Kierkegaard – L’io che si perde nelle sue stesse possibilità

Kush-occhiali

Qualora la possibilità vada tanto oltre da rovesciare la necessità, l’io fugge via da se stesso nelle possibilità, senza aver più nulla di necessario a cui poter ritornare: questa è la disperazione della possibilità.
Quest’io diventa una possibilità astratta, si dimena fino alla stanchezza nella possibilità, ma non si muove dal posto e non arriva in nessun posto, perché il posto è precisamente il momento necessario, e diventare se stesso è propriamente un movimento sul posto.
Diventare è un movimento che si allontana dal posto; ma diventare se stesso è un movimento che resta sul posto.

La possibilità sembra così all’io sempre più grande, sempre più diventa possibile, perché niente diventa reale. Alla fine è come se tutto fosse possibile, ma è proprio questo il momento in cui l’abisso ha ingoiato l’io.
Ogni piccola possibilità, per diventare realtà, avrebbe bisogno di un certo tempo. Ma alla fine il tempo che ci vorrebbe per arrivare alla realtà si abbrevia sempre più, tutto diventa sempre più istantaneo. La possibilità diventa sempre più intensiva, ma intensiva nel senso della possibilità, e non della realtà; solo se è intensiva nel senso della realtà, qualcosa di ciò che è possibile diventa reale.

In un momento qualcosa si presenta come possibile, poi si presenta una nuova possibilità e alla fine queste fantasmagorie si susseguono così rapidamente che tutto Magritte-porta-sagomasembra possibile; e questo è proprio l’ultimo momento in cui l’individuo tutto intero è diventato esso stesso un miraggio.
Ciò che ora manca all’io è certamente la realtà; così si dirà anche comunemente, giacché si può sentir dire che un uomo è diventato irreale. Ma osservando la cosa più da vicino, è in fondo la necessità che gli manca. Perché non è, come spiegano i filosofi, che la necessità sia l’unità di possibilità e realtà; è semmai la realtà a essere l’unità di possibilità e necessità.

Se un io si smarrisce così nella possibilità, non è neppure soltanto per mancanza di forza, o perlomeno questo non è da intendersi come di solito s’intende. Ciò che manca in fondo è la forza di ubbidire, di piegarsi sotto la necessità nel proprio io, sotto quelli che si possono chiamare i limiti del proprio essere.
Perciò il male non è neppure che un tale io non sia riuscito a combinare nulla nel mondo; no, il male è che non abbia fatto attenzione a se stesso, che non si sia accorto che quell’io che è lui, è un essere perfettamente determinato, e perciò necessario.

Egli invece ha perduto se stesso per il fatto che questo io s’è riflesso fantasticamente nella possibilità.
Già quando un uomo vede se stesso in uno specchio è necessario che conosca se stesso; altrimenti non vede se stesso, ma soltanto un uomo. Ma lo specchio della possibilità non è uno specchio comune e dev’essere usato con la massima prudenza. Perché di questo specchio, si può dire, nel senso più sicuro, che è bugiardo. Che un io abbia quel tale aspetto nella possibilità di se stesso, è soltanto metà della verità, perché nella possibilità di se stesso l’io è ancora lontano da sé o non è se stesso che a metà.

L’importante è, dunque, come la necessità di quest’io lo determina nei suoi particolari. Avviene con la possibilità, come a un bambino a cui si offre qualche divertimento: il bambino è subito disposto; ma ora bisogna vedere se i genitori gli daranno il permesso, e ciò che vale per i genitori vale per la necessità.
Ma nella possibilità tutto è possibile. Perciò nella possibilità ci si può smarrire in tutti i modi possibili, ma essenzialmente in due.

Hentati-smarrimento

L’una di queste forme è il desiderio, dell’aspirazione; l’altra è quella malinconico-fantastica (la speranza, il timore o l’angoscia).
Come si racconta così spesso nelle favole o leggende popolari di un cavaliere che improvvisamente scorge un uccello raro e gli corre dietro continuamente, e mentre dapprincipio l’uccello sembra molto vicino, ora vola via sempre più finché si fa notte e il cavaliere si è ormai allontanato dai suoi senza poter trovare la via in quella landa in cui è venuto a trovarsi: così si presenta la possibilità del desiderio.
Invece di far ritornare la possibilità nella necessità, l’uomo corre dietro alla possibilità – e alla fine non trova più la strada per tornare a se stesso.

Nell’altra forma, la malinconica, avviene il contrario, nello stesso modo. L’individuo persegue con amore malinconico la possibilità di un’angoscia che lo strappa da se stesso, alla fine egli perisce nell’angoscia ovvero perisce in ciò di cui si angosciava di perire.

