidegger qui lo dice, è la via dello stupore, la via dove ogni incontro desta nuovo stupore, la via dove lo sguardo rinnova lo stupore perfino di fronte all’«ovvio», di fronte a ciò che per noialtri «scienziati» del Nuovo Millennio è ovvio, banale e scontato. A ciò che nemmeno degniamo più di «realtà». Al nostro «esser corpo», per esempio – non corpo morto, non corpo inanimato, non oggetto come tutti gli altri – ma corpo vivente, corpo pensante, corpo parlante … fin dal principio la Sua lingua. La Lingua del Sé.

Gli occhi sono «corpo», l’«esser corpo» degli occhi non è solo un vedere, ma un immaginare: l’«esser corpo» degli occhi è essere non solo occhi, ma insieme anche la Testa al cui servizio gli occhi percepiscono.
Gli occhi stupiti, gli occhi dell’«esser corpo stupito», non si limitano soltanto a catturare figure e colori, fotogrammi e sequenze: no, nel vedere essi già interpretano – in quanto non percepiscono semplicemente una candela, ma insieme anche si stupiscono del «significato» della candela: intuiscono nella candela il suo «esser segno di» Altro. Il suo «ardere», per es., come il proprio della candela. O meglio: come il «segreto del Giaguaro» che sa accenderla e spegnerla a suo piacimento.

Per apprenderlo, questo segreto «intuito» nell’Altro, non c’è per gli occhi che una via: uscire dalla propria certezza di essere un «io» (prima di cadere in un mondo). Uscire da se stessi per rientrare nel Sé – uscire dall’«io» che, per es., ancora Kierkegaard confonde col «se stesso»: per rientrare nella conoscenza da cui uscimmo a parlare simboli e parole forgiati nella Fucina del Re.

Uscire, come indica Nietzsche, dall’«umano» che s’è incrostato nella corteccia del nostro essere, per ritrovarne le «radici»: disumanizzarsi, distaccarsi da tutto ciò che abbiamo surreal-bambino-lampadinaappreso mediante il linguaggio simbolico, e provare a immaginare d’essere ancora di là dalla soglia, di doverla ancora passare – e in che modo, dietro chissà quale spinta, urgenza o emergenza.
Heidegger suggerisce di rieseguire espressamente l’introduzione al mondo dell’Uomo: di uscirne, per ripercorrere la via del suo «esser corpo stupito» di trovarsi qui dove già è, ed è talmente ovvio questo suo «essere corpo presente qui» che neanche ci fa più caso al Solito di cui è caduto in ostaggio.

Là dove invece l’occhio del bambino vede la candela e si stupisce – vede la candela e si sente interrogato dalla domanda di luce che dalla candela si fa incontro ai suoi occhi – quell’occhio là è da subito «uno sguardo gettato su un mondo», da subito preso in un rapporto col mondo. Se pure si sente solo, non è solo al mondo – non è un essere isolato, è sempre in relazione con … un «ardore» che s’accende e si spegne.
È quando quest’«ardore» s’infiamma che si è introdotti nella via: ci si sorprende a esser già (chissà da dove e da quando) in cammino.