Coomaraswamy – L’ornamento

Secondo la filosofia tradizionale, l’opera d’arte è un memento: il richiamo della sua bellezza segnala una tesi, qualcosa cioè che deve essere compreso, e non solamente goduto.
Se oggi, in un mondo che si va sempre più svuotando di significato, ci è già difficile accettare una simile affermazione, ci è ancor più difficile credere che l’ornamento e la Bradovich-ornamento«decorazione» siano, propriamente parlando, fattori integranti della bellezza dell’opera d’arte: non parti in-significanti di essa, bensì elementi necessari alla sua efficacia. […]

Se prendiamo in esame alcune parole anticamente adoperate per esprimere l’idea di ornamentazione o di decorazione, si troverà che nell’uso moderno esse indicano perlopiù un valore estetico aggiunto a cose di cui la suddetta «decorazione» non costituisce una parte essenziale o necessaria.
Si troverà che quasi tutte queste parole, che a noi suggeriscono l’idea di qualcosa di avventizio e di lussuoso, aggiunto all’oggetto utile e tuttavia non essenziale alla sua efficacia, in origine implicavano il completamento o compimento dell’artefatto o altro oggetto in questione; che «decorare» un oggetto o una persona in origine significava dotare l’oggetto o la persona dei suoi «accidenti necessari», in modo che potesse adempiere convenientemente la sua funzione; e che il significato estetico di queste parole è subordinato alla loro connotazione pratica.

Tutto ciò che in origine era necessario alla completezza di qualcosa, e quindi ad esso appropriato, era per sua natura fonte di piacere per colui che l’adoperava. In seguito però, ciò che in origine era essenziale alla natura dell’oggetto venne a esser considerato come un «ornamento» che si poteva aggiungere o omettere a piacere: in altre parole, l’arte grazie a cui l’oggetto stesso era stato reso perfetto prese a significare solamente un’abilità affine a quella del modista o del tappezziere, vale a dire l’abilità di «ricoprire» [i difetti e le imperfezioni di] un corpo fatto non ad «arte», ma con «fatica»; e tale modo di vedere è legato alla singolare distinzione che facciamo tra belle arti o arti inutili e arti applicate o arti utili, e fra artista e artigiano, come pure al fatto d’aver sostituito i riti con le cerimonie.

Come esempi di un’analoga degenerazione del significato possiamo portare le nostre parole «artificio», che significa «trucco», ma che ha origine da artificium («cosa fatta con arte», «opera d’arte»), e «artificiale» che significa «falso», mentre originariamente artificialis stava per «relativo a ciò che è fatto ad arte».
La parola sanscrita alamkâra viene di solito tradotta con «ornamento», con riferimento sia all’uso retorico di «ornamenti» (figure di parola, assonanze, perifrasi, ecc.), sia a ornamento-holidaygioielli e a decorazioni di altro genere. La scienza indiana dell’«ornamentazione poetica» corrisponde però alla categoria medioevale della retorica, o arte oratoria, nella quale l’eloquenza non viene considerata fine a se stessa o in quanto arte per l’arte, e neppure come mezzo atto a mettere in evidenza la bravura dell’artista, bensì come arte di comunicare in modo efficace.

Esiste, certo, moltissima poesia medioevale indiana che è «sofistica» nel senso definito da sant’Agostino: «Un discorso che ricerca l’ornamentazione verbale al di là dei limiti della serietà rispetto all’argomento principale (gravitas), è chiamato “sofistico”» (De doctrina cristiana, 2: 31).
In un’epoca in cui la «poesia» era in certa misura già divenuta fine a se stessa, si cominciò a discutere se gli «ornamenti» (alamkâra) rappresentassero l’essenza della poesia; l’accordo si ebbe sul fatto che, al contrario, la poesia si distingue dalla prosa (cioè il poetico dal prosaico, non il verso dalla prosa) per la sua «sapidità» o «sapore». Il suono e il significato sono considerati uniti in un vincolo indissolubile; così anche in tutte le altre arti, di qualunque genere, in origine esisteva una connessione fondamentale e naturale tra forma e significato, senza separazione tra funzione e senso.

Se ora analizziamo la parola alamkâra, e prendiamo in esame i vari significati, diversi da quelli meramente estetici, in cui è usato il verbo alam-kr, troviamo che questa parola è composta da alam, «sufficiente» o «abbastanza», e di kr, «fare». Essa è impiegata nel senso di «adattamento, equipaggiamento, rifornimento», e quindi in locuzioni che indicano attitudine, abilità, idoneità, appropriatezza, e quindi anche col significato di «soddisfare» (quello del suo omologo verbo latino satisfacere).