(Kierkegaard, La malattia mortale)

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L’io fugge via da se stesso, dice Kierkegaard – e si comprende perché dice così, e non piuttosto che è il Sé (il «per se stesso», il Tao) che cerca rifugio in ogni essere «per l’Altro», aperto all’altrui, qual è appunto l’io.
Si comprende: nel teatro di Kierkegaard non c’è altro Soggetto in scena che l’individuo. Egli è, in questo senso, ancora un cartesiano: tutto il suo copione poggia sul «fondamento Duro-egoinconcusso» dell’io – con la sola, non irrilevante, differenza che egli, questo «fondamento», prova a scuoterlo, anche se le armi dialettiche a cui ricorre sono ancora quelle del pensiero che vorrebbe superare. Ancora quelle che, al più, possono concedersi un’apologia dell’«io vero», dell’«io che rimane (sic!) se stesso».

Bisognerà attendere più di mezzo secolo perché, dalle macerie lasciate da Kierkegaard (e non solo da lui), cominci a profilarsi all’orizzonte un altro Soggetto, un Soggetto preter-individuale (l’Es, l’Inconscio, il SI dei «si dice»): certo, un Soggetto non meno illusorio dell’io; anzi, un Soggetto la cui potenza di auto-inganno è tale da spingersi a ingannarsi sulla «realtà» del suo rifugio momentaneo (io). Rifugio, come ci ha insegnato Lacan, «distaccato» dal Soggetto – dislocato sul suo bordo, distante, decentrato, incorniciato, eccentricamente «reietto» in una (angoscia di) lontananza.

Se l’io si rifugia «nelle possibilità» (del suo desiderio), senza lasciarsi una via per tornare alla «necessità», in questo modo – dice Kierkegaard – si condanna alla disperazione delle possibilità: si condanna a disperarsi per l’impotenza a celebrare le «nozze immaginali» a cui anela il suo desiderio. Proprio nel momento in cui immagina che tutto è possibile, proprio al culmine di questo delirio, l’io è ingoiato nell’abisso – nel fondo senza fondo della sua propria immaginazione: nell’insensatezza del suo essere.

A furia di frequentare il Possibile, e solo quello, l’io non ha più tempo per il Reale. Vive sempre e solo l’istante, l’attimo fuggente, il desiderio a cui, istante per istante, è presente.
Perciò il suo desiderio non ha tempo e trova mai estensione fuori di sé. Tutta la sua tensione è rivolta all’interno della sua istantanea possibilità, e così «la possibilità diventa sempre più intensiva», sempre più autoriflessiva e concentrata unicamente sulla sua libido.

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Subito dopo, però, Kierkegaard aggiunge: «solo se è intensiva nel senso della realtà», solo cioè se questa «pazzia» dell’io, se questo suo inguaribile narcisismo, diventa una malattia reale – un’«intensità» (affettiva) capace di «invadere» la res extensa, capace dunque di «scavare dentro se stessa», e di amplificarsi in profondità fino a raggiungere, laggiù, la Realtà – solo a questa condizione, dice, può realizzare qualche sua possibilità.

Il guaio è che, istante per istante, desiderio succede a desiderio, e perciò l’io è preso in una vertigine immaginativa, che trova pace e s’acquieta solo quando la fantasmagoria impazzita gli restituisce il miraggio di se stesso.
Ci vuole poco a riconoscerlo: è Narciso, è l’Illuso Primo, il Padre di tutti gli «io». E il miraggio, l’allucinazione, è l’avvenimento in cui il Sé, il «per se stesso», si rimette alla sua propria immagine, s’identifica nel proprio segno, nella Forma che lo specchio gli rinvia del suo corpo.

A Narciso non manca la forza di avventurarsi nella Realtà. A Narciso manca, secondo Kierkegaard, il riferimento a una «necessità»: manca un patto, una parola data, un obbligo qualsiasi verso il passato.
Narciso si rifiuta alla seduzione di Eco, non dà ascolto alle parole altrui, e non è disposto a orientarsi che alla sua immagine. Narciso allo specchio non vede una qualunque forma Narciso-disegnoumana, ma vede la Forma a cui in se stesso anela. Vede il Possibile della sua immaginazione.

Ma la «necessità» è altrove. La «necessità» a cui il suo Possibile immaginale dovrebbe dare ascolto per intensificarsi e scavare realmente in fondo a se stesso, è sempre nello specchio in cui si riflette – solo che non si vede, non cade sotto lo sguardo di Narciso, perché è (Eco) senza corpo.
La «necessità» è la Parola del Patto, è il Linguaggio Simbolico. Bisogna dunque che il Possibile dell’immaginazione passi per la traduzione dei segni e delle parole, per non rimanere ostaggio delle sue vertigini.

Solo per questa via si va alla Realtà Umana. Solo così il cavaliere disperato trova una via d’uscita dal labirinto delle sue immaginazioni. La strada – dice Kierkegaard – per «tornare a se stesso».
Sarà paradossale, ma è così: solo fuoriuscendo dalla propria immaginazione, solo alienandosi nella Lingua di una Gente, l’«io» può arrivare a esplorare le radici della sua propria intimità.
Solo laggiù può arrivare a scoprire che il suo «io» è un altro – e che è l’Altro ad alterarsi in lui, e che il suo «io» gli è necessario come interlocutore a cui l’Altro, sin dal principio, e quindi anche dal fondo della sua stessa immaginazione, rivolge la Parola per ingannare se stesso.