La riproduzione dello Stesso non è motrice di gesti. È noto che persino l’imitazione più semplice comprende la differenza tra l’esterno e l’interno. E anzi, l’imitazione ha solo un ruolo regolatore e secondario nel costruire un comportamento, consentendo di correggere movimenti sul punto di farsi, e non di instaurarsi.
L’apprendimento non si fa nel rapporto che va dalla rappresentazione all’azione (come riproduzione dello Stesso), ma nel rapporto che va dal segno alla risposta (come incontro con l’Altro).
Almeno in tre modi il segno comprende l’eterogeneità: primo, nell’oggetto che lo porta o lo trasmette, e che presenta necessariamente una differenza di livello, come due ordini di grandezza o di realtà differenti, tra cui balena il segno; secondo, in se stesso, in quanto il segno avvolge un altro «oggetto» nei limiti dell’oggetto portatore, e incarna una potenza della natura o dello spirito (idea); terzo infine, nella risposta che esso sollecita, dato che il movimento della risposta non «somiglia» a quello del segno.
Il movimento del nuotatore non rassomiglia al movimento delle onde; e per l’appunto, i movimenti del maestro di nuoto che noi riproduciamo sulla sabbia non sono niente in rapporto al movimento delle onde che noi non impariamo ad evitare se non prendendole all’atto pratico come segni.
Per questo è così difficile dire come uno impara: c’è una familiarità pratica, innata o acquisita, con i segni, che fa sì che ogni educazione sia un rapporto d’amore, ma anche di morte.
Noi non apprendiamo nulla da chi ci dice di fare come lui. I nostri soli maestri sono quelli che ci dicono di fare assieme a loro, e che, anziché proporci dei gesti da riprodurre, hanno saputo trasmettere dei segni da sviluppare nell’eterogeneo.
In altri termini, non esiste ideo-motilità, ma soltanto sensorio-motilità. Quando il corpo combina taluni suoi punti singolari con i moti principali dell’onda, lega il principio di una ripetizione che non è più quella dello Stesso, ma che comprende l’Altro, che implica la differenza, da un’onda e da un gesto all’altro, e che trasporta tale differenza nello spazio ripetitivo che si è così costituito.
Apprendere, è proprio costituire questo spazio dell’incontro con dei segni, i cui punti determinanti si ripercuotono gli uni sugli altri, e dove la ripetizione si forma nello stesso tempo in cui si maschera.
E sempre si danno immagini di morte nell’apprendimento, grazie all’eterogeneità che sviluppa, ai limiti dello spazio che crea.
Perduto nella lontananza, il segno è mortale; e ciò anche quando ci colpisce in pieno. Edipo riceve il segno una volta da troppo lontano, una volta da troppo vicino; e tra i due momenti viene a intessersi una terribile ripetizione del crimine. Zarathustra riceve il «segno» ora da troppo vicino, ora da troppo lontano, e solo alla fine intuisce la giusta distanza, che muterà ciò che lo rende malato nell’eterno ritorno in una ripetizione liberatoria e salvatrice.
I segni sono i veri elementi del teatro. Essi attestano le forze della natura e dello spirito che agiscono sotto le parole, i gesti, i personaggi e gli oggetti rappresentati, e che significano la ripetizione come movimento reale, in opposizione alla rappresentazione come falso movimento dell’astratto.
Possiamo a buon diritto parlare di ripetizione quando ci troviamo dinanzi a elementi identici proprio con lo stesso concetto. Ma da codesti elementi discreti, da codesti oggetti ripetuti, va distinto un soggetto segreto che si ripete attraverso di essi, vero soggetto della ripetizione.
Occorre pensare la ripetizione al pronominale, trovare il Sé della ripetizione, la singolarità in ciò che si ripete. Giacché non c’è ripetizione senza un ripetitore, nulla si può ripetere senza un’anima che ripeta.
Allo stesso modo, piuttosto che il ripetuto e il ripetitore, l’oggetto e il soggetto, occorre distinguere due forme di ripetizione.
In ogni caso, la ripetizione è la differenza senza concetto.
Solo che nel primo caso [quello dei sinonimi, o più in generale della metonimia], la differenza è soltanto posta come esterna al concetto: differenza tra oggetti rappresentati sotto lo stesso concetto, che ricade nell’indifferenza dello spazio e del tempo.