Senza inoltrarci in ulteriori dettagli, è facile vedere quale fosse un tempo il significato dell’«ornamentazione»: fornire tutto quanto è essenziale alla validità di ciò che è «ornato», ovvero qualcosa che ne aumenti l’efficacia, potenziandolo.
Ad esempio: «La mente è ornata (alamkriyate) dal sapere, la follia dal vizio, gli elefanti dallo stato di eccitazione, i fiumi dalle acque, la notte dalla luna, la risolutezza dalla compostezza, la regalità dall’arte di governo». […]

arte-decorativa-portoghese

Un buon esempio dell’impiego di un «ornamento» non come «frivolezza», ma in ragione del suo significato lo si può trovare in Satapatha Brâhmana, 3: 5. 1, 19-20, dove si dice che […] al cavallo bianco del sacrificio si fa portare «un ornamento d’oro, grazie a cui esso diventa la forma, o simbolo, del Sole». Quest’ornamento dev’essere stato simile al disco d’oro a ventuno punte, o raggi, che anche il sacrificatore stesso indossa, e che poi viene posto sull’altare a rappresentare il Sole.
È risaputo che ancor oggi a volte i cavalli vengono «decorati» con ornamenti di ottone (a sostituzione dell’oro, simbolo costante della Verità, del Sole, della Luce, dell’Immortalità, ecc.) il cui significato è palesemente solare; sono precisamente forme come questi simboli solari quelle che, quando la vita si trova a svolgersi in un contesto secolarizzato, e i significati sono caduti nell’oblio, sopravvivono come superstizioni e vengono considerate solo come forme artistiche o ornamenti, da giudicarsi belli o brutti non secondo la verità che essi contengono ma secondo le nostre simpatie e antipatie.

Se i bambini sono sempre stati inclini a giocare con oggetti utili o copie in miniatura di oggetti utili, come ad esempio carretti, usandoli come giocattoli, forse dovremmo considerare il nostro estetismo il sintomo di una seconda infanzia; noi non diventiamo adulti.

Basta con il sanscrito. La parola greca κόσμος significa in primo luogo «ordine» (sanscrito rta), con riferimento sia al giusto ordine o disposizione delle cose sia all’ordine cosmesi-eccessodel mondo («l’ordine bellissimo dato da Dio alle cose», Tommaso, Summa teologica, 1: 25, 6); e in secondo luogo «ornamento», dei cavalli come delle donne, degli uomini o del linguaggio.
Il corrispondente verbo κοσμέω vuol dire «ordinare o disporre», e secondariamente «equipaggiare, ornare, vestire», oppure ancora si riferisce all’abbellimento retorico: κόσμημα vuol dire ornamento o decorazione, in genere dell’abbigliamento; κοσμητικός significa «abile nel porre ordine», κοσμητική «arte del vestire e dell’ornamento» (in Platone, Sofista, 226, è la cura dei corpi, una sorta di catarsi o purificazione), κοσμητικόν «cosmetico», κοσμητήριον «spogliatoio», κοσμοποίησις l’ornamentazione architettonica, donde la denominazione di «ordine» dorico, ecc.

Anche qui possiamo constatare la connessione tra l’originario significato di «ordine» e quello successivo di «ornamento».
In relazione alla «cosmesi», si può rilevare che nella nostra moderna prospettiva estetizzante l’originario scopo degli ornamenti del corpo (unguenti, tatuaggi, gioielli, ecc.) risulta del tutto incomprensibile. La donna indù si sente svestita e in disordine senza i suoi gioielli, che, per quanto le possano piacere dal punto di vista «estetico», nonché per altri motivi, essa considera come un equipaggiamento necessario, senza di cui essa non può adeguatamente ricoprire il suo ruolo di donna.
Essere vista senza tutti i suoi accessori per lei non significa solo essere priva di ornamenti, ma è anche infausto, sconveniente e irriverente, come il presentarsi a una funzione in veste da camera, o senza la cravatta: solo quando è vedova, e in quanto tale «infausta», la donna abbandona i suoi ornamenti.

Nell’antica India come nell’antico Egitto l’uso di cosmetici non era certamente dettato dalla vanità, ma piuttosto da un’esigenza di decoro. Ciò è forse più evidente in relazione all’acconciatura (κοσμοκόμη; «acconciare» è anche uno dei significati del latino ornare): il riordinarsi la capigliatura è innanzitutto una questione di decoro, ed è per questo che procura piacere; ma non è volto principalmente o soltanto a piacere. […]

cosmesi-egizia

Le leggi artistiche che regolano la decorazione difficilmente avrebbero potuto essere meglio espresse che da sant’Agostino, il quale dice che un’ornamentazione che oltrepassi i confini della responsabilità verso il contenuto dell’opera è sofisticheria, ovvero qualcosa di stravagante e di superfluo. E se questo è un peccato artistico, è però anche un peccato mortale: «Perfino le arti del ciabattino e del sarto richiedono che a esse si ponga un freno, giacché essi hanno posto la loro arte al servizio del lusso, corrompendone la necessità e con l’arte degradando l’arte», scrive san Crisostomo.

