La triplice connessione

Lévi-Strauss ha colto questa connessione: la testa mozzata rotola finché testardamente persegue il possibile immaginario ai due estremi: a) voglio fare all’amore con chiunque mi capiti a tiro, fosse pure mia sorella, mia madre (incesto) o una bestia qualunque (dissolutezza); b) non lo voglio fare con nessuno (castità), mi rifiuto a ogni forma di foto-uomo-pensosocongiunzione (digiuno e astinenza), prossima o remota che sia, ed è per questo che adesso mi ritrovo questo carattere scontroso.

Questa è quella che Freud, alle prese con tutt’altro materiale (sempreché si possa dire «altro» il materiale dei sogni da quello dei racconti), chiama la «via senza uscita» dal narcisismo. Non se ne esce infatti se non avventurandosi di là dall’immaginario, se non arrampicandosi lungo il filo del Discorso (dell’Altro) – come a dire: se non adattandosi a un ruolo, se non incorniciando la propria immaginazione nei commi simbolici di una Parola data, se non adornandosi di una maschera che abbia almeno qualche probabilità di essere riconoscibile allo sguardo dell’Altro, oltre che confacente alla propria singolarità.

Stavo dicendo proprio questo – stavo dicendo, stancamente lo confesso, stavo ripetendo la litania: che non c’è scappatoia dal labirinto del narcisismo se non svolgendo, magari da qui fino alla luna, il filo di Arianna delle «mediazioni» simboliche – stavo dicendo una di queste fesserie quando, ricordo, mi hai detto che, seguendo le tracce di un cervo rosso, ti eri inoltrata in un bosco da cui non sapevi più da che parte venir via. «Sì, è probabile, anzi ne sono certa – dicesti. – Sono ancora là, di fronte all’immagine che dallo specchio continua a stregarmi. E tuttora ignoro, e non lo voglio sapere, se quel bosco lo stavo sognando o era là perché io realmente mi ci perdessi».

Che combinazione! a pensarci bene, io ti stavo dicendo proprio questo – che il Minotauro, «facci caso: siamo dall’altra parte del mondo, siamo lontanissimi dal Sudamerica», eppure ti stavo dicendo che, a dispetto della distanza, è pure lui figlio di un’unione «bestiale». Sarà, mi dicevo, un vizio universale. Sarà che in principio la libido non conosce limiti, come diceva la buonanima di Anassimandro, né di spazio né di tempo. Il linguaggio immaginale non ha principio né fine in nessun dove. Perciò lo parlano solo gli Immortali. Perciò, l’Animale Seduttore era, per i Greci, nientemeno il padreterno.

cervo-ferito

Ed eccolo, lo senti pure tu, il fanfarone?
Chi è che s’avventura in questo bosco? Una giovenca, un cigno, una farfalla, una rana o cos’altro? Non datevi pensiero – dice Zeus. – Ci penso a tutte io. Voi uomini, curatevi solo delle femmine con cui potete scambiarvi i vostri ornamenti, i segni di riconoscimento della vostra avvenuta riduzione a esseri «umani».
È triste, ma è così: non facciamoci illusioni, la nudità è un lusso che si possono permettere solo gli dèi. Essi sì, possono esibirsi (in tutta la loro pazzia) facendo a meno di «ornamenti». Noi uomini, no, non siamo dèi, noi siamo poco più che animali, siamo scimmie «vestite». Scimmie che indossano i segni delle proprie immaginazioni – che le proprie immaginazioni, a differenza degli dèi, sono obbligate a tradurle, attraverso la mediazione dei Simboli, in quella che i Simboli stessi dichiarano essere la Realtà!

Non ti stavo aiutando. No, addirittura non stavo capendo niente di quel che mi raccontavi: il cervo rosso che però, ci tenesti poi a precisarmi, aveva una macchia nera sui fianchi, e il serpente che ti ripeteva all’orecchio: «su, lasciati toccare!», e le farfalle che divagavano nel cortile sotto casa, e tutto il resto che all’improvviso diventava un bosco nero, un groviglio di fili che non so quale ragno minacciava di volerti cucire addosso.
Non stavo capendo niente né del tuo sogno, se sogno era e non un racconto a occhi aperti, e niente stavo capendo di quel che pure, come uno scolaretto, a memoria ti Olbinski-donna-viaripetevo: «lasciati baciare», sarebbe stata la traduzione più diretta di quanto appreso, e invece stavo lì a sgrovigliare la matassa di una triplice connessione nei miti del Sudamerica. Stavo lì a travestirmi di parole come fanno gli uomini – per non impazzire di desiderio, di un desiderio come il mio quando desidero vederti.