Nell’altro caso [quello degli omonimi, o più in generale della metafora], la differenza è interna all’idea e si dispiega come puro movimento creatore di uno spazio e di un tempo dinamici che corrispondono all’idea.
La prima ripetizione è ripetizione dello Stesso, che si esplica attraverso l’identità del concetto o della rappresentazione; la seconda comprende la differenza, e si comprende a sua volta nell’alterità dell’idea, nell’eterogeneità di una «rappresentazione».
L’una è negativa per difetto del concetto, l’altra, affermativa per eccesso dell’idea. L’una è ipotetica e statica, l’altra categorica e dinamica. La prima è ripetizione nell’effetto, la seconda nella causa. L’una è in estensione, ordinaria, orizzontale, l’altra è rilevata, singolare, verticale. La prima è sviluppata, esplicata, la seconda è avvolta e quindi da interpretare.
L’una implica la rivoluzione, l’uguaglianza, la commensurabilità, la simmetria, l’altra l’evoluzione, il disuguale, l’incommensurabile o il dissimmetrico. L’una è materiale, l’altra spirituale, anche nella natura e nella terra. L’una è inanimata, l’altra ha il segreto del nostro morire e del nostro vivere, dei nostri asservimenti e delle nostre liberazioni, del demoniaco e del divino. L’una è una ripetizione «nuda», l’altra una ripetizione vestita, che si forma a sua volta vestendosi, mascherandosi, travestendosi. L’una è ripetizione di esattezza, l’altra ha come criterio l’autenticità.
Queste due ripetizioni non sono indipendenti, in quanto la prima è il soggetto singolare, il centro e l’interiorità dell’altra, la profondità dell’altra, mentre la seconda è soltanto l’involucro esteriore, l’effetto astratto.
(Deleuze, Differenza e ripetizione)
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Non si apprende che là dove i nostri «moti interni» insorgono per reagire ai segni che l’insegnante di turno ci propone. Non si apprende che là dove un segno incrocia i nostri «gesti interni» già in atto, e li provoca a «esibirsi», a farsi avanti, a venire incontro o contro l’Altro, a misurarsi e a fare i conti con esso.
Il segno non è mai segno di se stesso. Perciò, non c’è nulla di più sciocco che pensare di insegnare a «riprodurre lo Stesso», e guai a chi sgarra anche solo di un millimetro o di un quarto di tono!
Il segno, un maestro qualsiasi dovrebbe saperlo, è sempre eterogeneo, sempre altruista, in quanto nato cresciuto e pasciuto all’insegna dell’Altro. Il segno è sempre segno di qualcos’altro di ciò che, alla lettera, «trasporta». Una vecchia foto ci «commuove»: incontrandola, le nostre «emozioni» deviano verso una nostalgia – ovvero, come dice Deleuze – oscillano tra due livelli, tra due tempi o realtà differenti, e nel vuoto aperto da questa loro «differenza» ecco: (a volte) «balena il segno».
In se stesso, questo «segno» è tutt’altro da chi o cosa vi è «segnato»: il Segno «avvolge», copre, maschera – altera – la potenza che vi si inscrive.
Così, per capirci, Eros si maschera nei fotogrammi di un poema infinito sulla nascita di Afrodite: esibendo la dea nell’atto di sorgere dalla schiuma del mare, esercita la sua potenza abissale, nascosta, senza corpo.
Il segno è, dunque, sempre il veicolo d’Altro – e sempre è un richiamo che sollecita una «risposta» altra da quella che è in esso inscritta. Il segno, perciò, l’apprende solo chi lo altera, solo chi continua l’opera della sua perpetua trasformazione.
Se rispondiamo ai segni dell’insegnante, è perché c’è nella nostra mente un’attitudine al linguaggio dei segni: abbiamo, dice Deleuze, una familiarità pratica, innata o acquisita, con i segni. Un’attitudine a «muoverci» in direzione di quei «segni» che ci pare di «riconoscere», ma non perché uguali (come filosofeggia Platone), bensì, al contrario, proprio perché differenti, devianti, storti rispetto all’«ordine» che noi, ancora prima d’incontrarli, ci immaginavamo.