«Poiché le donne possono legittimamente adornarsi, sia per manifestare ciò che al loro stato si addice, o anche a questo aggiungendo qualche cosa, allo scopo di far cosa gradita ai loro mariti, ne segue che coloro che fanno tali ornamenti non peccano praticando la loro arte, purché non escogitino cose superflue e bizzarre» (Tommaso, Summa teologica, 2: 2, 169.2).
È superfluo dire che tutto quanto vale per l’ornamentazione delle persone vale pure per l’ornamentazione degli oggetti, perché tutte sono decorazioni – nel senso originario di equipaggiamento – della persona cui appartengono. La condanna riguarda l’eccesso, non la ricchezza dell’ornamento. La regola secondo cui «nulla è utile che non sia onesto» (Cicerone e sant’Ambrogio, sottoscritta anche da san Tommaso) esclude tutta l’arte pretenziosa. La coincidenza qui delle leggi dell’arte con quelle della morale, malgrado siano logicamente distinte, è significativa.

Ciò che abbiamo detto è sufficiente perché si possa ritenere universalmente vero che i termini che ora indicano l’ornamentazione di persone o cose per ragioni unicamente donna-dipintaestetiche, in origine indicavano il loro giusto equipaggiamento, nel senso di completamento; senza tale «soddisfazione» (alam-karana) né le persone né le cose potevano essere considerate efficienti o «semplicemente e veramente utili», così come la Deità, senza i suoi attributi, non potrebbe essere considerata operante.
Questa analogia è di vasta portata. Tutto ciò che è privo di ornamenti è detto essere «nudo». Dio, «denudato di ogni ornamento», è «incondizionato» o «non qualificato»: unico, ma inconcepibile. Ornato, invece, Egli è dotato di qualità che, nelle loro relazioni, sono molteplici e intelligibili. E per quanto questa qualificazione e questo adattamento agli effetti finiti possano essere insignificanti se paragonati alla Sua unità e infinità, queste ultime sarebbero incomplete senza quelli.

Allo stesso modo, una persona o una cosa senza gli ornamenti che le sono propri («nel soggetto o esternamente ad esso adattati») vale come idea, ma non come specie.
Il rapporto tra l’ornamento e il suo oggetto è simile a quello esistente tra la natura individuale e l’essenza: astrarla significa «snaturarla». L’ornamento è «aggettivale» e senza aggettivi, nulla che abbia un nome può avere una esistenza individuale, comunque siano le cose in teoria.

Se d’altra parte l’oggetto viene ornato in modo non appropriato o eccessivo, l’ornamento, invece di completarlo, ne limita l’efficienza, e quindi anche la bellezza, perché il suo grado di attualità è la misura della sua esistenza e della sua perfezione in quanto oggetto specificato e determinato.
L’ornamento appropriato è quindi essenziale sia all’utilità che alla bellezza: a questo riguardo occorre però tener presente che l’ornamento può risiedere «nel soggetto» stesso, e se non è in esso, allora deve essere una qualche cosa aggiunta al soggetto in modo che esso sia in grado di svolgere una determinata funzione.

Il ritenere che il valore dell’arte sia essenzialmente estetico è il risultato di uno sviluppo assai recente e di un concetto provinciale dell’arte, nato dalla confusione tra la bellezza (oggettiva) dell’ordine e ciò che è (soggettivamente) piacevole, e alimentato da un’affannosa ricerca del piacere.
Con ciò non vogliamo dire che l’uomo non abbia sempre ricavato un piacere sensibile dal cosmetica-manifestolavoro e dai prodotti del lavoro; al contrario, «il piacere rende perfetta l’operazione». Vogliamo dire invece che dichiarando che «la bellezza riguarda la cognizione», la filosofia scolastica fa un’affermazione che è stata sempre e ovunque vera, per quanto noi possiamo aver ignorato o possiamo preferire ignorare la verità – noi che, come altri animali, sappiamo ciò che ci piace, invece di apprezzare ciò che conosciamo.

Ciò che vogliamo dire è che spiegare la natura dell’arte primitiva o di quella popolare, o, per essere più precisi, di ogni arte tradizionale, con la supposizione di «istinti decorativi» o di «scopi estetici», non è che una ingannevole proiezione della nostra propria mentalità su un diverso terreno; e inoltre che l’artista tradizionale non vedeva il suo lavoro con gli occhi romantici che abbiamo noi più di quanto egli fosse «amante della natura» nel nostro modo sentimentale.

Intendiamo dire che noi abbiamo separato la «soddisfazione» dell’artefatto dall’artefatto stesso, e l’abbiamo fatta apparire come l’arte stessa nella sua totalità; che non rispettiamo più né avvertiamo più la nostra responsabilità nei confronti del contenuto dell’opera, ma ne prostituiamo la thesis a un’aisthêsis; e che questo è peccato di lussuria.
Ci appelliamo agli storici dell’arte, e specialmente agli storici dell’ornamentazione e a coloro che insegnano «critica dell’arte», affinché si accostino al loro materiale con maggiore obiettività; e suggeriamo al designer che, se ogni buon ornamento aveva in origine un senso necessario, egli forse farebbe meglio a partire da un significato che vuole comunicare piuttosto che dall’intenzione di piacere.

(Coomaraswamy, Il grande brivido)