Bretagna – La morte di Ginevra e Lancillotto

La regina Ginevra, appena spuntata l’alba e nato il giorno, partì dalla torre con le due damigelle più devote e due scudieri sicuri, ciascuno dei quali conduceva un somiere nobildonna-particolarecarico d’oro e d’argento. E tanto cavalcò in loro compagnia che raggiunse un’abbazia di monache fondata dai suoi avi.
Le fu fatta l’accoglienza che si doveva a dama sì nobile qual era; ma, dopo aver fatto scaricare i somieri, ella mandò a chiamare le due damigelle e disse loro: «Damigelle, se volete, potete partire: se volete, potete restare. Quanto a me, io resto, ché voglio rendermi a Dio come le monache che si trovano qui. Così fece mia madre, la regina di Carmelide, che fu considerata ottima dama e che consumò in questa abbazia la fine della vita».

Le damigelle risposero piangendo che non volevano affatto lasciarla e, insieme, andarono a trovare la badessa cui la regina chiese l’abito per tutt’e tre.
«Ah! signora – rispose la badessa – se messere il re fosse trapassato dal mondo, vi riceveremmo ben volentieri e vi faremmo signora su tutte noi! Finché egli è vita, non osiamo tenervi qui, ché senza dubbio egli ci ucciderebbe e ci annienterebbe. Del resto, certo non potreste sopportare il nostro ordine, per voi che avete goduto di tutti gli agi del mondo è troppo penoso».

Ma la regina la prese da parte e le fece notare che, se non l’avessero accolta e le fosse accaduto del male fuori dell’abbazia, il re non avrebbe mancato di adirarsi con le monache; poi le confessò l’angoscia e la pena che pativa e il motivo per il quale desiderava rendersi a Dio: tanto che alla fine la badessa acconsentì ad accoglierla, dicendo che le avrebbe dato gli abiti di religione se il re fosse stato ucciso da Mordret. […]

Il giorno stesso in cui sbarcò, Lancillotto venne a sapere che la regina era morta e defunta da tre giorni nella sua abbazia. Certo, mai dama sì nobile ebbe fine più bella, né più dolcemente e teneramente chiese mercé a Gesù Cristo! Ma Lancillotto fu tanto dolente che nessuna lingua potrebbe raccontare le sue pene: ché egli aveva amato la sua dama più di quanto alcun uomo mortale abbia amato la propria.

Marciò con la sua armata su Winchester dove si erano rifugiati i due figli di Mordret. Ed essi, quando seppero che si stava avvicinando, si dissero che era meglio rischiare una battaglia di cui Dio avrebbe concesso loro l’onore se gli fosse piaciuto, che andar fuggendo per il paese. Per questo fecero con le loro genti una sortita e attesero Lancillotto e i suoi nella pianura.

battaglia-campale

La mischia durò da terza fino a nona, ché erano molti gli armati di una parte e dell’altra. Ma a quell’ora Melehan, il più giovane dei figli di Mordret, prese una lancia corta e grossa, dal ferro tagliente e appuntito, e si volse contro re Lionello: lo urtò dal fianco, spingendo con tutta la propria forza, e tanto che gli inferse il freddo acciaio nel cuore e l’abbatté morto.
Subito Bohor corse addosso a Melehan e d’un colpo gli tranciò l’elmo, il cappuccio di ferro e il capo fino ai denti. Poi si gettò nel centro della mischia, come un lupo in un ovile, uccidendo tutti quelli che raggiungeva, sì bene che intorno a lui i ranghi si scioglievano come ghiaccio al sole e la terra era coperta di morti.

A veder ciò, quelli di Winchester pensarono a salvarsi la vita e presto cominciarono a fuggire, rudemente inseguiti, verso una foresta che si stendeva poco distante, a meno di due leghe inglesi.
Intanto, avvenne che Lancillotto riconoscesse il figlio maggiore di Mordret dalle armi, che erano molto simili a quelle che il padre usava portare: allora rise dentro di sé. Gli corse addosso, la spada levata, rapido come un fulmine che scende dal cielo, e invano l’altro oppose lo scudo al colpo: la lama tranciò lo scudo assieme alla mano che lo teneva. Il figlio di Mordret die’ di sperone e fuggì verso la foresta come cervo davanti ai cani; e così cominciò la lunga caccia.

Sappiate che essi galopparono per tutto il resto della giornata, l’uno chiamando e minacciando, l’altro spronando sì rudemente che il sangue colava dai fianchi del OLYMPUS DIGITAL CAMERAdestriero, tanto che giunsero nel cuore della foresta.
Infine, il cavallo del fuggitivo inciampò e cadde, e il figlio di Mordret si mise in ginocchio, chiedendo mercé. Ma Lancillotto, al passaggio, con un sol colpo gli fece volar via la testa. Dopo di che, senza prestare al corpo neanche uno sguardo, si apprestò a raggiungere le proprie genti.