Li riconosciamo, e siamo spinti ad andare loro incontro (a trasformarli), perché discordano da quelli che ci aspettavamo d’incontrare – lì, in quel certo gesto, in quel nostro movimento già in atto, già in cammino, già instaurato.
L’insegnamento non ha niente da insegnare, finché si ostina a ignorare che tra l’apprendista e i segni, se qualcosa accade e si accende la classica lampadina, è perché subentra una «relazione d’amore», se non una questione di vita e di morte.
Basterebbe questo per capire che c’è della libido in ogni apprendimento, e che come ogni libido, anche questa proviene da un remoto quanto inestinguibile istinto di morte. Basterebbe, eccome, per dedurne che c’è sempre della pazzia, e di quella più «erotica», nella genialità di ogni apprendista (stregone).
Andarsi a giocare la vita (proprio così) scommettendo sulla potenza d’un segno – vedi tu se non è questa la pazzia (della sapienza) umana.
Beatrice non è segno di se stessa, ma se Dante non avesse scommesso su di lei tutte le sue parole, se non avesse perdutamente «amato» quel segno, e solo quello di quando aveva appena nove anni, no che non l’avrebbe mai portato a significare, neanche alla lontana, la potenza nascosta nei deliri immaginali della sua infanzia.
Dante apprese Beatrice, e solo da lei – se no, da chi? – apprese la via per andare di là da Beatrice. Dal segno … oltre il segno. Da una parola … al di là di tutte le parole, quelle della Commedia comprese.
La ripetizione si forma nello stesso tempo in cui si maschera. La ripetizione si ripete sempre mascherata da un segno. Perciò, il Ripetente rimane sempre segreto, sempre nascosto dietro i segni che gli fanno da maschere.
Il Ripetente, il «soggetto vero della ripetizione», non è né l’insegnante né l’apprendista. Né io, né tu, e neanche Lui o Lei. Il «nome» che gli si dà, il segno che di volta in volta usiamo per «rappresentarlo» nei nostri catechismi, è solo la sua maschera provvisoria.
Perciò, dice Deleuze, non è un soggetto «nominale», ma al più pronominale, a patto però di prendere il Pronome Riflessivo per eccellenza: il Sé, il Se Stesso – dal momento che di maschera in maschera il Ripetente non fa che mascherare sempre e solo se stesso. Niente meno e niente più che ripetere solo la sua singolarità, ripetere cioè solo quel che di irripetibile si trasporta nella ripetizione apparente di un concetto.
In quanto alle due forme di ripetizione … possiamo prendere o due segni differenti (due sinonimi per es.) di uno stesso concetto (nel qual caso la differenza è esterna al concetto, riguarda solo i segni che significano lo Stesso), oppure uno stesso segno (omonimo o omofono, per es.) per due concetti differenti (e allora la situazione s’inverte: stavolta è il segno, quell’unico segno, a mettersi al servizio di differenti significati).
La prima ripete lo stesso concetto – o meglio lo stesso deficit concettuale: quasi che il concetto sia impotente a differenziarsi (in modo da essere unico per un unico segno), impotente, per es., a sdoppiarsi tra urlo e grido. Come se a tale riguardo il concetto non avesse più nulla da concettualizzare.
L’altra invece, quella che ripete lo stesso segno, il segno omonimo o omofono, costringe il concetto a moltiplicarsi, lo spinge a differenziarsi in più concetti per stare al passo di un eccesso di significazione, racchiuso come in una matrioska ancora tutta da aprire.
Perciò, la prima è statica, e la seconda dinamica …
La prima s’appaga a ripetere sulla cornice, variando i segni con cui esibire lo Stesso affresco. La seconda invece lavora in profondità, scava dentro l’affresco, a partire da un solo geroglifico dipinto sul bordo di un proprio desiderio.
La prima si compiace a mascherarsi sempre diversamente: la seconda, da una sola maschera, da una sola Beatrice, s’aspetta che si schiudano i petali della candida rosa – tanti petali quante sono le donne «inviate» a manifestare il Sé della Madonna, come segno estremo – ultimo nome della singolarità, concettualmente irripetibile, del Sé. Ma libidinosa mente ripetibile di poeta in poeta, sebbene ciascun poeta sia vincolato a non sapere mai se a «commuoverlo» davvero è la Madonna o soltanto un impersonale Sé macchinato nel cuore del suo essere.