Scusa, cosa ci vuole a impazzire? La mia immaginazione, un giorno, ti trovò reale – ma di una Realtà proibita ai segni e alle parole, interdetta alle lingue delle scimmie, per quanti ornamenti esse abbiano prodotto, e per quante sartorie intellettuali per cui questi ornamenti si siano trovati a passare e ripassare nei secoli dei secoli, amen.
La mia immaginazione, un giorno, immaginò dentro i tuoi occhi, come in una sorta di visione simmetrica inversa alla tua, il ritorno del suo Reale rimosso, il Ritorno di una sua anticaglia. Quello che immaginò, l’immaginò che tornava dai tuoi occhi per le stesse ragioni per cui da altri occhi era andato via: così, per niente.

Ecco perché, ora, la mia testa rotola: la vedo, la sento che ha voglia di fare all’amore con tutto ciò che è vivo e presente, fosse anche col mio nemico più spietato. O con la stella da me più lontana – nell’esistenza.
E la vedo, e soprattutto la sento: di nuovo, come al solito, è stanca. Stanca di sapere che non giungerà mai a eguagliare la pazzia di Zeus. Perciò, la vedo, la sento – che ripiega su se stessa, mentre la Realtà, quella che la mia testa immaginò quando era immaginazione di scimmia non ancora travestita dietro nessun segno umano, la Realtà del mio desiderio senza via d’uscita, la Realtà che per un attimo ho rivisto balenare nei tuoi occhi, quella Realtà non si stancherà mai di sedurla, la mia testa.
Su, lascia perdere il mondo – le dice. – La tua Angelica è volata via. Su, vieni appresso a me. Ti porterò sulla luna.

Sono un povero paladino, e ho fatto non so quante crociate … così, per niente.
Come posso perciò spaventarmi dinanzi ai rebus di un Lévi-Strauss o di un Freud, se Harter-albero-poetadinanzi ai tuoi occhi – mentre tu mi elencavi, una per una, le farfalle e i loro giochi di colori nel cortile sotto la casa della tua infanzia – io lo stesso imperterrito ripetevo la giaculatoria: la testa che rotola, la testa impazzita di desiderio, e il Dottore Astolfo che sa come andare sulla luna a riprenderla dai fumi della sua ampolla?

Volevo baciarti, ma volevo che quel bacio fosse così come lo desideravo: per niente. Che fosse … senza essere mai dato. E perciò, anche: che i tuoi sogni mi rimanessero inspiegati, che fossero per me solo una scusa per distrarmi da Angelica. Che non avessero bisogno di esistere per porre fine all’inseguimento del cervo rosso. Che fossero, com’erano sempre stati, immortali. Avvolti nel mantello della Realtà – e perciò realmente negati a qualunque segno o parola. A qualunque limite.
Capisci? un desiderio come questo può trovare rifugio solo sulla luna. O, per tornare in Sudamerica, un desiderio come questo, e solo un desiderio così folle, può aver messo al mondo la luna.

Non c’era bisogno del sangue della Cerva mese per mese, non c’era bisogno di alternare vita e morte, per esaudirlo.
Bisognava, dicono in Sudamerica, solo aspettare la Stagione della pesca. Saperla aspettare è la prova del grande olocausto per i nostri desideri. Se essi sanno aspettare la loro Ora, così come gli eremiti nel bosco aspettano che dalla città li mandino a consultare – l’Ora suonerà.
Saperla aspettare è tener conto del tempo: e questa è la cosa più difficile per un desiderio immortale. Se si piega alla scienza, ai simboli e alle parole di una qualunque sapienza, il desiderio si guasta, ma non per questo abdica realmente alla sua Realtà.