Ma presto perse la strada e, mentre credeva di avvicinarsi a Winchester, se ne allontanava sempre di più.
Dopo aver errato tutta la notte, al mattino vide di essere di fronte a una montagna deserta e sassosa e, inerpicandosi per un sentiero, giunse a un povero romitaggio ai piedi di una cappelletta antica.
Due valentuomini in veste bianca uscirono per riceverlo, uno dei quali, avendolo riconosciuto, gli corse incontro a braccia aperte e l’abbracciò teneramente: era il vescovo di Rochester, che un tempo aveva messo pace tra la regina e re Artù.

«Bel signore – gli chiese Lancillotto – da quando vi trovate qui? Ho grande gioia d’avervi ritrovato!».
Il vescovo gli raccontò che, dopo la dolorosa giornata di Salisbury, a cui non erano sopravvissuti che re Artù, Lucano il coppiere e Giflet figlio di Do, egli si era rifugiato in quel romitaggio, dove voleva porre il resto della vita al servizio di Nostro Signore Gesù Cristo, in compagnia del valentuomo che vi alloggiava.

«E voi, bel signore – aggiunse il vescovo – cosa farete ora? Non penserete ad emendare la vostra vita, gran parte della quale avete trascorso in peccato mortale? Sappiate che ne sarebbe tempo e che Dio si rallegra meno per cento giusti che per un peccatore che giunge a penitenza».
«Signore – rispose Lancillotto – siete stato mio compagno nel mondo; se a voi piacerà, io sarò il vostro qui».
A queste parole, il vescovo e l’eremita tesero le mani al cielo e ringraziarono Iddio di gran cuore. Lancillotto rimase con loro a servire il Creatore con tutto il proprio potere, e sappiate che il vescovo tanto gli insegnò che egli divenne prete che canta messa. Ma il racconto lo lascia per un istante.

Dopo la morte dei figli di Mordret e la fuga delle loro genti, re Bohor entrò nella città di Winchester e vi fece seppellire Lionello sì riccamente quanto conveniva a re coronato. Dou-eremitaPoi ritornò nel proprio regno, dove si fece eremita, mentre Estor delle Paludi si poneva alla ricerca di Lancillotto.
Un giorno, l’avventura lo condusse proprio al romitaggio dove viveva il fratello. I due s’abbracciarono con gran gioia e Estor non volle ripartire: a sua volta si mise al servizio di Nostro Signore.

Così i due fratelli vissero insieme per quattro anni, menando vita sì pia e pregando, digiunando, vegliando tanto e tanto che non v’era altro uomo che avrebbe potuto sopportare pena sì grande.
Al termine di quel tempo, Estor morì e fu sepolto nel romitaggio stesso. E poco dopo, quindici giorni prima di maggio, Lancillotto sentì che la fine giungeva. Pregò il vescovo e l’eremita, i suoi compagni, di trasportare il suo corpo alla Gioiosa Guardia e di porlo nella stessa tomba in cui era Galeotto, signore delle Isole Lontane, che era morto d’amicizia per lui. Poi spirò.

Allora i due valentuomini costruirono una bara in cui posero il morto, e con gran pena la portarono al castello. Là, fecero alzare la pietra che copriva la tomba di Galeotto, e Lancillotto fu steso accanto al vecchio compagno; poi sulla lastra furono incise lettere che dicevano:

Qui giace il corpo di Galeotto, signore delle Isole Lontane, e accanto a lui riposa Lancillotto del Lago, che fu il migliore cavaliere che mai si sia visto nel regno di Logres, salvo soltanto il figlio Galaad.

Dopo la sepoltura, avreste potuto vedere le genti del castello baciare la tomba come fosse stata quella d’un santo. Quanto al vescovo e al compagno, entrambi impiegarono i loro ultimi giorni a render gloria al Creatore.

E adesso il racconto tace, ché qui termina la storia di Lancillotto del Lago e del Santo Graal e del buon re Artù, quale si trova negli antichi scritti; alcuno potrebbe dire di più senza mentire in tutto e per tutto.
Io rendo grazie a Nostro Signore, come deve fare un peccatore che si è consacrato alle cose secolari, per avermi concesso il potere e l’agio di portare a termine la ricca opera cui mi sono accinto: ché molto mi sono adoprato per portarla a buon fine, e ho concluso una lunga fatica.
Ora che è compiuta, mi riposerò un poco, se piacerà a Dio, e mi prenderò qualche svago.

(La morte di Artù, 34; 40-42)